Tamarindo

Autore
Stella Poli
Esterno - Call democratica
Narrativa generale
22 aprile 2021

Guardandola, si ricordò di sua nonna che pestava gigli in un mortaio, certe sere d’estate.
Abbassò lo sguardo pensando che il sorriso di lei mettesse vento per gli aquiloni.
Lo salutò e lui sentì l’odore di certe benzine verdi che scioglievano i cardini e di dolcetti all’anice.
Gli appoggiò una mano sulla nuca, baciandogli piano la barba e lui credette al racconto di un marinaio secondo cui nei Sargassi il seme degli innamorati ubriachi che cadeva in mare si mutasse in un corallo preziosissimo, color vinaccia.

Lei frenò, mise il cavalletto e sentì il giaguaro dei suoi pensieri quietarsi, come se leccasse latte.
Notò il naso di lui scottato e provò tenerezza e voglia di rimproverarlo piano, come le nenie dei gatti, e spalmargli la polpa di guyaba rassodata dall’avena.
Lui rispose al saluto con la voce che mimava la piega discendente dello sguardo.
Le toccò con le labbra la guancia e lei pensò che avrebbe voluto lavarlo a lungo sotto l’acqua o trovarlo nudo in un’amaca.
“Hai ancora tamarindi?”

Lui guardò al lenzuolo della sua bancarella come si aspettasse evoluzioni, sorprese, sobbalzi.
Non aveva nessun tamarindo, eppure fece vagare a lungo lo sguardo, quasi si accingesse a porgergliene il suo cestino più bello. Avrebbe voluto sciogliere quelle trecce con le dita, invece schioccò la lingua in segno di diniego e le disse “Avresti dovuto dormire meno”.

Non che le importasse davvero, dei tamarindi, erano più uno scherzo fra loro, il punto in cui il linguaggio si fonde e crea delle pozzanghere, delle anse, nicchie di quasi intimità.
Si era inventata una sera che sua madre voleva fare il suo famoso liquore di tamarindi, ma era solo per continuare a parlargli così vicino al collo che spuntava dalla camicia bianchissima.
Lui le aveva detto martedì, al mercato sulle prime alture, ma lei martedì avrebbe preso la ferrovia per un affare di cavalli e poesie ungheresi.
Si era strofinato il mento guardando altrove e lei aveva pensato alle rane psicotrope e ai gechi che si magnetizzano alle superfici. Avrebbe voluto concedersi il lusso di un appuntamento senza transazioni commerciali, ma quando lui disse tutto assorto “Venerdì all’alba nella piazza della chiesa di tufo”, rispose solo sì.
Le dispiacque, il modo in cui lui le rimproverò di aver tardato – aveva rifatto tre volte le trecce, rovesciato il caffelatte dalla scodella, dimenticato le chiavi sul chiodo – quasi la ritenesse una mancanza di riguardo. “Sognavo il vento”, inventò.

Si stava chiedendo se sembrasse un rimprovero, quel che aveva appena farfugliato – è che i tamarindi erano finiti quel giorno sulle alture e lui invano aveva cercato negli appezzamenti vicini, pronto a scambiare le medagliette, gli yoruba, un quadro di sua madre giovane o la sua migliore giacca di velluto con le impunture. E poi quella sua frase sciocca voleva solo renderle chiaro quanto lo avessero prostrato le gazzarre degli uccelli, mentre a tentoni cercava di stabilire una congrua distanza dall’aurora, temendo sempre che lei non venisse.
Sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa lui ora, come le tenzoni, come condurre le danze, ma sentiva del miele denso gocciolare nella testa.

Lei si pentì d’esser stata brusca quando lui non rispose e per un momento pensò di sporcare le traiettorie confessando a occhi bassi di aver visto un pomeriggio un quadro di un santo bellissimo che pigiava l’uva scalzo ma inghirlandato d’oro, che no, non gli somigliava, ma quella notte lo aveva sognato così, in un castello sotto assedio, che pure pigiava l’uva, vestito con un saio scuro. Lei ricordava di averlo stretto nel sogno, di essersi appoggiata al suo fianco sussurrando “Sei la cosa più bagnata che”, senza finire, perché era davvero bagnato, nel sogno, ma le era parso tutto naturalissimo. Lui sorrideva come ora.

I suoi soci avevano smesso di bere con lui perché taceva fino a farli sentire peggiori, arrivava sulla piazza in tempo solo per gli ultimi boleri, che però non ballava, la sua prima donna non l’aveva capita affatto e lei per sgarbo aveva sposato il droghiere, però quel giorno riconobbe il momento di calcare la mano e ci saltò dentro con tutti gli stivali.

“Ricordi quando il ragazzo del nord calcolò il quadro dei nostri ascendenti e i giorni tristi prima del solstizio?”
(Lei, naturalmente, ricordava.)
“Tu dicevi di non credergli perché confidavi nella scienza”.
“Credo alla scienza”.
“Io anche, ma non vuol dire” disse tirando fuori un pugno chiuso dalla tasca.
Lei, istintivamente, aprì il palmo.
Erano sei semi storti, color corteccia.

“Ti insegnerò a potarli” disse lui, con tono sbrigativo, e a lei parve la più roboante, la più inaudita delle dichiarazioni.

Illustrazione originale di Viola Falasconi