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Niente vino da Ade

Autore
Stefano Lazzari
A scelta dello Chef
Narrativa generale
29 dicembre 2022

Le sue All Star lasciavano tracce sull’asfalto rovente, pastoso. Boccheggiava, smarrito nel parcheggio dell’aeroporto, quando finalmente riconobbe la targa della Clio affittata. Non era più abituato all’aria torrida e al sole feroce. Il corpo si scorda facilmente le proprie origini pur di adattarsi. Anche la sua mente aveva fatto posto a nuove memorie, così avviò il navigatore per farsi guidare alla casa dei nonni.
Mentre viaggiava verso sud, il suo volto si distese alla vista delle schiere di ulivi ai lati della statale. Era difficile scordarseli, ancorati nella terra rossa coi loro tronchi nodosi. Nel panorama erano comparse tante pale eoliche, grandi guardiani bianchi che mulinavano le proprie braccia con infinita pazienza.
Scelse di guidare in silenzio, concentrato su strada e paesaggio. Gli sembrava di essere alla scoperta di una terra nuova, come quando si era trasferito in Canada quindici anni prima.
Poche ore dopo, abbandonò la litoranea e imboccò la ripida stradina non asfaltata; l’arrivo era imminente. Era su quella discesa che, da piccolo, sul sedile posteriore della Lancia di suo padre, iniziava ad assaporare l’estate davanti a sé, le giornate cicliche che stavano per srotolarsi davanti a lui, fra bagni, libri e amici. 
Parcheggiò davanti al cancello verde che brillava nella luce violenta del primo pomeriggio. Entrò nel giardino con la sua sacca sdrucita a tracolla. L’albicocco fu subito al suo fianco, carico di frutti. Poco più in là, c’era la bouganville, coi suoi fruscianti petali lilla. Percorse il perimetro esterno della proprietà, costeggiando le aiuole fiorite protette dall’ombra dei pitosfori. Curiosò sul retro della casa, per vedere se c’erano ancora i limoni e gli aranci. Li trovò al solito posto, insieme al ricordo del cestino di vimini col quale da piccolo, tutto serio, aiutava il nonno a raccogliere gli agrumi, nelle rare visite invernali.
Smise di perlustrare il giardino quando avvertì la nuca bruciare. Entrò dall’ingresso che dava sulla cucina. Lo accolse una fresca semioscurità; la signora che si occupava della casa aveva lasciato le finestre aperte e le persiane chiuse. Posò la sacca nella stanza che per tante estati aveva condiviso con suo cugino e si fece una doccia nel piccolo bagno adiacente. 
Tornato in cucina, ispezionò il frigo e trovò dell’acqua, qualche birra, delle melanzane grigliate e una coppa di albicocche. Si versò un bicchiere d’acqua e bevette avidamente, chiedendosi se fare uno spuntino o meno. Mentre rifletteva sul da farsi, si soffermò sul grande collage di foto che da decenni arredava la cucina.
Tutto ciò che la sua famiglia aveva costruito era lì: i suoi sorrisi sdentati mentre si sporcava di gelato; i volti accaldati dei cugini dopo una corsa in giardino; suo padre, barbuto e in forma, che usciva dall’acqua; la zia Martina che dava la mano alla cuginetta mentre scendeva le scale, la fronte corrugata; la mamma che intratteneva il figlio dei vicini di casa, Filippo, che d’estate diventava il suo inseparabile amico; i nonni che ballavano in bianco e nero.
La vista del quadro gli fece più male del previsto. I suoi genitori non c’erano più, i nonni erano morti da anni, aveva perso di vista i cugini e perfino Filippo. Cosa aveva costruito in tutto questo tempo? Dov’era il suo collage nella cucina di Montreal? C’era solo qualche foto dei viaggi che aveva fatto con Sara, anche lei scappata dal suo Paese, trapiantata in una terra algida. 
La fame gli era passata. La penombra e il jet lag gli suggerirono che era tempo di riposare. Sbadigliò, mentre si lasciava cadere sul letto. 
Rigirandosi, sentì un fruscio. Aveva schiacciato una spessa busta sigillata. C’era scritto il suo nome, con la grafia goffa e sghemba di suo padre. Era morto da un pezzo. Si mise a sedere sul letto, poi si alzò, fece filtrare un po’ di luce dalle persiane e tornò sul letto, rigirandosi la lettera fra le mani.
Dopo la aprì delicatamente. 

Caro Francesco,
se stai leggendo queste righe sono successe due cose spiacevoli, almeno dal mio punto di vista. La prima è che sono morto, ma questo dovresti saperlo già; la seconda è che vuoi vendere la casa dei nonni.
Te l’avevamo detto tua madre e io di non farlo, no? Ci hai mai dato retta? La frutta la mangi adesso? Scommetto che le albicocche in frigo ancora non le hai toccate. Ora ti stai chiedendo se stai vivendo un’esperienza soprannaturale, vero?
Ho i miei informatori anche all’altro mondo, ovvio. Oppure, più semplicemente, ho chiesto a Maria Rosaria, l’unica di cui davvero mi fidi, di farti avere questa lettera nel caso ti azzardassi a vendere la casa dopo la mia morte. E le ho detto di farti trovare del cibo quando saresti arrivato. È sempre stata gentile con noi, vero?
Per rispondere alla tua prossima domanda, no, del notaio non mi fido. Lavora solo per i soldi e questa non è una questione di soldi. Forse per te lo è, vorresti vendere la casa per sistemarti a Montreal, no? Stai ancora con Sara? Spero di sì, a me è sempre piaciuta, una donna brillante. Mio figlio con una colombiana, chi lo avrebbe detto!
Sto divagando, perdonami. Non mi resta molto tempo. Fra poche ore arriverai tu, da Montreal, per salutarmi prima che me ne vada. Chissà perché si dice così? Ci sono dei mezzi di trasporto da prendere, o una destinazione? 
Ma ormai sono morto da tempo, sorridi; fa parte della vita. Anzi, smetti di sorridere, che vuoi vendere la casa, accidenti a te! Hai già dimenticato tutte le estati qui? 
Sono ingiusto, lo so. Potevo venirti a trovare più spesso. Potevo dirti faccia a faccia quello che sto per scriverti, invece di nascondermi dietro a un foglio di carta, protetto nientemeno che da Ade. Fai bene a trattenere il respiro. Non farlo troppo a lungo però, non sono pronto ad avere questa conversazione dal “vivo”. Non so come dirlo, non ho trovato le parole per farlo prima, ma è ora. Siediti.
Hai un fratello.
Rileggi la riga sopra, sono andato a capo apposta. Mi odi? Hai già capito di chi si tratta? Ti sei chiesto perché ho scritto se “mi” odi e non se “ci” odi? Tua madre non sapeva nulla. Non le ho voluto dare un dispiacere inutile.
Tu hai sempre pianificato tutto nella vita, a differenza mia. Di certo tuo fratello non doveva nascere, eppure è nato. Lo hai anche conosciuto, ci hai giocato insieme. 
Filippo è tuo fratello.
Ti sto tirando dei missili dall’oltretomba. Respira, è tutto a posto. Se ci pensi, è una cosa bella. Patetico, vero? Sono morto, ti sto dando una notizia che ribalta il tuo mondo, e mi permetto di dirti come devi reagire. Beh, anche da morto, sono pur sempre tuo padre!
Scherzo, Francesco. Scherzo perché l’ho sempre fatto, perché non so fare altrimenti. So che tu non mi hai mai capito fino in fondo, tutto serio, con l’amore per la Storia, che ti ha portato a insegnare in un Paese lontano. Hai mai riflettuto che insegni storia in un Paese giovanissimo? Mi ha sempre fatto sorridere la cosa. Lasci una cultura millenaria per…il Canada. C’era solo una casetta in Canadà da quel che sapevo io, ma non sono un uomo di mondo.
Sono un uomo immondo, ecco cosa sono, Franceschino mio. È successo tutto in una notte buia, senza stelle. Non c’era nessuno. Solo io e Angela. Tu eri andato coi nonni alla festa del paese vicino, la mamma a trovare dei suoi cugini. Come sai, io e i parenti della mamma non ci siamo mai sopportati, quindi tua madre non ci ha messo molto a convincermi a farla andare da sola. Franco, il marito di Angela, era dovuto partire per un’emergenza lavorativa. Così ho invitato a cena la nostra vicina. Pensa, me l’aveva suggerito tua madre! 
Non mi sto giustificando, ma è ora che tu sappia la verità. Angela ha acconsentito, ma ha detto di voler cenare a casa sua. Mi ha invitato da lei, anticipandomi che sarebbe stata una cena semplice. 
Aveva apparecchiato in terrazza, illuminata appena da un debole faretto. La luna non c’era e perfino il lampione all’angolo era fulminato. Era tutto scuro, del mare si percepiva solo il profumo. Angela indossava un vestito color corallo che mostrava le sue lunghe gambe abbronzate. I capelli corvini raccolti in una coda, il suo sorriso… potrebbe tenermi in vita per qualche altro mese, credo. Ti risparmio la danza di luce che scorgevo sul fondo dei suoi grandi occhi neri. Una bottiglia di Erbaceo e un’insalata di polpo, nient’altro abbiamo mangiato. Abbiamo chiacchierato, godendoci l’insolita intimità. Il vino ghiacciato ha fatto il resto. Siamo andati in cucina a prendere il gelato e non siamo più usciti.
È successo qualche altra volta, nel corso degli anni, ma è stata la notte dell’insalata di polpo che Filippo ha iniziato il suo percorso da cellula, per poi sbucare fuori, esile e aggraziato, nove mesi dopo.
Nessuno si è mai fatto domande, forse perché Filippo assomiglia tanto ad Angela. 
Quando ho visto che tu e Filippo giocavate così bene insieme, una parte di me era felice. Speravo che i tre anni che vi separano contribuissero a tenervi vicini, ma purtroppo mi sono sbagliato. 
Lo so, non è l’unico sbaglio che ho fatto. Vuoi chiamarla una cazzata? Fa pure, la sostanza non cambia. Quando hai iniziato a frequentare i tuoi amici dell’università, al mare non ci venivi quasi più. Angela e Franco vivevano con Filippo a Rapallo. Quante gite potevo organizzare da Milano perché passassimo più tempo insieme? Restava solo l’estate. Ma quando hai iniziato il dottorato, chi ti ha visto più, giramondo? Del resto anche Filippo ha fatto la sua vita. È così, caro mio, che vanno le cose. Uno pensa di avere ancora tempo, poi si gira ed è su un letto, con un tumore e pochi giorni rimasti, che scrive una lettera al figlio. 
So cosa ti stai chiedendo. La amavo, Angela? Sì, a modo mio. Ma non come amavo tua madre. Tu vuoi sapere più cose, lo so, ma questa lettera sta per finire. Lo senti il peso dei fogli mancanti? 
Devo sbrigarmi, ancora non ti ho ancora detto cosa voglio.
Che padre. Confessa le bugie di una vita, e avanza pretese. È così, Francesco. Non smettiamo mai di desiderare, anche a un passo dalla fine. Ancora un aperitivo, una nuotata, un bacio. 
Non voglio che tu venda la casa. Voglio che tu e Filippo la condividiate, la usiate come la vostra casa del mare, dove tornare ogni tanto, con chi vi pare. Anche Angela lo avrebbe voluto. Lei ha scritto una lettera simile a Filippo. L’idea era semplice: volevamo dirvi la verità, prima o poi, ma non mentre eravamo in vita. Non volevamo essere giudicati. 
C’è qualcuno a cui piace, forse? Tutta questa storia del perdono e della redenzione è una stronzata con cui la Chiesa si è arricchita per millenni. Non volevamo sentirci disprezzati da gente che nemmeno conoscevamo, perché è così che sarebbe andata. Tutti pronti a sputar sentenze, a giudicare, a spiegare come si vive. 
Si possono amare più persone allo stesso tempo? Forse, anche se in modo diverso, credo. Angela mi aveva fatto sentire giovane e bello quando ormai non lo ero più, ma non avrei voluto passare la vita con lei, né lei con me. Non volevo perdere tua madre, né Angela voleva vivere senza Franco. Ci siamo amati, in un modo tutto nostro, che forse non riuscirei a spiegare nemmeno quando ci ritroveremo qui, negli Inferi, con tutta l’eternità davanti. Quindi quando ci rivedremo, evita le domande.
Abbiamo affidato le lettere a Maria Rosaria, l’amica storica di Angela. Era l’unica che sapeva di noi, a volte ci prestava il suo appartamento.. Le abbiamo detto di farvi avere le lettere solo se tu avessi cercato di vendere la casa oppure alla morte di Maria Rosaria stessa. Ho scommesso sulla buona salute di Maria Rosaria e sul fatto che tu volessi venderla. Ci ho preso? Non lo saprò mai. 
La casa è importante, perché è grazie a questa casa che tuo fratello è nato. Ti pare poco? La casa è un luogo dove si passa del tempo, dove magari i tuoi figli cresceranno d’estate e impareranno ad amare il mare. Quello vero, non quello canadese, che ghiaccia. Non sbuffare. I tuoi figli. Magari ne avrai anche tu, oppure ne adotterai. Oppure ne avrà Filippo, chissà. 
Certo, puoi sbarazzartene. Però io ho detto ad Angela che avrei provato a convincerti a tenerla e ho sempre sperato che tu e tuo fratello poteste tornare a essere vicini. 
Non ti basta? C’è un mio diario, nascosto in questa casa. Dove, esattamente? C’è scritto nella lettera di Filippo. Nel diario c’è un’altra lettera rivolta a entrambi. 
So che a te i giochi non sono mai piaciuti, ma a me sì. Rompipalle fino all’ultimo, tuo padre! 
Ebbene Franceschino mio, ora devo salutarti davvero. Il cancro mi stanca, ma tra poco sarà finita. Sento un groviglio in fondo alla gola. È lo stesso di quando a settembre, con la vecchia Lancia, facevamo la salita per prendere la litoranea, diretti a Milano. Salutare il mare, salutare Angela e Filippo, un altro anno perso. Ora sì che ho perso tutto. Non è tanto la paura di non sapere dove porterà questa salita, ma il non aver vissuto più a fondo, con più coraggio. Ho tenuto separati due fratelli. Non ho fatto da padre a uno, e ho perso di vista l’altro. 
Magari queste righe vi faranno avvicinare un po’. Alla fine della lettera c’è il numero di telefono di Filippo. Anche lui dovrebbe aver ricevuto le informazioni per contattare te.
Ora è una questione di tempo, di chi chiamerà per primo, ammesso che ne abbiate voglia. Di quanti soldi hai bisogno per comprare una casa a Montreal? Le tasse sulle proprietà all’estero sono alte in Canada? Sarà difficile spiegare a Sara questa storia?
Se ci pensi, tutte queste legittime domande sono un mucchio di stronzate. Dico, rispetto al resto, al fatto che hai un fratello, che la vita è breve e che io me la sono giocata così. Non vendere questa casa. Non lo volevano i nonni che l’hanno costruita, non lo voleva tua madre, che ci si era affezionata, né l’ho mai voluto io. 
Ti mando un abbraccio forte, diverso da quello che ti darò fra poche ore, debole e distaccato. Ti voglio bene, Francesco, te ne ho sempre voluto tantissimo, anche se non sono mai riuscito a mostratelo. 
Spero potrai perdonarmi. Se non ora, quando ci rincontreremo, nel regno di Ade. Spero tarderai ad arrivare e che mi porterai una bottiglia di Erbaceo.
Ti abbraccio forte,
tuo padre

Soffiava un vento fresco. Le lenzuola, zuppe di sudore, fecero rabbrividire Francesco. Si alzò, digitò il numero di Filippo sul cellulare e attese, camminando rapido per la stanza. 

«Pronto, chi è?»
«Filippo? Sono Francesco, ti ricordi di me? Hai letto la tua lettera?»
«Che lettera?»
«Non hai ricevuto una lettera…particolare oggi?»
«Mi è arrivata una settimana fa.»
«Ah…una sett…beh, che ne pensi?»
«Del fatto che siamo fratelli? Lo sapevo già.»

Nel silenzio che non osava perforare, Francesco sentì il proprio sangue agitarsi, come il mare d’inverno.

«So tutto da anni. Ho beccato nostro padre e mia madre che si baciavano. Li ho spiati ancora un po’ e li ho sentiti parlare di noi.»
«Ma…»
«Non mi hanno visto e non l’ho mai detto a nessuno.»
«Senti, vuoi che ci vediamo?»
«È una vita che fuggo da questa storia. Al limite mi vieni a trovare e ne parliamo, io non mi muovo.»
«Dammi l’indirizzo.»


A illustrare il racconto: “Hotel Room“, Edward Hopper, 1931, olio su tela, 152.4 x 165.7 cm, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid.