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Insight

Autore
Vincenzo Reale
Ospite Esterno
Narrativa generale
28 ottobre 2020

Barbara d’Urso era tornata. Mi guardava attraverso i cristalli liquidi, immacolata, mentre la colombiana in bagno si sciacquava la vagina sul bidet. L’inquadratura si spostò su Tony Effe, che guardò la camera e disse Quanto cazzo sono british, bitch! Il pubblico in visibilio, Barbara d’Urso quasi commossa. La colombiana scoppiò a ridere. Le piaceva, la Dark Polo Gang. Disse che se fingi di fingere, alla fine la gente crede davvero che tu non sappia fingere. Marisol si asciugò e tornò in salotto, Amore, sono setanta. Boca novanta, lato B scento, disse. Le guardai le cosce. Non erano come in foto. Avevo letto l’annuncio su bakekaIncontri: sono Marisol, colombiana, 29 anni, passionale, vogliosa / lato B, pioggia dorata, cioccolata calda, massaggio prostatico, tutti i preliminari, doccia / sono a tua disposizione, per te tutto quello che vuoi / solo uomini eleganti e distinti / per pochi giorni in città / ti aspetto in luogo pulito, asciutto e profumato / aria condizionata / wi-fi / parcheggio auto / sky / esperienza da fidanzata / handjob / sesso di gruppo / mistress / sex toys / gola profonda / orale senza preservativo / spagnola / CIM / CIF / bacio con lingua / bondage / fetish / BDSM / anale (Greek) / 69 / fisting / escort duo & lesbo show / doppia penetrazione / ti guardo negli occhi e aspetto che vieni / chiamare dalle 10 alle 23 / no whatsapp, no numero anonimo (non rispondo!) / sono come mi vedi in foto, provare per credere. Dissi che andava bene settanta, non mi interessava altro. Marisol e Barbara d’Urso mi guardarono sospettose, forse impietosite. Barbara d’Urso si fece un po’ più avanti, lì sul suo divano candido, Marisol poggiò le mani sui fianchi, Sei sposato?, chiese, sorrisi e le dissi che no, che non ero sposato e che però ero fidanzato, possiamo dire, e che però potevo dire di non esserlo, perché era finita, sì, perché io e Alice ci eravamo lasciati, alla fine. Marisol abbassò il volume della tv e lanciò il telecomando sul letto. Volevo un sesso dissacrante. Si trattava di perdere la dignità, sul letto; si trattava di penetrare anche l’anima, violentarla, annientarla, sentire la sua lingua rimbalzare contro il lattice, vedere qualcosa di indipendente da te dipendere da te, tirarle i capelli come fosse una bambola, strapparglieli mangiarglieli, ascoltare il rumore della pelle che cozza contro altra pelle, un rumore secco e acuto che fa salire la schiuma alla bocca e che non stanca mai; un atto divino e bestiale come pregare, sì, il coito doveva essere l’Atto di fede, lo schizzo di sperma uno sputo alla morale, il flagello divino, un gesto supremo di onnipotenza. Un attimo, poi tornavi nella tua caverna, sotto un lenzuolo impregnato di sudore, la tua sindone, morto e risorto e di nuovo pronto a morire – niente ascensione al cielo, però: solo la discesa al piano terra con l’ascensore del condominio.

Dallo studio 10 di Cologno Monzese Tony Effe unì indici e pollici, Tanti cuoricini, disse. Aveva vinto il Grande Fratello Vip, il pubblico aveva premiato la sua sincerità e le sue lacrime, aveva amato la sua umanità. I vip sono chi tu vorresti essere, ma quando entrano nella Casa si scoprono come tu già sei adesso, e quando ne escono sono te come avresti sempre voluto essere: umano, con le lacrime agli occhi, fragile ma con la forza di un leone, bello, profondo, che prima del successo, al primo posto, mette la figlia di undici anni che lo guarda da casa e gli dice Forza papà, sei il papà migliore di tutti, ti guardo sempre in tv, non mollare, sei il papà più forte del mondo, ti salutano i nonni, si vergognavano a fare un video, ti aspetto a casa papà e per favore non ti arrabbiare con Lory Del Santo, sono i suoi settecento antidepressivi a farla parlare in quel modo, ti voglio tanto tanto bene, ciao papà. Sei tu, sono sempre io che interpreto il me che non recita, il me autentico, quello che non si è mai visto ma che ora si vede tutto il giorno. Tony Effe aveva vinto per questo, perché dietro gli occhiali da sole e sotto tutti quei tatuaggi c’era un ragazzo dal cuore d’oro, il figlio il padre il fratello che vorremmo tutti, che prima di cantare aveva lavorato nella macelleria dello zio e lo zio era cieco e la macelleria rischiava di chiudere e invece ora lui aveva fatto il cash e aveva salvato la macelleria e aveva pagato un paio di puttane per lo zio cieco. E allora anche lo zio cieco gli aveva inviato un videomessaggio dove ballava nella macelleria con due puttane francesi che coprivano il seno con sottili fettine di vitello e ballavano e cantavano con le salsicce di maiale, Ciao campione, vedi tutto questo, tutto questo lo devo a te, perché sei un ragazzo speciale, perché non hai mai mollato, io sono cieco però ho visto dentro di te una luce, ho visto qualcosa che gli occhi non possono vedere e ora posso toccare con mano la felicità! Tony Effe aveva vinto, aveva affascinato il mondo, e la Nasa in suo onore aveva deciso di incidere sul fianco della sonda “Trap Lovers”. Il trapper era con Barbara d’Urso proprio perché da lì a pochi minuti la sonda Insight avrebbe raggiunto Marte e sarebbe atterrata. Sei mesi di viaggio, centinaia di milioni di chilometri, un ammasso di ferro, cavi, degrees of freedom, end-effectors, encoders, parole nello spazio a ventimila chilometri l’ora. Barbara d’Urso analizzò la sonda Insight con Tony Effe e Cristiano Malgioglio, poi disse che stavano per cominciare i “sette minuti di terrore”. Per sette minuti la Nasa e il mondo non avrebbero potuto sapere cosa stesse facendo Insight. Sette minuti di fuoco, in cui la sonda avrebbe tentato di penetrare l’atmosfera e atterrare su Marte; sette minuti da sola, carica di energia, il pesante fardello di compiere un insieme intricato di complessi movimenti e non fallire mai. In quei 420 secondi, un’eternità, gli scienziati non avrebbero potuto fare niente. Anni e anni di studi e esperimenti potevano risultare inutili. Per arrivare a quei sette minuti era stato necessario inventare la ruota, scrivere la Bibbia, costruire le piramidi, Taratantara, Eratostene, Nerone che canta e Roma che brucia, la polvere da sparo, la poesia e la peste, il vassallaggio, la torre di Pisa, un paio di mele, Mozart, Robespierre, il rosso, la penicillina, il tempo libero di Einstein, la Polonia, Yuri Gagarin, Guru Josh Project, Tinder, il rigore di Grosso, World of Warcraft, il Grande Fratello, El Chapo, la trap, Alice. Ero lì ad aspettare l’ammartaggio con una puttana colombiana perché io e Alice ci eravamo lasciati. Chissà se avrebbe aspettato anche lei quei sette minuti, perché quella volta ne avevamo parlato, di Marte. Eravamo da qualche parte. Poteva essere un aereo, un carrarmato, una meteora. Uno dei due piangeva, forse entrambi. Venne fuori che qui non c’è niente di sicuro, che non sapevo cosa cazzo stessi facendo. Gli antidepressivi, gli antiepilettici, gli stabilizzatori dell’umore mettevano ancora più confusione in testa, e allora bevevi per star meglio ma poi stavi peggio, stavi peggio ma ne volevi di più, allora bevevi ancora e stavi sempre peggio perché è così che funziona su questo pianeta, vuoi sempre di più sempre di più, più di quanto forse puoi permetterti, ma lo vuoi e basta, quel di più, quel massimo, quella perfezione, la vuoi, cazzo, o meglio, la vuole il tuo corpo, le tue ossa e i tuoi nervi dicono ancora, ancora, e tu forse potresti anche fermarti, ma non ci riesci, e sei costretto a lasciarti ogni cosa alle spalle, anche le cose migliori che hai trovato, abbandonarle, perché forse non meritavi neanche quelle e sì, si trattava anche di meriti e colpe, di imperfezioni, di una lotta eterna contro i vizi, i difetti, di trovare un senso a quello che facevi, di trovarti un ruolo, su questa terra o peggio ancora di capire e accettare il ruolo che già ti era stato assegnato, che non puoi cambiare, e che poteva essere misero o grande: un maniaco un assassino brillante che sorrideva alle telecamere durante il processo, un Papa che abdicava, il più grande scrittore del secolo o un perdente che scriveva poesie orribili in pantofole a casa di mamma e papà, si trattava di questo, di capire cosa volevi, in fondo, cosa volevi davvero, perché lo volevi e se potevi decidere di non volerlo più. Volevi una letteratura migliore?, una letteratura raffinata e sensuale come gli spot dell’Iphone, spregevole e eversiva come la Trap, elettrica deflagrante travolgente come la musica elettronica, armoniosa e splendente e perfetta nella forma come la palla di fuoco galleggiante che chiamiamo Sole?, eccola servita, se era questo che volevi, ma non potevi avere tutto, no, e allora sceglievi, come sempre, e dovevi scegliere anche il momento esatto, tempo e spazio, come quando eri indeciso se pisciare subito ora al bar o trattenerla fino a casa o si trattava di arrenderti all’idea che non sapevi cosa cazzo volesse dire amare, se avessi mai amato davvero e se ne saresti mai stato capace, chissà, chissà se il tuo destino, il mio destino era di realizzare questo, proprio questo, Agnello di Dio!, di essere il poco che cerca il troppo, nato come esperimento infelice, Dio, se ci sei ascoltami, perché il dolore è troppo ed è l’unica cosa che in fondo forse non voglio, il mio e quello di Alice, soprattutto il suo, Dio, Alice, capisci cosa sto dicendo? Per favore non piangere non piangere, ché piango anch’io, alla fine siamo anche fin troppo fortunati, davvero, pensa che vedremo il primo uomo su Marte, pensa un po’, il primo uomo su un altro pianeta, sarà davvero un prodigio, sarà grande.

Ci siamo, annunciò Barbara d’Urso, sette minuti da adesso. Gli scienziati della Nasa si abbandonarono sulle sedie, le braccia stanche. Tony Effe e Malgioglio si tolsero gli occhiali da sole, Marisol mi offrì un bicchiere di vino e si sedette accanto a me sul bordo del letto, nuda con l’accappatoio aperto. La sonda Insight con su scritto “Trap Lovers” aveva trapassato l’atmosfera. Ora poteva contare solo sul computer di bordo. Da lì a 3 minuti e 38 secondi doveva aprirsi il paracadute, 15 secondi dopo si doveva staccare lo schermo termico protettivo, 10 secondi dopo si dovevano estendere le zampe. Da lì, la discesa doveva continuare per 1 minuto e 57 secondi: in un secondo si sarebbe dovuto staccare il paracadute e la parte superiore dell’involucro protettivo, poi dovevano accendersi i retrorazzi per rallentare. Quando fossero mancati 15 secondi alla superficie, il moto di Insight doveva essere perfettamente verticale, 2 metri al secondo fino all’atterraggio. Ma quella cosa lontana 160 milioni di chilometri da noi eravamo proprio noi, ero io, schizzato sul pianeta Rosso con tutte le puttane e i problemi del pianeta Terra, con Marisol e Barbara d’Urso e tutto il resto.

Qui in sette minuti scopi una puttana, uccidi, leggi un racconto, e forse lo leggi troppo veloce per capirlo davvero. Qui il tuo tempo è scandito dalla tua discesa apocrifa, e che atterri o ti schianti non importa a nessuno, non importa affatto, perché nessuno ti ha programmato e nessuno starà ad aspettarti, se non la terra. Quello che chiamavo amore era una questione di tempistiche e intuizione, l’apertura tempestiva e propizia del paracadute. Non mi era bastata la ragione, non mi era bastato un abbraccio, la comprensione, la pietà. Scendevo in picchiata e mi aspettava la terra, sette squilli di tromba, pochi secondi in ascensore e il tempo sarebbe scaduto.


Illustrazione “The Glitch One” di Seamless