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Macchie rosse su sfondo nero, parte 1

Autore
Diletta Pizzicori
Fuori ciclo
Narrativa generale
8 settembre 2022

Ha avuto ciò che si meritava, Rosa.
Probabilmente ti stai ancora arrovellando con il senso di colpa. Le persone buone lo fanno sempre, è il vostro vizio. Perciò fidati: ha avuto ciò che si meritava.
Sai, la notte certe volte è dura e io adesso ho molto tempo per pensare. Perciò spesso mi capita di pensare a te, Rosa, al tuo sorriso, al modo particolare in cui piegavi la testa se qualcuno ti chiamava per strada. Se quel qualcuno ero io, facevi la faccia annoiata ma lo vedevo che ti brillavano gli occhi. Eri bellissima. Mi prometti che, quando ci rivedremo, lo farai di nuovo?
Scusami, sto divagando.
Il mondo è migliore senza di lui. È brutale, eppure non è altro che la verità. Dopotutto, io l’ho conosciuto prima.
All’epoca lavoravo in fabbrica mentre Florio studiava al convitto da interno. Era un ragazzo come tanti, bighellonava al caffè in piazza sfoggiando il suo paio di baffetti alla moda, i vestiti borghesi e la puzza sotto al naso. Era pallido, esile, all’apparenza tranquillo, ma aveva un modo di guardarti che metteva i brividi. Era il genere di tranquillità sotto la quale si nasconde la perfidia. E ora possiamo dirlo con certezza: Federico Guglielmo Florio era perfido, e anche sadico.
Un giorno non lo vidi più al caffè e seppi che era partito volontario insieme ad altri compagni di scuola. Era la guerra, Rosa, quella che avrebbero preso a chiamare Grande, e che di grande non aveva niente.
Gli spari di Sarajevo dovettero riecheggiargli nelle orecchie dolci come un canto di sirena, perché Florio sparì per imbracciare le armi. Nessuno lo costrinse a bagnarsi di sangue, come invece accadde a me; fu una sua scelta. Quelli come lui sono destinati al sangue. La violenza divenne presto il suo pane quotidiano, visto che lo promossero Comandante di Plotone Mitraglieri del 13° Reparto d’Assalto. Un Ardito.
A conflitto terminato il paese era un lazzeretto, non c’è bisogno che te lo ricordi. Avevamo vinto, però a che prezzo? Insieme a molti altri tornai anche io. Fu dura rimettersi in piedi. Noi reduci non avevamo vita facile, come nessuno del resto. Florio, però, era di quelli che non s’impegnavano nemmeno. Sapeva solo lamentarsi, diceva che la nostra era una vittoria mutilata e altre fesserie simili.
Tu forse non lo sai, ma lui restò in prima linea a Fiume, dalla Marcia di Ronchi fino al Natale di Sangue. Evidentemente la gloria non gli era bastata.
Rientrato in città, era un altro. Non tanto nell’aspetto, in fondo era il tipo esile e pallido di sempre; no, io mi riferisco all’atteggiamento. Aveva poco più di vent’anni, però la guerra lo aveva cambiato, lo aveva reso un uomo, uno importante, apprezzato anche da Mussolini e D’Annunzio.
Lo incontrai una mattina durante una manifestazione per le vie del centro. Lui non mi riconobbe. Aveva la sigaretta tra le labbra e quella sua espressione calma e impassibile, quasi di incuranza. Lo avevano messo al comando delle squadre d’azione, sentii che si faceva chiamare ras. Teneva in pugno un frustino, lo stringeva così forte che le nocche gli erano diventate bianche. Sembrava una propaggine della sua mano destra. Te lo ricordi?
Perdonami, Rosa. Certo che lo ricordi.
Quel giorno tirava una brutta aria, la gente non faceva che parlare di spedizioni punitive, soprattutto nella Valle rossa, come la chiamavamo tutti. E vedere Florio col frustino mi parve il segnale che qualcosa di molto brutto stesse per accadere.
Purtroppo non sbagliavo. Scivolai fuori dalla calca appena in tempo, un attimo prima che si scatenasse l’inferno. Dei presenti, chi non finì all’ospedale, finì dritto dritto in caserma. Qualcuno ci lasciò la pelle.
Quell’autunno fu caldo ma non per le temperature. I giornali scrivevano cose tipo: “Macchie rosse su sfondo nero”, “Sangue, sangue e ancora sangue”, “Quando finirà?”. Nessuno l’ha mai voluta chiamare col suo vero nome: una schifosa guerra civile.
Però, Rosa, è stato durante quell’autunno che noi ci conoscemmo, durante un altro sciopero. Eri in mezzo ai manifestanti, portavi i capelli castani raccolti in una treccia e sventolavi una bandiera rossa. Ti agitavi come un’indemoniata. Eri pazza, coraggiosa e bellissima.
Poi arrivò Florio, facendosi largo a suon di frustate e coltello. Ferì un tizio a una decina di metri da noi. C’era molto sangue, e tutt’ora non so cosa mi prese. Fui investito da un misto di paura, rabbia, e di amore, suppongo. Qualsiasi cosa fosse, non potevo permettere che ti accadesse nulla: con quella bandiera in mano non avevo dubbi su ciò che ti avrebbero fatto lui e i suoi amici. Corsi verso di te e, senza spiegazioni, ti sollevai di peso per portarti via.
Mi copristi di insulti. Non avevo mai sentito una donna pronunciare simili ingiurie. Nonostante la situazione, ne rimasi divertito. Mi fermai solo quando oltrepassammo le mura.
«Qui dovremmo essere al sicuro» dissi riprendendo fiato all’ombra di un vicolo.
«Al sicuro un accidente! Io stavo bene dov’ero, cretino!»
«No, signorina, non vicino a…»
«So badare a me stessa, razza d’imbecille che non sei altro!»
«La ringrazio.»
Tu alzasti gli occhi al cielo. «Si può sapere chi diavolo sei?»
«Mi chiamo Cafiero Lucchesi. Lei, invece?»
«Non te lo dico neanche per idea, stupido maiale!»
Te ne andasti battendo i piedi. Io, però, ero felice, sapevo di averti salvata.
Più tardi i miei colleghi mi riferirono che una pattuglia aveva disperso la folla e si era portata via anche Florio. Esultai: finalmente avrebbe pagato per tutto ciò che aveva fatto. Ma quella stessa sera fu di nuovo libero. Lo intravidi al caffè, in mezzo alla solita gentaglia. Quel suo sorriso mi gelò il sangue.
La paura è un sentimento assai complesso, sai. Se c’è una cosa che ho capito in questi lunghi anni lontano da casa è che la paura è difficile da suscitare perché l’uomo, mia cara Rosa, è diventato diffidente, non crede più ai fantasmi, ai diavoli, alle vecchie storie che ci raccontavano nelle veglie davanti al fuoco. Ora crede solo in ciò che può toccare.
Florio, però, era diverso. Lui sapeva incutere paura proprio come quelle vecchie storie. Era il più sanguinario dei fantasmi, il più malvagio dei diavoli. Sono sicuro che persino i suoi camerati lo temessero.
Io e te ci incontrammo di nuovo qualche giorno dopo. Era l’ennesimo sciopero e l’aria che tirava non era certo migliore. Anche se portavi i capelli sciolti ed eri vestita diversamente, facevi più chiasso di tutti.
Avrei voluto salvarti ancora; stavolta, però, ti afferrò Florio per primo.
«Dica un po’, lei, stava cantando Bandiera rossa?» sbraitò, dopo averti spintonata.
«No, imbecille, era l’Internazionale!»
Mi accorsi che gli avevi sputato in faccia quando era troppo tardi. Ti colpì col frustino, accanendosi  sul viso e sul petto.
Furono momenti confusi, me li ricordo a malapena. Ti vidi cadere a terra e in un attimo ti raggiunsi. Gli assestai calci e botte, forse ne ricevetti altrettanti in cambio. In qualche modo riuscii a trascinarti via.
Eri coperta di sangue, stavi perdendo i sensi. Non sapevo cosa fare, a parte scappare. In un vicolo vicino al Duomo, una donna ci fece entrare in casa sua e mi aiutò a ripulirti. Non l’avevo mai vista, ma lei conosceva te e fu merito suo se ti salvasti. Si chiamava Nilde.
«Rosa finirà per farsi ammazzare» disse scuotendo la testa dopo averti adagiata sul letto.
«Non se muore prima lui.»
Nilde mi guardò con un’espressione che non avrei mai dimenticato. «Giovanotto, quelli come lui sono dappertutto. Non muoiono mai.»
Aveva ragione, solo che io non ci volevo credere.
A malincuore ti lasciai alle cure di Nilde e tornai a lavoro. La mia famiglia era numerosa e dovevamo pur mangiare. Però venivo a trovarti ogni giorno dopo che la sirena della fabbrica aveva suonato, e tu mi sorridevi, non mi dicevi più ingiurie. Mi chiamavi compagno. Alla fine fosti in grado di tornare a casa. Fu allora che tutto precipitò.
Raccontarono che quel giorno un bambino aveva consegnato a Florio una lettera anonima. Era un appuntamento per regolare i conti, e lui doveva andarci da solo, senza farne parola con nessuno. Sai che a loro piaceva invece muoversi in massa, battersi quaranta contro uno. Ma Florio non poteva tirarsi indietro, dopotutto era cresciuto con gli Avanti Savoia. Così ci andò.
Ricordo che c’era un motivetto che i suoi amici amavano canticchiare:

Polvere e ripolvere
Son colpi di revolvere
Comunisti mettetevi a correre
Sennò mangerete la polvere.

È calzante, se ci pensi, visto come finì l’appuntamento: Florio accasciato a terra, il sangue a macchiare il selciato.

Continua…

* * * 

A illustrare il racconto: dettaglio di Female Partisan in Battle, National History Museum, Tirana, Albania. 1950s