Niente
Ogni mattina, prima di tutto, Rachele controlla il telefono. Non si sa mai.
Oggi però la sveglia Justin che sta chiamando a ripetizione. Rachele è immobile nel suo letto cosparso di libri e vestiti e cavi del telefono e sudore per gli addominali di ieri, perché le palestre sono chiuse, l’università è chiusa, e sono giorni che Rachele non esce.
Ha gli occhi ancora socchiusi e non ha la forza di rispondere. Lascia che il telefono smetta di squillare e poi controlla i messaggi di sua madre, dall’Italia. Nessuno in famiglia sta male.
Non appena si alza per andare a mettere su il caffè, il telefono riprende a suonare.
La verità è che Rachele non ha alcuna voglia di parlare con Justin. Non è arrabbiata, non sa perché vuole evitarlo. In un momento come questo, con tutto chiuso e nessuno che va ai concerti, a ballare, a prendere un caffè al bar, sa che dovrebbe tenersi stretto ogni contatto umano, ma lascia che Justin chiami e se ne va in cucina. Nel silenzio sente il ronzio del frigorifero; il filtro del caffè rimbomba quando lo sbatte contro il cestino della spazzatura per buttare i chicchi in eccesso. Ficca i fiocchi d’avena nel microonde e rimane in piedi a fissare il piatto girare, come se stesse ascoltando un disco. Carica i panni sporchi nella lavatrice.
L’acqua gorgoglia nel bollitore; il microonde la avverte con un ding che i fiocchi d’avena sono pronti. Rachele è circondata dagli unici rumori che ha sentito negli ultimi giorni: al mattino, quando è troppo presto per accendere la musica, si trova faccia a faccia col silenzio di casa.
Il telefono riprende a squillare.
Rachele ha conosciuto Justin all’università. Ha quarant’anni, è attraente, coi capelli neri pettinati all’indietro che si scompigliano ogni volta in cui gli lancia le braccia al collo per baciarlo sul portico.
Justin è sposato e ha tre bambini. Justin va in chiesa tutte le domeniche e in casa ha due pistole e da giovane era nella marina, e rappresenta tutto, tutto, tutto ciò che Rachele detesta dell’America.
Sei mesi fa, Justin l’ha baciata dopo lezione. Hanno continuato a vedersi regolarmente, e Rachele non si è mai sentita in colpa. Per un attimo ha pensato di smettere, per proteggersi da una situazione in cui avrebbe sofferto.
Ma adesso, mentre il nome di Justin lampeggia sullo schermo, Rachele sa di non aver sofferto affatto. Ha solo voglia di accendere la musica per coprire il trillo del telefono e fingere che Justin non sia mai esistito.
Certo che è stata male, in passato. Rachele si siede sul letto, la tazza di caffè in mano, i vestiti che girano nella lavatrice e la ventola del frigorifero di sottofondo, e ricorda di quando il suo primo ragazzo l’aveva lasciata poco prima della maturità. Si era chiusa in casa e per un mese intero non aveva fatto altro che ascoltare gli Stones, leggere Dracula e mangiare ghiaccioli alla menta.
E poi il secondo fidanzato, il migliore, quello avrebbe potuto essere quello giusto. Quando si erano lasciati, Rachele aveva smesso di mangiare. Era riuscita a contarsi tutte le costole per la prima volta in vita sua. Aveva consumato la discografia dei Blur.
Rachele non si sente così da un po’, e forse è un bene. Può ascoltare qualsiasi canzone, e nessuna le ricorderà di fidanzati sfuggiti. Non ha memorie da cancellare, fotografie o lettere che le farebbero del male. Ora si preoccupa per la famiglia e risponde al telefono non appena squilla, nel caso qualcuno la stia chiamando dall’Italia per darle una brutta notizia.
A Justin, invece, non risponde. Quando vede il suo numero, pensa alle canzoni che hanno ascoltato insieme, ai suoi occhi nocciola, le rughe sul collo, i pacchetti di American Spirit, il ghiaccio che tintinna nel suo bicchiere di Jim Beam, e Rachele non sente niente. Non sente il morso della fame, il bisogno di divorarlo tutto intero tra le braccia. Rachele vuole semplicemente ascoltare una canzone che la porti via dalla sua stanza, dal telefono che squilla, dal rumore della lavatrice, dai ding del microonde, dal silenzio dell’appartamento.
Rachele vorrebbe sentir parlare Italiano – la voce di sua madre, il Golden Retriever di famiglia che abbaia, suo padre che prova ad accendersi la pipa e mormora una parolaccia tra i denti perché l’accendino non funziona più. Vorrebbe sentire il cordless che squilla dal piano di sotto, sua fratello che grida di andare a rispondere. Di solito è nonna a chiamare, ma a dire la verità c’è sempre qualcuno che chiama, a casa dei suoi. Nessuno è mai solo.
Rachele mette su un disco di Bowie, si sdraia di nuovo sul letto e accende il computer per guardare un episodio di una serie qualunque mentre fa colazione. Justin ha smesso di chiamare. Oltre la musica, Rachele continua a sentire la ventola del frigorifero e il rumore della lavatrice. “Modern Love” di David Bowie sembra l’opzione migliore. Rachele si alza e accenna un passo di danza per la stanza, la tazza ancora in mano, il caffè che si rovescia. Non le importa di niente.
Da quando Rachele si è trasferita negli Stati Uniti, non ha mai smesso di ascoltare musica. Ha qualcosa di pronto ogni volta in cui può ficcarsi le cuffie nelle orecchie o collegare il computer alle casse: una playlist per studiare, per rilassarsi, per prepararsi prima di uscire; una compilation per una cena tra amici o una festa.
Rachele deve sentire. Una volta Justin le ha chiesto perché avesse su un disco ogni volta in cui lui mette – metteva – piede nel suo appartamento.
Rachele non ha saputo rispondergli. Sarebbe stato banale dirgli che la musica fa compagnia, allevia la solitudine. Ma Rachele ascoltava sempre dischi per ore anche prima della pandemia, quando ancora usciva, andava all’università, a bere con gli amici, in palestra. Rachele si chiede se si sentisse sola anche prima che il mondo si mettesse in pausa.
Aveva pensato di fare una playlist a tema Justin, come aveva fatto per altri, ma non ci era riuscita. Le canzoni che li univano perché erano passate per caso in radio, in un bar, o nel suo appartamento quando erano insieme erano tutte bellissime, e in quanto tali, impossibili da ricollegare a un momento specifico della loro relazione. Qualcosa di Dylan, qualcosa dei Velvet Underground, Serge Gainsbourg, e poco altro. Erano canzoni splendide. Niente poteva renderle migliori, o rovinarle. O forse la loro storia, i suoi sentimenti per lui, non erano gloriosi come le canzoni. La musica, sola, era abbastanza.
Il telefono trilla di nuovo – un messaggio, stavolta: ho bisogno di parlarti. È urgente.
Il tipo di messaggio che la manderebbe nel panico, se arrivasse dall’Italia.
Prima che Rachele possa immaginarsi cosa sia successo di così grave, Justin ricomincia a chiamare ininterrottamente. Un mese fa Rachele avrebbe pensato che un’ondata di chiamate potesse voler dire solo una cosa: sua moglie aveva scoperto tutto. Oggi non sa più che pensare.
Mette in pausa Bowie. “Che succede?”
“Hanno ufficialmente chiuso gli uffici”, dice Justin, la voce leggermente disturbata dal vento. Sta guidando, come al solito quando la chiama: in auto, Justin è in un non-luogo, lontano da moglie e figli.
Rachele sa benissimo che l’intero campus è chiuso da un po’. Il virus sta arrivando.
“Volevo portare dei moduli”, continua lui, poi s’inceppa. È più bravo a mentire a sua moglie. “Volevo sentire il suono della tua voce”, si ferma. “Mi manca.”
Rachele non ricorda dell’ultima volta in cui qualcuno le ha detto una frase del genere. Non le fa alcun effetto.
Ha già pensato di dire a Justin che è finita, che non prova niente a vedere il suo numero sullo schermo, a baciarlo, a sentire il corpo di lui schiacciato contro il suo. Ma l’università è chiusa, e non possono comunque vedersi per settimane, forse mesi. Non ne vale la pena. Non c’è niente da dire, né una soluzione giusta da adottare. Non c’è mai un modo giusto per dire che i sentimenti non sono ricambiati.
Rachele aspetta che il suo cervello le suggerisca parole migliori. Vorrebbe trovare una canzone che parli per lei, suoni che coprono i momenti di silenzio, le pause prima di dire qualcos’altro, anche se quel qualcos’altro finisce per essere niente. Invece rimane zitta nell’incertezza della fine. Pensa alla manciata di secondi subito dopo l’ultima nota di ogni concerto: il malessere e lo sconforto alla fine di ogni cosa dopo l’attesa spasmodica dell’arrivo del gruppo sul palco, della prossima canzone, del bis, del momento più alto dell’esibizione. E poi nulla, silenzio. Torna il rumore del microonde, il piatto che gira, il ding! alla fine. I vestiti nella lavatrice, la ventola del frigorifero. A volte le relazioni fanno lo stesso.
Al telefono con Justin, Rachele non dice niente per un po’. Sente i rumori di fondo, il vento dal finestrino, Justin che tira da un’American Spirit. Le parole le sfuggono dalle labbra.
“La mia mente è lontanissima da tutto questo”, gli dice, ed è vero. Rachele è altrove. Ogni giorno si sveglia e controlla il telefono senza sperare in un messaggio di buongiorno da parte di Justin. Vuole solo assicurarsi che le ore di sonno non le abbiano fatto perdere una chiamata importante da casa, quando in Italia è giorno ma è ancora notte fonda in Oklahoma. Rachele ha costantemente paura di essere troppo lontana. Il fuso orario la lascia indietro.
E quando scorre le notifiche e si rende conto che – per ora – va tutto bene, la sua mente fluttua ancora troppi anni luce da Justin. Rachele pensa che, se si ammalasse, l’assicurazione dell’università non coprirebbe le cure. Pensa che questa potrebbe essere la vita che dovrà vivere per sempre, chiusa in casa, e allora non conoscerà nessuno di cui vuole davvero sentire la voce. Pensa che collezionare storie fallimentari in partenza, come quelle con uomini sposati che vanno in chiesa ogni domenica, non possa più renderla felice. Pensa di essere sola. Pensa ai suoi ventisei anni; pensa di aver scommesso tutto per partire per gli Stati Uniti, alla ricerca di un futuro migliore, proprio ora che il futuro sembra in pausa fino a data da destinarsi. Pensa che nel caso in cui uno dei suoi familiari in Italia si ammalasse, lei potrebbe non fare in tempo a tornare. Pensa a sua nonna che è sopravvissuta alla seconda guerra mondiale, e ora alla pandemia. Pensa a tutte le persone che potrebbe rivedere o perdere, a tutti gli sconosciuti che potrebbe incontrare; pensa di tornare a casa, forse restare, o trasferirsi in un posto nuovo, in una città più grande, senza uomini sposati che hanno due pistole, tre figli, e una chiesa dove andare ogni domenica; pensa a quanto sarà dura trovare il lavoro che vuole. Pensa che ogni giorno che sembra avvolgerla in una ragnatela sempre più spessa e stretta e velenosa. Pensa a un futuro migliore, che sicuramente non ha niente a che fare con la conversazione che sta avendo con Justin.
Sente la delusione nel silenzio di lui; la distanza si allunga come un elastico teso al punto da sgusciare via. La voce di Justin è ruvida, metallica, sospesa tra parole che lei vuole dirgli. Ma Justin è educato, è orgoglioso, è un uomo del Sud. “Capisco”, le dice. Rachele sa cosa sta pensando: stronzate. That’s some bull-shieeet, con l’accento dell’Oklahoma che gli strascica tra le labbra.
Rachele non dice niente, e Justin aspetta.
È intrappolata nel silenzio. Rimane al telefono, e per un attimo sente di nuovo la ventola del frigorifero, i vestiti che girano nella lavatrice; vede il disco di Bowie messo in pausa. Rachele vuole tornare ad ascoltare. A sentire.
E Bowie torna effettivamente a cantare prima ancora che Rachele chiuda la chiamata, prima di cogliere anche un istante dei patetici rumori che rimbombano tra le pareti del suo appartamento. Solo quando immagina Justin lanciare il telefono contro il parabrezza, sferrare un pugno contro il volante, maledirla tra i denti, Rachele trova la frase giusta per la fine della loro storia, per se stessa, per il silenzio del mondo. Siamo diventati niente.
Fotografia originale di Niklas Braun
Nel corpo del testo: Photo by Jonathan Kemper on Unsplash (1), Photo by Mink Mingle on Unsplash (2), Photo by Ocramnaig_o1 on Unsplash (3)