Astronauti
Osserviamo una donna sfogliare con dita pigre un libro faticoso. Parole pesanti la importunano, così che la vista sfugge alle pagine e si rifugia in un fascio di luce che, sgusciato fuori dalle tende, si intrufola nella stanza, lasciando volteggiare tra le sue maglie coriandoli di polvere: Astronauti dispersi in un universo luminoso. La donna si lascia cullare da quei moti ondulatori. D’improvviso, una porta si apre e lei precipita.
Precipita piano, senza fretta; si direbbe una caduta inetta. Precipita di quel moto, resistito e denso, che hanno i coltelli quando affondano nei dolci troppo grassi per essere soffici.
Non precipita del tutto, solo per un tratto. Atterra infatti sul pulviscolo, proprio su uno di quei coriandoli che osservava vorticare nella luce, ma stavolta non è microscopico, no, è enorme, è la piuma di un uccello gigantesco, vecchia come il mondo, a cui lei si avvinghia stretto per non cascare. Intorno pulviscoli, a milioni, fanno girotondo mentre volteggiano circonfusi di luce. Si domanda perché non ne sia abbagliata, perché la luce le permetta di vedere e se la porta non si sia spalancata su un’adunanza di stelle; se lei stessa non sia diventata spettatrice non unica bensì ubiqua: oltre le piume di polvere, oltre la luce, si intravede mastodontica osservarsi infima, proprio dallo stesso posto dal quale stava sbirciando prima.
Ha un sussulto.
Odia il suo sguardo, vorrebbe scappare al riflesso. È stanca. Vorrebbe andare via, fuggire per riposarsi. Maledetta porta che l’ha costretta a volteggiare nella luce, maledetta porta che… Ma dov’è? Dove sta la porta?
Alza la testa e così fa il suo doppio, quello gigante, quello spaventoso. Non sa cosa veda il suo riflesso, in compenso scorge la porta, lassù, ancora spalancata, in alto, su una nuvola di polvere. C’è speranza, va solo rincorsa. Arrotola un’estremità della piuma che la sorregge, ne fa un timone, la tira a sé facendola impennare; la donna cavalca le correnti risalendo quel torrente di luce che sciaborda nell’oscurità, scansando le pezze di buio che si inseriscono in una rete altrimenti compatta.
Quando il vascello rischia di rovesciarsi, salta e s’appiglia a un altro grumo soffice, liscio, comunque di polvere. Salta ancora e ancora. La porta è vicina ma il fato ama scherzare, inizia a chiudersi, spinta da una brezza invisibile. Potrebbe restare uccisa per il riscontro, del resto sua madre dice sempre di non lasciare le porte aperte quando c’è vento perché sbattono. Sarebbe ironico, se solo non avesse paura di morire.
Si volta. Vede il riflesso, beffardo, fissarla ancora. Ma cosa vuole da lei? Se ne sta lì col suo libro dalle parole pesanti e la giudica senza diritto, senza motivazione: il giudizio è uno dei rari movimenti che non necessita di azione.
La odia come odia quella situazione e tutte le altre situazioni dei libri pieni di situazioni, odia anche non ricordarsi cosa stia leggendo ed è così, tra un odio e l’altro, che la sua risalita si incrina, l’ultima piuma di polvere che ha agguantato la disarciona lasciandola precipitare giù, con la porta che si chiude lassù. Mentre precipita osserva il doppio assopirsi, forse cullato da correnti escapiste, finché una palpebra non le si affloscia, poi l’altra, lei resiste ma la testa cede sulla spalla e così un occhio, poi l’altro, si chiude.
La pagina è sbavata e l’asticella della montatura storta. Si tira su, sopra al letto. Si toglie gli occhiali per massaggiare gli occhi. Cerca le piume ma sono scomparse. Sbadiglia.
Non ricorda cosa è successo. Stava leggendo, poi una porta si è aperta ed è precipitata. Dove era arrivata? Chissà… Dovrà per forza ricominciare.
Così lasciamo la donna alle sue letture. Ci allontaniamo finché non vediamo prima lei, poi la stanza, farsi piccoli, minuscoli, appoggiati su un coriandolo di polvere, a volteggiare nella luce.
Foto di Andrea Lenci