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Un notturno tra i mille

Autore
Iago Menichetti
Ciclo #4 - Ytalia, storie alter-native
Narrativa
11 marzo 2021

2 novembre 1867
Campo della Legione Garibaldina
Notte prima della battaglia di Mentana

Il fuoco del braciere si rifletteva sulle camicie rosse proiettando mostri sulla notte.
«…Una strega! quella donna è una strega vi dico.»
Alfieri smanacciava nel vuoto per dar corpo alle parole. Gli altri lo ascoltavano distrattamente, girandosi una paglia o scaldando un po’ di caffè.
«Si è beccata due palle in petto al posto del Generale. Quei bastardi francesi l’hanno buttata nelle fosse comuni insieme agli altri e il giorno dopo è tornata al campo come niente fosse, col sangue che le colava dai buchi davanti.»
Carbone sorrise dopo essersi chinato per appizzare il tabacco e dette credito ad Alfieri:
«Perché è tornata, cosa voleva?»
«Acqua. Aveva sete.»
Scoppiarono tutti e tre a ridere mentre il caffè borbottava, in ebollizione.
Conclusa la storia, Alfieri si sfilò gli stivali logori per massaggiare i piedi. Da un buco nella calza facevano capolino l’alluce e l’indice destro, ora di colore viola.
«Tivoli è ancora parecchio lontana.»
«Ci arriveremo,» Fattori rispose versando il caffè nelle tazze dei suoi compagni, dopo aggiunse: «Anche la strega dell’est ci mancava. Quella donna mi terrorizza, quando ti fissa è come se ti rovistasse dentro. Ogni volta mi si rivoltano le interiora. Vorrei sapere perché il Generale si circonda di stramboidi… Ehi, ne vuoi un po’ anche tu?»
C’era un quarto uomo intorno al braciere, che nessuno conosceva e che fino ad allora era rimasto in silenzio. Sembrava più vecchio degli altri e fissava il contorcersi delle fiamme, avvolto in un poncio un tempo verde, adesso solo sporco. L’uomo non rispose.
«Mah, fai come ti pare. Io lo lascio qua.»
Fattori posò il caffè a terra e allungò la mano verso Carbone per rubargli la paglia. Carbone sembrò contrariato ma lo lasciò fare, poi attaccò a parlare.
«A Garibaldi le donne sono sempre piaciute: more, bionde, italiane, inglesi, comuni o streghe, comunque meglio se ricche. Ne ha scopate di figlie di marchesi o altri impomatati, il bastardo.»
Alfieri sembrò contrariato.
«Ti sbagli. A lui piacciono ruspanti, focose, con la carabina in mano. Quand’era in Sicilia, prima di prendersi Palermo, per poco non buttava giù una prigione intera, con tutti quei gesuiti bastardi dentro, per riprendersene una.»
«Quante cazzate!» replicò Fattori, sfanculando le insinuazioni di Alfieri con la mano che reggeva la paglia. Della cenere piovve sui pantaloni di Carbone che iniziò a soffiare sul minuscolo incendio divampato sulla coscia.
«Lo sanno tutti che quella storia il Generale se l’è inventata per fare venire il cazzo duro alle reclute più giovani, che non leccano pelo fresco da giorni… » Fattori si infervorò; schizzò in piedi con l’indice puntato addosso al compagno: «…L’unico motivo per cui hanno assaltato quella prigione è che Garibaldi i preti li ammazzerebbe tutti e fa bene. Siamo qui per questo, del resto. Ma non venirmi a raccontare di amazzoni “focose” – Stronzate!»
«Io c’ero.»
Una lingua di vento leccò il fuoco del braciere. La luna continuava a illuminare quel teatro d’ombre mosso dalle fiamme che scuotevano.
Furono le prime parole pronunciate dall’uomo col poncio.
«Cosa?»
Fattori era stato colto di sorpresa: lo sconosciuto gli aveva rovinato il discorso.
«Ero lì quando assaltarono Castellammare, partecipai all’attacco.»
Fattori si girò verso Alfieri che si voltò verso Carbone che sollevò la testa confuso, dopo essere appena riuscito a spegnersi i pantaloni.
«Stai dicendo che eri coi Mille?»
Fattori replicò incredulo. L’uomo annuì, ma ad Alfieri non bastò: «Allora? Raccontaci, forza, che successe?»
L’uomo indugiò, in silenzio.
«È tardi. Domani abbiamo parecchia strada da fare.»
Alfieri si allungò per agguantare il caffè con cui dopo riempì la tazza dello sconosciuto.
«Sei in debito di una storia. Prima ho raccontato della strega e tu hai ascoltato.»
Fattori dietro di lui annuì: «Prima ce lo racconti, prima riposiamo.»
«Solo questa poi andiamo tutti a dormire,» si sentì in dovere di confermare Carbone.
Senza sollevare gli occhi dal fuoco, lo sconosciuto sorseggiò il caffè ancora caldo.
Mentre li rievocava, i ricordi divampavano nel buio insieme alla cenere.
Dopo il terzo sorso, lo sconosciuto iniziò a raccontare

Non si vedeva nulla, erano le due passate, le uniche luci erano quelle dei fucili che ci vomitavano proiettile addosso, da ogni direzione.
Eravamo in cinquanta appena. A guidarci ci stava Garibaldi in persona. Più che un attacco a sorpresa il suo era un tentato suicidio, ma non gli importava un cazzo: continuava a correre e infilzare borbonici senza battere ciglio, spietato come sa esserlo solo Dio. Tirava di sciabola meglio di come impugnava il cazzo, anche se era proprio quello a guidarlo: avrebbe raso al suolo tutta Palermo per riprendersi Lia. Lia… Oltre al Vecchio, quella donna aveva fatto impazzire anche un bastardo gesuita: “Monsignor Corvo”. Un fantasma alto più di due metri dalla lingua di serpente. Girava sempre ammantato nei tabarri neri che portano quelli della sua maledetta genia. Corvo era un demònio, uno di quelli che ossessionano il Vecchio da quando li incontrò in Brasile.
Il gesuita ha riconosciuto Lia a Palermo: l’avevamo mandata lì in avanscoperta, per sapere quanti culi si erano piegati ai borboni. Una delle rare volte in cui l’ho vista conciata da femmina.
Corvo l’ha riconosciuta mentre passeggiava. I due si conoscevano: Lia era una delle bambine che il Monsignore faceva prostituire per strada. Lia ripeteva che già a tredici anni conosceva più cazzi che cristiani e questo le aveva messo addosso un odio senza fondo verso quei mostri e gli uomini di chiesa tutti. Lo stesso odio che aveva convinto il Vecchio ad arruolarla. Forse proprio per questo Corvo ci teneva così tanto a riaverla: si sentiva espropriato. Corvo la portò al forte per interrogarla, ed è qui che siamo arrivati noi.

Ci fecero passare il fossato e la prima trincea difensiva. Arretravano e più arretravano più noi ci sentivamo forti. Ricordo ancora il colore del sangue spruzzato fuori dal tronco di un borbonico a cui recisi la testa di netto: illuminato da una torcia del forte sembrava una pioggia di rubini.
Ma era una trappola.
Quando anche l’ultimo dei nostri ebbe raggiunto l’atrio interno, ci chiusero il gran cancello di ferro alle spalle e iniziarono a grandinarci addosso tutta la merda che avevano. Arrivavano fucilate da sopra il cancello, dalle feritoie laterali, da qualunque punto o finestra dove poteva starci un tiratore. Ci falciarono come gramigna. Vidi scoppiare un piccolo commerciante di Brescia a tre passi da me: la sua testa fu raggiunta da una ventina di palle insieme. Rimase integra solo la lingua che cascò per terra.
Il Vecchio, carico di tutto quel sangue concentrato nell’uccello, si dimenava come una iena, sbraitando di ricompattare i ranghi e restare saldi nello spirito, ma la verità è che saremmo morti tutti in quella carneficina se non fosse stato per Lia.
La ragazza ci raccontò che Monsignor Corvo l’aveva raggiunta nella sua cella, quella stessa notte. Ufficialmente il gesuita doveva farle confessare la nostra posizione e l’ammontare delle nostre forze, ma nei fatti Corvo le si presentò con un topino in mano.
Conoscete la tortura del topo?
È un passatempo simpatico con cui i membri dell’inquisizione si divertono a torturare streghe ed eretici: nella fica o nel culo della vittima viene infilato un topo, dopo si cuce ogni via di fuga e così al topo non resta che scavare verso gli organi interni.
Da scompisciarsi dal ridere.
Corvo si presentò a Lia con un topino, dicevo, glielo fece annusare, mentre le ansimava addosso con l’alito di incenso e piscio, poi le promise che se avesse rinnegato la sua nuova causa, il Vecchio e i Mille tutti, l’avrebbe graziata. In pegno, esigeva un bacio. Un po’ di saliva da quella bambina a cui, pochi anni prima, avrebbe potuto lasciare saccheggiare la passera con uno schiocco di dita. Lia rispose poggiando la lingua umida sul collo del suo torturatore. Lo ingolosì. Continuò a salire, poggiando una mano sul pacco del gesuita che respirava pesantemente. Il topino approfittò del momento per svincolarsi dalla stretta. Forse per pudore si dileguò in un anfratto della cella. Lia giunse alla bocca, sottile e putrida, del Corvo, ne morse avida il labbro superiore, il Corvo gemette di desiderio, la ragazza tirò e tirò ancora tanto da lacerare la carne stretta tra i denti.
L’ho sempre immaginato di sentirlo, tra uno scoppio di fucile e l’altro, il Corvo grondante di sangue gridare Maledetta Puttana.
Non so se Lia avesse sentito del trambusto fuori o capito che c’eravamo noi, fatto sta che non concluse la sua vendetta. Anzi, corse fuori dalla cella e si mise a liberare tutti i prigionieri in un’evasione di massa. In un niente, i borbonici si ritrovarono presi alle spalle dai briganti e tagliagole che avevano torturato fino al giorno prima. Ho ancora negli occhi l’immagine della sbirraglia del forte coi ventri squarciati e i prigionieri sopra di loro che strappano via le interiora a mani nude.
Fu un bello spettacolo.
In ogni caso, approfittammo di quella bolgia per fuggire. Garibaldi era contrario: non se ne voleva andare finché non avessimo trovato Lia, peccato una palla gli avesse trapassato lo stivale, azzoppandolo, e quindi non potesse ribellarsi più di tanto. Personalmente, avrei ascoltato le sue richieste e lo avrei lasciato lì, però qualcuno decise di caricarselo a spalla. Comunque, alla fine, il Vecchio venne accontentato: vedemmo Lia sgusciare fuori da una feritoia, dopo aver sollevato il cancello di ferro tirando la catena, e guidare la fuga. Aveva ancora il volto imbrattato dal sangue del Corvo. Le donava.
Dei cinquanta iniziali eravamo rimasti in meno di dieci.

Quando lo sconosciuto finì di raccontare, Alfieri, Carbone e Fattori restarono senza fiatare per alcuni minuti.
Alfieri, notando la tazza vuota dell’uomo, fece il gesto di riempirla con altro caffè ma lui lo fermò con la mano, posò a terra la tazza e si alzò per incamminarsi verso la brandina.
Alfieri si girò verso Fattori che spalancò le braccia come in segno di resa. Carbone, invece, preda di un dubbio, rivolse una domanda allo sconosciuto, ormai quasi inghiottito dal buio: «Perché hai chiamato quel prete demònio? Dicevi così per… Cosa volevi dire?»
Lo sconosciuto si fermò. Aveva gli occhi di Carbone, Alfieri e Fattori incollati alle sue spalle.
Scoppiò a ridere. Ai tre legionari sembrò che quelle risate scuotessero il braciere, mentre, alle loro spalle, orrori animati dal fuoco ballavano nella notte.
«Possibile non abbiate ancora capito: credete davvero che una strega che ritorna dalla tomba sia l’unica mostruosità di questa spedizione?»
Lo sconosciuto si voltò verso di loro aprendosi in un sorriso con due lunghe zanne acuminate al posto dei canini, infine scandì bene poche parole: «Non si fa una nazione senza scendere a patti con qualche mostro.»


Illustrazione originale di Antonio Pantano
Si ringrazia Leo Giovacchini per questa storia e le altre mille che condividiamo in quell’utopia felice che è Tra le righe