Mano.
Qualcosa mi tocca e mi sveglio terrorizzato. È giorno, il sole esplode nella mia camera. Strizzo gli occhi e guardo attorno: stanza vuota, la sagoma luminosa della finestra sulle coperte. Qualcosa mi ha toccato il fianco, l’ho sentito, non era un sogno. Penso ad un animale, la puntura d’un insetto e tiro via le coperte. Lenzuola, federe, cuscino, tutto sul pavimento, e la vedo. È stata lei. Mi chiedo come sia possibile. Il battito cardiaco accelera, i pori si dilatano, i peli del braccio si rizzano in un brivido. È stata la mano a toccarmi, la mia mano paralizzata. Come è potuto succedere? Non ho il tempo di urlare che la mano si muove ancora. È viva. Mi ritraggo e cado dal letto. Il coccige incontra il pavimento e urlo fino a farmi male. La gola brucia, la voce diventa ruggine. Striscio, tenendo il braccio lontano da me. Colpisco la parete con la schiena e mi zittisco. La mano penzola inerte. Sudo. Fredde gocce di sudore mi segnano la fronte, colano lungo i peli delle ascelle. Lascio il braccio cadere sul pavimento: nessuna reazione. Faccio lunghi respiri e inizio a razionalizzare. La mia mano sinistra è paralizzata, non può essersi mossa. Dev’essere stato uno spasmo involontario, un riflesso muscolare. Che idiota che sono.
Mi alzo e vado al computer. Accendo e cerco informazioni. Ci metto un po’ a scrivere con una mano sola. Dall’incidente sono cambiate molte cose. Scorro i risultati: Apotemnofilia, desiderio erotico d’amputarsi gli arti; Emisomatoagnosia, illusione che una parte del corpo non esista più; Somatoparafrenia, fobia che un proprio arto sia alieno. C’è una lista infinita di disturbi che potrei avere, è sempre così con internet. Guardo la mano che giace accanto alla tastiera e mi convinco che non ho nulla del genere, non sono matto. Chiudo tutto e vado in cucina. Ho bisogno di un caffè.
Frigo, dispensa, sportelli, tappi, manopole, tutto il mondo è un apri e chiudi. Ci fai caso quando hai una mano sola. Svito la moka stringendola tra le gambe, la imbastisco e la metto sul fuoco. E succede ancora: sento toccarmi la gamba sinistra. Bestemmio e mi guardo la mano paralizzata. Rabbrividisco, i piedi diventano leggeri e le viscere si contraggono. Le dita della mano si muovono incontrollatamente, si piegano, contorcono, s’intrecciano, sembra una bestia in agonia. Afferro il polso sinistro come fosse la testa di un serpente e cerco di tenerlo fermo. Cosa mi sta succedendo?! La mano funziona ma non sento nulla, nessuno stimolo, nessuno sforzo, vive di vita propria. Ogni tanto si affloscia, come una marionetta senza fili, poi riprende ad agitarsi, assume posizioni che non credevo possibili. Si stiracchia, poi si chiude fino a far schioccare le nocche. Vedo il pollice piegarsi all’esterno e mi sento svenire. La caffettiera fischia, lo sbuffo di vapore bollente m’investe e girandomi butto tutto a terra. Corro via: piedi nudi nel caffè rovente, il fornello che si spegne e gas nell’aria.
Precipito in bagno senza pensarci, infilo la mano sotto l’acqua gelida ma non serve a nulla. L’avvolgo in un asciugamano, a volerla soffocare, e la sbatto sul lavandino, come se stessi uccidendo un polpo. Tutto inutile. Adrenalina in circolo, ho paura. Torno in cucina correndo. La mano continua a muoversi. Sento puzza di metano. Chiudo il gas e spalanco le finestre. C’è il cassetto delle posate aperto. Agisco senza pensare: ci infilo la mano e lo chiudo più volte su di essa. Non sento nulla. Vedo la mano contorcersi ad intermittenza. Dieci, venti colpi, le posate sussultano in un tintinnio. Quando mi fermo ho l’affanno. La mano è tumefatta, l’anulare orribilmente spezzato, il palmo gonfio e contuso. Mi sento andar via di nuovo e per non svenire mi accascio a terra. Cadendo il cassetto si sfila rovesciandosi sul pavimento. Coltelli, forchette, cucchiai, rimbalzano e si spargono ovunque. La mano adesso è immobile. Tengo il braccio inerte, per terra.
Cosa mi sta succedendo? Devo farmi vedere da un medico, andare al pronto soccorso. Ho fatto un disastro: anulare rotto, il palmo gonfio, come il gozzo di un rospo, viola livido, unghie spezzate, conficcate nella carne. Per fortuna è finita. Poi la mano ha uno spasmo. Riprende a muoversi, lentamente, come se stesse resuscitando. Non capisco più nulla. Vedo un coltello da bistecca per terra, lo afferro, chiudo gli occhi e pugnalo la mano con un urlo. L’accoltello, in preda ad un raptus, senza guardare. Sento il rumore della carne trafitta, schiocchi umidicci, come colpire una spugna. Sento un liquido caldo bagnarmi il culo, odore ferrigno. Riapro gli occhi: la mano è squarciata, irriconoscibile, il pollice quasi completamente strappato. Vedo il bianco delle ossa attraverso la carne. I tagli sono profondi e assomigliano a vagine spalancate. Il mignolo è stato tranciato via e giace lontano, dietro una striscia di sangue, come se avesse provato a scappare dal massacro. Tutt’attorno una pozza dal colore di merda: è sangue e caffè. La mano non si muove. Ce l’ho fatta. Poi le palpebre diventano pesanti come saracinesche. Sto crepando dissanguato.
Recupero l’asciugamano e tampono le ferite. Raggiungo il telefono in salotto e mi faccio mandare un’ambulanza. “Pronto 118? Aiutatemi, ho avuto un incidente domestico”. Aspetto, steso sul pavimento. Cosa ho fatto? Forse sto impazzendo. Sento le sirene e tiro un sospiro di sollievo. Non voglio pensarci, si occuperanno loro di me. Prima di svenire vedo il mignolo vicino ai miei piedi. Fanculo penso. Ha avuto quello che si merita. Poi ricordo che sono in salotto. Il mignolo lo avevo lasciato in cucina. Il terrore mi attanaglia ma è troppo tardi. Svengo.