Macchie rosse su sfondo nero, parte 2
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Nonostante le indagini, non si seppe mai chi gli sparò. I rossi dissero che era stato un uomo elegante, che i due si conoscevano dai tempi di Fiume e che il litigio era stato per una questione di soldi; i neri invece affermarono che si trattò di uno scontro politico, che Florio era un martire e guai a chi lo avrebbe toccato ancora.
Chiunque fosse ad avere sparato, fu abbastanza furbo da non farsi trovare. Gli amici di Florio si affrettarono a promettere fuoco e fiamme.
Lui però sembrava in vena di indulgenze: «Stavolta niente rappresaglie, camerati, ve ne prego!»
Parole al vento, Rosa.
Un bel po’ di botte toccarono anche a me. Mi presero alle spalle un pomeriggio, all’uscita dalla fabbrica, e me le suonarono di santa ragione urlandomi che ero uno sporco comunista e che sarei dovuto crepare. Quando fu il mio turno di trovarmi steso a letto, in casa d’altri, non mi accorsi quasi del tuo arrivo, tanto ero conciato male.
Ricordo che avevi gli occhi colmi di lacrime. Il volto era solcato da brutte cicatrici, sembravi triste e persa. Per me, non eri mai stata così bella.
«Ti rimetterai, compagno.» Continuavi a rifiutarti di chiamarmi Cafiero. «La pagheranno cara.»
«Credo che morirò, Rosa» ti dissi. «Il mio ultimo desiderio è un bacio, non chiedo altro.»
Ti mettesti a ridere. «Neanche per idea. Ti bacerò solo dopo che saranno morti tutti loro.»
«Creperò prima io, stanne certa.»
«No che non lo farai.»
Non morii, ma nemmeno Florio, anzi si riprese in fretta. Da Roma gli avevano persino dato una medaglia d’oro al valore.
E così ricominciò tutto da capo: frustino, coltello e botte da orbi. Almeno fino all’11 gennaio.
Io e te ci eravamo visti proprio quella mattina. Mi aspettavi davanti all’entrata della fabbrica, era molto presto.
«Che ci fai qui, Rosa? Ti sei decisa a darmi un bacio, per caso?»
Il tuo sguardo da animale braccato mi fece passare la voglia di scherzare.
«Compagno, devo darti una cosa. Ho bisogno che la tenga tu per un po’, va bene?»
«Di cosa si tratta?»
«Promettimi che non ne farai parola con nessuno.»
«Te lo prometto.»
Mi guardasti a lungo in silenzio, due occhi scuri come la notte in cui brillava un lumino. Poi tirasti fuori un fagotto e me lo piazzasti dentro la giacca senza tante cerimonie.
«E questa da dove esce fuori?»
«Come ho detto, ho bisogno che tu la tenga per un po’. Se mi trovano con una pistola mi accoppano.»
Te ne andasti. Io, invece di entrare in fabbrica, sgusciai via. Non avrei saputo come giustificare l’assenza e mi avrebbero licenziato in tronco, ma non avevo la testa per andare al lavoro. Tenni la pistola in tasca tutta la mattina mentre gironzolavo per le vie del centro.
Rosa mia. Senza saperlo, mi avevi offerto la chiave di tutti i problemi. Adesso potevo ristabilire l’ordine, dare vita a un vero cambiamento. Però dovevo trovare il modo di agire con precisione.
Ero così concentrato su questi pensieri da non badare alla strada che avevo imboccato.
«Lucchesi, dove vai a quest’ora?»
Era proprio lui. Se ne stava appoggiato al muro del palazzo, davanti alla stazione, in compagnia dei soliti tre o quattro camerati. Aveva quel suo sorriso terribile.
«Vado per i fatti miei» risposi a denti stretti.
«E fai male, perché di bighelloni in città ce ne sono anche troppi. Non ti sono bastate le botte che t’abbiamo dato? Vai a lavorare, che è meglio.»
Capisci, Rosa? Mi disse di andare a lavorare, lui che non aveva mai lavorato un giorno in vita sua.
Immagino che sia vero ciò che si racconta: la rabbia ti rende cieco, ti fa fare cose che normalmente non faresti. Tirai fuori l’arma e feci fuoco. Florio cadde a terra. Riuscii a filare prima che mi acciuffassero.
Raggiunsi la porta di Nilde. Appena mi vide, comprese che era successo l’irreparabile.
«Non doveva andare così, Cafiero» disse quando le raccontai tutto. «Ora dovrai andartene.»
«Devo vedere Rosa, io so…»
«Devi andartene» ripeté. «Verranno a cercarti e ti troveranno. Devi lasciare il paese, oltrepassare la frontiera.»
«La frontiera? E per andare dove?»
«Ho dei contatti in Russia, lì sarai al sicuro.»
Rimasi in silenzio per qualche minuto.
«Se non parti subito troveranno la pistola e sapranno che è di Rosa» disse Nilde mettendomi in mano un libro in cirillico. «Tieni, ti servirà.»
Partii senza salutare nessuno. Fu senz’altro un bene, perché furono interrogati tutti e, se lo avessero saputo, avrebbero finito per rivelare dove mi trovassi. Non salutai nemmeno te, mia cara Rosa, ma forse è andata meglio così, altrimenti ti avrei chiesto un altro bacio e tu me lo avresti negato e allora, cocciuto come sono, sarei restato per provare a farti cambiare idea. A te, che sei più cocciuta di me.
Presi il largo mentre praticamente chiunque mi cercava, poliziotti, rossi e neri, e Florio agonizzava in un letto d’ospedale. Ho letto che in punto di morte disse: «Mi dispiace di non potere fare altro per il mio paese! Che il mio sacrificio salvi Prato! Addio, Fiume!»
Non era trascorso ancora un mese dal suo funerale, che la città era stata messa a ferro e fuoco. Incendi, ritorsioni, vendette. Erano diventati ormai tutti neri, solo il sangue non aveva cambiato colore.
Macchie rosse su sfondo nero, ricordi? Eravamo noi quelle macchie.
La situazione ci avrebbe messo parecchio a placarsi. L’estate era alla fine quando raggiunsi l’Unione Sovietica, dopo un incredibile viaggio che mi aveva portato a piedi fino in Belgio. Avevo la barba lunga ed ero così stanco e solo, impaurito della mia stessa ombra. Però ero libero, mentre da voi i compari di Florio mettevano a punto l’ascesa al potere.
Ricevetti la tua lettera un paio di anni dopo. Ormai mi ero risollevato, avevo chiesto e ottenuto la cittadinanza sovietica e non provavo più paura. Avevo anche conosciuto una brava ragazza di nome Miska. Ero felice, volevo solo guardare avanti.
Ignoro come tu abbia fatto a trovarmi e ti confesso che non pensavo più a te da tempo. Ma poi sei tornata, il tuo volto è riemerso dalla memoria, insieme a tutto il resto. Il modo in cui sventolavi la bandiera rossa alla manifestazione, Florio, il frustino, le botte, le cicatrici, la pistola.
Quello sparo, Rosa, pensavo di averlo dimenticato, invece ecco che riemergeva di nuovo, grazie a due parole: Caro compagno.
Mi scrivevi che erano successe molte altre cose dalla mia partenza, molti altri scontri. Eri cambiata, c’era un uomo nella tua vita, eppure eri sempre la stessa. Ti sentivi come se tutto il mondo fosse mutato mentre tu eri rimasta ferma a due anni prima. Le cicatrici non ti permettevano di andare oltre.
Mi sentivo anch’io così, anche se ancora non lo sapevo.
Ti risposi subito ed ebbe inizio la nostra corrispondenza. Per anni Miska ha ignorato l’esistenza delle tue lettere. Nell’ultima, qualche mese fa, mi hai rivelato la tua intenzione di scappare dal regime e raggiungere la Russia. Spero tanto che tu non l’abbia fatto, Rosa. È stato per via di quella lettera se sono finito… beh, lasciamo perdere.
Non te ne faccio una colpa. Quando mi hai dato la pistola, non mi sono tirato indietro. Non lo farò nemmeno stavolta.
Sai, la notte certe volte è dura. Dopo avermi conciato per le feste, mi hanno confinato qui, in una cella senza finestre, senza luce. Ho il viso schiacciato sul pavimento fetido, sento le urla di altre persone, l’odore della loro paura e con me non ho altro che pensieri orribili. Non vedrò l’alba, ne ho la certezza.
Il paese che prima mi ha accolto a braccia aperte, ora ha deciso che devo morire, perché in fondo sono uno straniero e un traditore. Ed è vero, Rosa, io sono sempre stato uno straniero e pure un traditore. Ho ucciso un uomo senza provare rimorso, e vorrei essere in grado di farlo ancora. La Nilde aveva ragione, quelli come Florio non muoiono mai. Sono dappertutto, anche qui.
Sento dei passi fuori dalla porta, rumori di chiavi e sprazzi di conversazione. Eccoli. Non ho più tempo, mia cara. Vorrei dire tante cose, invece riesco a pensare solo a quello stupido titolo: Macchie rosse su sfondo nero.
Mi sbagliavo, non siamo noi quelle macchie. La macchia sono io. Tu non permettere che ti prendano. Va’ lontano, è il tuo compagno che te lo chiede.
* * *
A illustrare il racconto: Female Partisan in Battle, National History Museum, Tirana, Albania. 1950s