Punks of Bremen
«… State guardando: Legends of Punk. Dannazione e Valhalla. Un Vero Punk Muore Combattendo. Continua il racconto della scena underground europea. Mentre gli Ugly Duckling si facevano strada in Scandinavia prendendo a cazzotti i cigni dell’alta borghesia, nello stesso periodo sbocciava in Germania un fiore nero e malsano. Si autodefinirono “i rifiuti della società, gli indesiderati di cui vorresti sbarazzarti, il vomito che risale”. Ma fu quando iniziarono a cantarlo che il mondo iniziò a prenderli sul serio. Erano nati i Bastards of Bremen… e i loro riff leggendari.»
Dalle casse del televisore uscì una melodia ossessiva, mentre la luce del maxischermo irradiava la stanza buia e scarna. L’unica altra luce era un puntino rosso fra due larghi set di incisivi ingialliti. Uno zoccolo nell’oscurità puntò un telecomando verso lo schermo e la voce calda del narratore si fece più forte.
«Tutto ebbe inizio quando un asino incontrò un cane. No, non è l’incipit di una barzelletta. È l’origine del gruppo più radicale della storia del Punk tedesco. Loro dicono che si incontrarono tutti sulla strada per Brema ma, quando si parla di inizi leggendari, si tende a esagerare. Un asino, un cane, che altro? Lungo la via stavano anche un gatto e un gallo. Bestie scacciate da casa, orfani senza una prospettiva in un mondo che non li voleva. Dei Bastardi, insomma. Ma chi assistette a quel loro primo live capì che una prospettiva la avevano eccome. Bastò ascoltare il basso aggressivo di Pussy Katie, la gattaccia più dura della città, per accorgersene. O il battere impazzito di Sonny Bitch, che confutava che can che abbia non morde, specie alla batteria. Ma quel sound iconico e martellante, come uno zoccolo contro le mura del conformismo, era nato dalla chitarra spaccata di Jack Ass, il Raglio Rancido. La voce squillante di Paul Cock, che ci cantava della fine delle illusioni del consumismo e l’inizio di un mondo senza più futuro, svegliò un’intera generazione dormiente dal suo torpore perbenista come un gallo all’aurora.»
La figura si agitò sul divano, aspirando fumo dalla sigaretta. Rilasciò una nube dal suo lungo muso, come un tubo di scappamento, e si spinse in avanti verso lo schermo, dove scorrevano immagini in bianco e nero di un tempo ormai andato.
«Eterni rimangono i live a Brema, Berlino, Londra, in tutta l’Europa. L’unica testimonianza resta, però, il solo album inciso: On Top of Each Other, un inno alla libertà senza limiti, carico di erotismo e furia selvaggia. Primo e ultimo, ma come cantava Neil Yak: meglio ardere che spegnersi lentamente. È l’unico modo per restare leggenda per sempre. Paul Cock lo diventò forse un po’ troppo presto. Quando all’alba di quel maledetto 12 novembre del ’79 il gallo non cantò, capirono tutti cosa fosse successo. Lo trovarono riverso sul tappeto di quella squallida stanza d’albergo a Lisbona, con la siringa ancora nell’ala. I Bastardi capirono che era finita, specie dopo il disastroso tour negli Stati Uniti dello stesso anno, durante il quale, si dice, Jack Ass non smise mai di bere. A noi piace ricordarli come nella copertina di On Top of Each Other, l’uno sull’altro, spavaldi, trasgressivi, liberi, una piramide verso l’infinito. Ma come li ricorderà il mondo? Pussy Katie ha mollato il basso e dedicato la propria vita all’attivismo, ed è oggi un’icona dei diritti LGBT. Sonny Bitch ha vissuto una vita più defilata; da anni non appare più in pubblico. Forse preferisce così. Lo stesso non si può dire di Jack e delle sue “controversie”. Pare che le sue posizioni sempre più estreme lo abbiano allontanato da—»
Lo zoccolo si abbatté sul telecomando e spense la tv. La luce rosea e fioca della sigaretta illuminò due iridi allungate bagnate dal pianto poco prima di spegnersi. La stanza precipitò nelle tenebre. Nell’aria rimase solo un raglio mesto.
La porta di ingresso si aprì piano, proiettando la luce del corridoio sul corpo rannicchiato di Jack Ass. Jack si girò verso la porta, ma non prima di essersi asciugato le lacrime. Una zampa azionò l’interruttore della luce. Quel bianco improvviso accecò Jack. Bene, poteva dare la colpa a questo, nel caso in cui si fossero notati i suoi occhi lucidi. Gli asini non piangono, dopotutto. Donkeys don’t cry, fa la canzone. La sua canzone. Una di quelle melense.
Jack sgranò gli occhi e intravide la silhouette di un canide femminile. «Cazzo. Allora è vero…» biascicò, squadrandola per bene.
Nancy, sulla porta, soppresse un brivido che le attraversò tutto il corpo, come le accadeva in passato. Aveva imparato a sopprimerli e a non farci più caso, ma certi incontri le facevano ancora un brutto effetto.
«Come sei…» Jack esitò. «… entrato?»
Nancy sospirò. Non che si aspettasse niente di diverso da lui. «Entrata, Jack. Entrata. Comunque Kingfisher mi ha dato le chiavi. Sai, in caso di emergenza.»
Jack si rigirò nel divano, appoggiando la testa allo schienale.
«Come se a George Martin Pescatore gliene freghi qualcosa…»
«È il tuo produttore. Deve sia farti da datore di lavoro che da madre.»
«Per questo l’ho mollato. Non mi serve né l’uno né l’altro. Faccio meglio senza.»
Era un disco che Nancy aveva sentito troppe volte. Decise di non aspettare un invito formale ed entrò chiudendo la porta. Per poco non inciampò su una bottiglia di tequila, lasciata a rotolare per terra accanto a un pacco di patatine e un paio di jeans stracciati.
«Cazzo, Jack. Non puoi vivere in questo stato.»
«Allora, qual è l’emergenza?» la ignorò lui, sprofondando ancora di più nel divano. «Devi invitarmi alla tua festa di rinascita, o qualcosa del genere?»
Nancy attraversò la stanza e si piazzò di fronte allo schermo. Era da meno di un minuto in quella stanza e si sentiva già livida di rabbia.
«Punto primo: non farlo. Punto secondo: non farlo. Non iniziare nemmeno. Questo…» disse lei, indicandosi, «non c’entra niente con te, con Kingfisher, con tutto quanto. Riguarda solo me. Ti sono chiari questi primi due punti?»
Jack alzò lo sguardo e la fissò con aria assente. Infilò la mano nella fessura del divano e ne tirò fuori una sigaretta stropicciata, mentre da sotto il cuscino riesumò un accendino placcato in argento. Si accese la sigaretta e tornò a fissarla.
«Bene» fece Nancy, senza crederci granché. «Ora andiamo al punto tre: Bray Astray.»
«Cosa? Non ti piace il titolo? Io lo trovo molto…»
«Dimmi che non vuoi davvero fare una cazzata del genere.»
Jack si raddrizzò sullo schienale, ma solo per gettare la testa all’indietro.
«Perché no?» fece lui, sforzandosi di essere ironico.
Nancy incrociò le braccia. Lui cercava in tutti i modi di non guardarla.
«Perché? Non so, forse perché non pensavo fossi così coglione o disperato da fare un album con uno come Play T-Pus, con un rapper, trapper, quello che è. Probabilmente non sa neanche lui che tipo di musica faccia. A malapena sa a quale specie appartiene, quell’ornito-rinco.»
«E poi sarei io il razzista…» farfugliò Jack. «Vuoi dirmi tu con chi devo fare musica, adesso?»
«Puoi farla anche con la banda della polizia, per quanto mi riguarda. Ma non a nome dei Bastards.»
Jack alzò la testa e sospirò. Con tutta la forza che aveva, si tirò su e si mise in piedi. Vacillò un attimo come se avesse smosso un mulino per ore.
«E quindi si tratta di questo…» disse Jack, barcollando per la stanza.
«E di che altro? Pensavi fossi qui per una strigliata sul tuo ultimo podcast misogino? O per festeggiare il tuo centesimo fermo per guida in stato di ebbrezza? Cazzo, Jack. Come puoi pensare di usare i Bastards così, come se nulla fosse?»
«Perché quelli pagano solo se sono i Bastards of Bremen a tornare. Vecchi asini che suonano la chitarra li trovi in qualunque masseria. Un ritorno leggendario, invece…»
Nancy bestemmiò sottovoce.
«Sono soldi che arriveranno anche a te, rilassati» continuò Jack. «Te ne puoi stare seduto a casa e aspettare l’assegno. O seduta, come diavolo preferisci.»
Nancy tornò alla carica, col sangue che ormai bolliva. «Non me ne frega niente dei soldi. Non lo puoi fare. Punto.»
Ma anche Jack si stava scaldando.
«No? A Katie non frega un cazzo, te lo assicuro. Si intascherà i soldi come si prende quelli dei suoi libri, o dei suoi congressi, o delle feste arcobaleno. Tu è da anni che te ne sbatti, ma all’improvviso infangare il nome di una band di falliti diventa un dilemma etico! Cos’è, pensi che a un fottuto gallo morto importi qualcosa?»
In un istante la zampa di Nancy si stampò sul muso di Jack. Lui si tastò i graffi e osservò il suo stesso sangue sullo zoccolo.
«Cazzo, Sonny, hai sempre tirato pugni come una donna, ma…»
«Lo sai che non è il mio nome! Lo sai, cazzo!» urlò Nancy, ma se ne pentì subito. Sentiva di esserci cascata, di essersi fatta condizionare da uno come lui.
«Ti ho chiamato così per vent’anni, finché un bel giorno cambi idea e decidi che quella vita non ti va più bene, eh?». Anche Jack urlava, ormai.
«Tu non sai di che cazzo parli. Non è mai stato il mio nome.»
«Che cazzo». Jack iniziò a passeggiare per la stanza, sbraitando e agitando la sigaretta in aria.
«Non lo era? Lo hai scelto tu! Quando ti ho chiesto quale sarebbe stato il tuo nome d’arte – ti ricordi? Hai detto “Sonny Bitch”, e ci siamo messi a ridere. Pensavo che la cosa della “cagna” fosse ironica, un vaffanculo al buoncostume, o che cazzo ne so. E suonava tipo “Son-of-a-Bitch”. Era perfetto. Ora mi dici che ti sentivi veramente una cagna?»
«Sei un coglione.»
«No, spiega, perché pensavo fosse solo una presa per il culo, non un gesto “politico”, o altra roba alla Katie.»
«Perché non lo era! Se l’ho fatto era perché anch’io non capivo un cazzo, all’epoca. Ho cercato di elaborarlo… ma è uscito fuori in modo violento. Come un insulto sterile al mondo…»
«Era tutto abbastanza violento…» concesse Jack, sempre barcollante.
«Ma dovevo processarlo io. Da sola. Solo fuori dalla band ce l’ho fatta. In quel mondo non sarebbe mai venuto fuori. Era tutto troppo marcio.»
«Pensavo…» Jack si massaggiò la testa, smarrito.
«Jack…» fece lei. «Devi uscire da questo buco in cui sei caduto, Jackie. Lo so che te ne stai tutto il tempo a bere, guardando quel cazzo di speciale sulla storia Punk, dal “quant’era figo il passato” fino ad arrivare a “Jack Ass, lo stronzo più grande dell’Underground”…»
«No, di solito la salto quella parte…»
«… ma devi andare avanti» continuò lei. «La verità è che quelle persone non esistevano realmente. Eravamo solo quattro animali senza nome che nessuno voleva. Pieni di rabbia. Contro tutto e tutti.»
«Contro un cazzo di mondo di merda…» bisbigliò Jack, che era sempre stato più bravo a suonare che a scrivere testi.
«No, Jack. Contro noi stessi. Non si può costruire una vita su questo.»
«Pensavo… che non sarebbe mai finito.» disse Jack guardando il pavimento.
«Per Cock è stato così. Una leggenda. Per sempre.»
«Cock è morto nel suo stesso vomito, Jack.»
Jack sospirò e si sedette di nuovo sul divano.
«Forse “Jack Ass, il carismatico stronzo che tutti amano odiare”, non è mai esistito realmente» disse Nancy, sedendosi accanto a lui, «ma la sua musica sì. Nessuno suonava come te all’epoca.»
Jack la guardò negli occhi. Per la prima volta da anni. «Mi dispiace, Son… Nancy. Sono un asino.»
«Certo che lo sei. Questo non lo puoi cambiare».Nancy scostò un ciuffo di criniera dagli occhi di Jack. «Ma se c’è un valore che devi salvare da quel mondo… è che non devi venderti, Jackie. Non rinnegare ciò che c’era di buono.»
Jack si accorse che aveva gettato la sigaretta da qualche parte e si mise a cercarne un’altra. Gliela porse Nancy, dopo averla accesa lei. Un gesto ripetuto milioni di volte, sul retro di un pub, sui marciapiedi, dietro delle quinte fatiscenti.
«Ti ricordi il primo live» fece Nancy, «sulla strada per Brema? In quella locanda?»
«Al Rogues’ Inn» rispose Jack.
«Un covo di disadattati e motociclisti, sì. Ti ricordi cosa hai risposto al gestore quando ha detto “come cazzo fa un asino a suonare una chitarra, poi?”, ti ricordi cosa hai detto? Avevi quell’aria da duro, giubbotto di pelle e borchie, da dietro quegli occhiali da sole neri gli hai detto…»
«“In modo cazzuto”.»
Nancy rise. «Sì», ripeté, «in modo cazzuto.»
A illustrare: immagine originale di Alberto Scalia modificata da Nicole Trevisan