La sirena di Haarlem
Fantasia olandese fra il XVII e il XXI secolo
«Una creatura sola e snaturata, impedita nei movimenti e nella comunicazione, questa è la fanciulla conosciuta da queste parti come la sirena di Haarlem...»
«Se ne sta sempre in casa del borgomastro, a filare e filare, senza aspettare altro che l’ora della minestra la sera, e il dolce abbandono del riposo notturno…»
«Oh, tutti le vogliono bene in paese, ma lei di questo non sembra curarsi, non sembra neanche accorgersi, tanto assorta è nel suo mondo impenetrabile di pensieri, di amori, di ricordi nostalgici...»
Alcuni anni fa, per motivi di studio, mi trovai a trascorrere un periodo nella città di Haarlem. Era un mattino di marzo chiaro e ventilato quando sbarcai per la prima volta in quel porto famoso. Ricordo ancora oggi le strade assonnate, il mercato del pesce semivuoto e l’orologio azzurro che batteva le otto, il canale limpidissimo, e la serva che appendeva fuori dalla locanda un fagiano morto.
In ogni angolo riconoscevo qualcosa di quella città, e mi batteva il cuore a vedere che tutto era proprio come l’avevo immaginato, come l’avevo letto nei libri.
«Questa è Haarlem, città della mia giovinezza, così come la vuole Dio!», mi dicevo.
Raggiunsi la casa del borgomastro, dove avrei vissuto ospite per alcuni mesi. Fui accolto all’ingresso dalla governante, i padroni erano fuori. Questa mi mostrò ogni stanza, la mia camera, la biblioteca dove avrei studiato, mi disse tante cose che io ascoltavo solo per metà. Mi presentò alle cameriere, mi chiese se volevo il tè. Poi vicino alla cucina, passando per un corridoio mal illuminato, si fermò di colpo, mi si avvicinò all’orecchio e disse:
«Guarda, la vedi quella ragazza lì che ricama vicino alla finestra? È una sirena. Se sbirci sotto la sua veste vedrai che al posto delle gambe ha una coda di pesce. L’hanno trovata sulla spiaggia vicino ad Haarlem, e affidata al borgomastro. Non ha mai imparato a parlare, poverina, emette solo, ogni tanto, dei suoni che sembrano i gemiti di un moribondo. Guarda com’è concentrata sul suo lavoro! Io l’ho vista, sai, quando le hanno insegnato a ricamare. Non puoi immaginare, che strana cosa era vedere quella creatura prendere l’ago in mano, fissare i movimenti della nostra sarta e cercare di imitarli meglio che poteva. La tristezza lasciava i suoi occhi e si concentrava così tanto, come i bambini quando svolgono un qualche lavoro che gli è stato assegnato e che li assorbe completamente. Naturalmente le facciamo fare quei lavoretti solo per tenerla occupata; la sera, quando ha finito, siamo costretti ogni volta a buttare via tutto. In fin dei conti rimane pur sempre una bestia del mare, non è tanto intelligente…»
Quell’inverno lo trascorsi nella biblioteca del borgomastro, a studiare. Non uscivo, non partecipavo alle feste di paese. Né mi sforzavo, durante la cena, di fare conversazioni con la famiglia. Dicevo ogni tanto frasi di circostanza, quanto bastava per non parer scortese. Nei miei pomeriggi, a volte, m’incantavo per ore guardando il vuoto, e senza neanche accorgermene scarabocchiavo con la penna sui bordi dei libri (m’avesse visto il borgomastro, come si sarebbe arrabbiato!).
Ed era sempre una cosa sola che usciva fuori da quegli scarabocchi: la piccola figura della sirena di Haarlem. Poi, quando tornavo in me e mi accorgevo di aver sporcato quei preziosi volumi, non facevo in tempo a dire a me stesso: «Oddio cos’ho fatto!», che già pensavo: “Ma è di nuovo la sirena di Haarlem questa! Chissà perché mi capita ogni volta di disegnare lei. Si vede che mi ha fatto un’impressione maggiore di quel che credevo”.
Così un giorno misi da parte i libri sui quali dovevo studiare e cercai fra gli scaffali tutti quelli che parlavano di sirene: le leggende del mare, i diari di bordo dei navigatori, le strofe oscene dei pescatori; raccolsi tutto quel che potei. Alla fine, chiesto il permesso ai padroni, con una scusa qualsiasi feci spostare la mia scrivania dalla biblioteca alla stanza dove ricamava la sirena.
Leggevo e leggevo, passando da un libro all’altro, e di tanto in tanto alzavo gli occhi verso quella ragazza, immaginando che fosse proprio lei, con il suo volto, la protagonista delle storie che mi capitavano sott’occhio. Lessi di sirene che salvavano i marinai, che uccidevano i marinai, che morivano trafitte dai loro arpioni; lessi di sirene che migravano a banchi di migliaia da un oceano all’altro, di altre, piccolissime, che finivano imprigionate dagli uomini e vendute in Australia nelle bottiglie; di amori voluttuosi, di naufragi, di palazzi marini; e poi di pescatori, di reti, di cadaveri lasciati essiccare al sole. E quando la domenica mattina mi trovavo solo con la mia sirena in casa (perché tutti, famiglia e servitù, erano alla messa), mi mettevo a leggere qualcuna di quelle storie ad alta voce, sperando di provocare in lei qualche reazione, di stabilire un legame poco a poco…ma non c’era verso, sempre rimaneva chiusa in quel suo guscio impenetrabile.
Povera sirena di Haarlem, così priva di parola, di bellezza e di talento! Come ci si poteva aspettare, da una che doveva aver tanto patito, che facesse da sola lo sforzo per venirci incontro? Eravamo noi che dovevamo inventarci un linguaggio nuovo, cui non eravamo abituati, se volevamo iniziare a comunicare con quella creatura. Solo una volta che lei avesse visto la nostra disponibilità a fare questa fatica per amor suo, avrebbe cominciato, forse, con lo schiudersi…
«Razza d’impertinente!», sbraitò la governante il giorno in cui le confidai questi miei pensieri, «giovane arrogante e sciocco. Davvero ti credi che nessuno abbia mai pensato le cose che dici, in tutto il tempo che è stata in questa casa? Arrivi tu dal nulla, inesperto della vita e dell’amore, in una famiglia che ha gioito e sofferto quanto neanche immagini, e pretendi di essere il primo a capire certe cose, credendoti l’unico barlume d’intelligenza in mezzo a un covo di idioti, che tuttavia, guarda un po’, hanno il buon cuore di ospitarti e darti ogni giorno da mangiare!».
Avrei voluto rispondere, ma la voce mi si fermava in gola. La governante si voltò verso la sirena, quindi riprese a parlare.
«In questa casa tutti la trattano bene, la tengono su un palmo di mano come fosse una principessa. La porterebbero volentieri in campagna, a fare delle passeggiate, a teatro, la presenterebbero a dei giovanotti di buona famiglia. Dimmi tu ora, con quale ingratitudine, con quale insensata testardaggine, ha voluto rimanere a tutti i costi attaccata al suo passato, al punto da scegliere di non vedere niente di quel che le stava qui intorno? Sirena o non sirena, essa è per questo una peccatrice, e nessuno di noi sarà disposto a perdonarla».
Come avrei voluto dimostrare a tutti che avevo ragione io, che nessuno in quella famiglia aveva mai saputo voler bene alla sirena di Haarlem, e che con me soltanto ella si sarebbe finalmente schiusa, perché ero l’unico a vederla per quello che era, mentre gli altri non avevano fatto altro che aspettarsi da lei una parte alla quale non aveva mai voluto adeguarsi.
La osservavo spesso mentre lavorava, distogliendo lo sguardo dai miei libri, e tra me e me sussurravo:
«Alza gli occhi, alza gli occhi, guardami per un momento…».
Ma quella continuava a filare, tutta concentrata sul suo lavoro. Talvolta, in quei momenti, io allora immaginavo (m’illudevo, pretendevo) di conoscere i suoi pensieri; guardandola, mi pareva certi attimi di essere io la sirena di Haarlem, come se mi stessi vedendo da fuori mentre eseguivo con zelo i miei lavori di cucito.
Arrivò infine il giorno in cui dovetti andarmene dalla casa di Haarlem. Il periodo previsto per i miei studi era finito, e avrei dovuto fare ritorno alla mia città con quello che avevo raccolto. I miei bagagli erano sistemati tutti in fila vicino alla porta, assieme ai doni che i miei padroni di casa avevano fatto per salutare la mia partenza. Qualche prodotto di artigianato locale, un’incisione con la chiesa della città: oggetti un po’ impersonali, regalati per pura cortesia.
Fu cosa strana accorgersi soltanto allora che, in tutto il tempo che ero stato lì, non ero mai uscito dalle quattro mura domestiche, non avevo mai esplorato quella città che fin dal primo momento mi era parsa tanto incantevole. Avevo sentito così spesso dalle mie finestre il suono dei musicisti di strada e delle feste notturne, ma ero stato distratto evidentemente, troppo assorto nei miei pensieri per curarmene. Anche le persone che mi avevano ospitato, mi resi conto soltanto quel giorno (fu come un improvviso risveglio), non le avevo mai davvero considerate.
Davanti a me stavano tutti quei doni inutili, dati senz’affetto: quelli che mi meritavo, senz’altro, per aver abitato la loro casa come un fantasma, dicendo solo ogni tanto cose insignificanti, tutto preso dai miei libri, dalle mie fantasticherie, e soprattutto da quel mio amore insensato, inconfessato per la sirena di Haarlem, la misteriosa fanciulla; la quale nemmeno alla fine, nel momento tanto atteso in cui per salutarla mi sono avvicinato a lei e le ho sfiorato la spalla, s’è degnata di considerarmi con un mezzo sguardo.
Ad accompagnare il racconto: un’illustrazione di Akira Kusaka.