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Angelica

Autore
Rachele Salvini
Ciclo #1 - Una porta si apre
Narrativa generale
17 settembre 2020

Quando il telefono di Angelica suona, ci avviciniamo in punta di piedi e socchiudiamo la porta della sua camera. Fuori c’è il sole, i gabbiani schiamazzano in cielo, il libeccio sibila sulla zanzariera della finestra. Angelica ci dice sempre di andare a giocare, ma preferiamo ascoltarla rispondere al telefono. Parla inglese e dice parole che non capiamo, ma i suoi sospiri rimbalzano piano sulle pareti della sua camera come palloncini.

Quando nonna è morta, papà ha tolto le sue vecchie lenzuola con le ortensie, la croce sopra il letto, e ci ha detto che avremmo avuto una nuova sorella. Una nuova sorella grande. Angelica è arrivata a Livorno dalla Lettonia con un copriletto di pelliccia rosa e ha subito chiesto un telefono, così papà le ha lasciato quello della nonna e le ha detto che era tutto per lei. È vecchio, rosso lucido, col filo arricciato come i capelli di Angelica. La guardiamo arrotolarselo tra le dita delle mani e dei piedi con le unghie smaltate di bruno mentre sussurra storie ai suoi amici americani. Le chiediamo chi sono questi amici, ma Angelica ci dice sempre che non li ha mai visti neppure lei. Poi ci dice di smettere di ascoltarla parlare al telefono, anche se noi non capiamo niente di quello che dice. Quando parla inglese, la sua voce sembra fatta del burro di cocco che lascia nel bagno e che si spalma sulle cosce tra una telefonata e l’altra. Abbiamo provato ad assaggiarlo, ma lo abbiamo tutto sputato.

La scorsa settimana, l’unica sera in cui nostra madre era a cena a casa, Angelica ha chiesto a papà di comprarle un computer con la videocamera. Ha detto che glielo deve. Papà stava bevendo un’altra bottiglia di Ichnusa ed è sembrato sorpreso. Nostra madre ha alzato lo sguardo dalla pasta di mare e ha chiesto, in che senso, e papà ha detto ad Angelica, non fare la bambina viziata, hai quasi diciotto anni. Quando lo dice, quasi diciotto anni, noi ci sentiamo piccole piccole e Angelica sembra grande, quasi quanto nostra madre che lavora sempre sulle crociere e non torna per mesi. Forse, dopo che nonna è morta, nostra madre voleva che Angelica fosse un’altra mamma, una seconda mamma, una sorella grande che è ormai una donna.

Angelica non dice niente, ma allunga le dita smaltate di bruno con le unghie lucide come cioccolatini verso la bottiglia di Ichnusa di papà. Lui gliela toglie e le dice che è troppo giovane. A volte vediamo bottiglie di Ichnusa vuote sul comodino di Angelica, ma papà non sembra farci caso.

Angelica ci dice sempre che quando ha diciotto anni vuole andare in America, e noi le chiediamo perché non le piace Livorno con le sue gabbianelle e il cemento cotto al sole. Le chiediamo se le manca la sua famiglia in Lettonia e se vuole chiamarli o invitarli a Livorno per vedere il mare, ma anche d’estate Angelica sta tutto il giorno in camera a parlare al telefono coi suoi amici americani. Papà ci dice di non aprire la porta. A volte lui entra con lei e chiude e sentiamo che gira la chiave lentamente, pianissimo. Papà pensa che non vediamo e non sentiamo niente – le bottiglie di Ichnusa e la chiave nella toppa.

Angelica non sa che la ascoltiamo parlare al telefono. Non sa che la vediamo contare un sacco di banconote in una cassetta di latta sotto il suo comodino.

Continuiamo a guardare e ascoltare.

Angelica ha i riccioli lunghi lunghi neri che sembrano rotelle di liquirizia e noi vorremmo assomigliarle, ma Angelica è diversa, è grande, ha quasi diciotto anni, ha questi fianchi larghi e queste braccia lunghe come i suoi riccioli, mentre noi siamo piccole e tonde e i nostri capelli sono biondi e lisci come fogli di carta, anche quando proviamo i vecchi bigodini di mamma per giocare a essere Angelica. A volte le chiediamo di aiutarci ad acconciarci i capelli come i suoi, ma lei parla sempre al telefono, coi riccioli sparsi sulla pelliccia rosa del letto e le gambe in alto lungo il muro. La sua voce è morbida e granulosa come sabbia bagnata tra le dita dei piedi. A volte la fissiamo per ore perché siamo sole e non sappiamo che fare.

Angelica indossa sempre una maglietta larga senza reggiseno, anche se di reggiseni ne ha tanti e belli, di pizzo, piumati e borchiati e di ogni colore, e li tiene con cura in un cassetto. Quando parla al telefono, vediamo i suoi seni che si alzano sotto il tessuto, tutti appuntiti. Angelica sospira molto, come se fosse triste, ma tiene gli occhi socchiusi come la porta della sua camera. Dice parole che suonano come poesie. A volte sospira e basta.

Una domenica papà torna dalla partita del Livorno tutto rosso e sudato e il suo respiro ha un odore strano che non ci piace, un odore che sembra quello delle sue bottiglie di Ichnusa. Ci trova a guardare Angelica, allora ci acchiappa per l’elastico delle magliette, ci dice, che fate, diavole, e ci trascina via dalla porta.

Niente, niente, niente, gridiamo, e sentiamo Angelica che riattacca il telefono. Allora papà ci urla di andare a giocare. Ma noi non sappiamo a cosa giocare, perché vogliamo sempre socchiudere la porta della camera di Angelica e ascoltarla sospirare con i suoi amici americani. Soltanto papà può entrare. Angelica dice, voglio la mia videocamera, e poi la chiave che gira nella toppa, piano piano, con gli ingranaggi che sembrano sussurrare un segreto.


Illustrazione di Costanza Lettieri