Cambio di stagione
Lunedì: animale lesto, ostile. Pensiero abrasivo che urtica i nervi, sin dalla sveglia. Anche quando pare innocuo, fuori stagione, ha una coda che trascina frantumi di tragedia, sempre. Fitte, emicranie, gastriti. Sarebbe agosto, dico, adesso. Differenze con novembre: clienti che vagano sbracciati, oltre la porta dell’albergo. In sandali, nonostante la pioggia. Il che potrebbe non voler dire niente: qui c’è chi li porta persino a febbraio. Ma per noi, noi chi?, per me, non cambia niente. L’aria condizionata è sempre a ventuno gradi, alla reception di questo hotel da cento stanze. Il meteo è un concetto crudele, ma rapido, quanto il tragitto per casa.
Lunedì. Per ora bene. Si comincia alle tre, sono qui dalle due e mezza, un cambio e caffè veloci, due chiacchiere qua e là. La mia collega Mireia annuncia: novantaquattro arrivi, primo full della stagione, saremo completi per le nove e in overbooking di cinque. Mireia si è fatta ottantanove check-out. Le puzzano i piedi e la camicia, ha i capelli grassi, le tette strizzate e un alone di sudore le annerisce la giacca. Io sono di un bianco desolante, la barba fatta male, troppa, solita fretta, la giacca sintetica blu. Siamo sgradevoli, lo sappiamo. Siamo giovani e sprecati, avvizziti come frutta vecchia chiusa in frigo. Io sono appena arrivato e già sembro stremato. Lei ha una faccia di chi non dovrebbe neanche essere qui. C’è chi chiama un’ambulanza per molto meno. Il nostro burn-out è un orizzonte a portata di mano: un incubo che sa di deodorante esausto e ballerine consumate, gelido come l’aria di questo hotel.
Ottantanove check-out, sospira, e mi allunga il foglio della cassa che ha appena finito di contare. Firmo, manco guardo. Lei lo rimette dov’era, manco guarda. Solo ora le dico ciao e lei si gira per rispondermi. Mi porge il ghigno da clienti, inquietante. Sorrido io, ma non faccio meglio di lei. Di fronte c’è il bar, i tavolini capovolti e il pavimento umido. Il servizio riapre alle quattro. Un cliente, in un angolo dietro un pilastro, sonnecchia in attesa di qualcosa.
Quello è lì dalle undici, mi dice Mireia, ha fatto di tutto: è entrato urlando, ha continuato a urlare nonostante la fila di gente al check-out, è uscito piangendo ed è tornato masticando un hamburger che puzzava di sudore. Tutto alle undici e mezza, per poco non ho vomitato.
Mireia inspira forte, per bloccare lo schifo. Io stringo il culo.
Ora dorme, continua, appena ti chiama la governante, dagli qualcosa vicino all’ascensore.
La duecentosette, dico automaticamente.
O la trecento diciassette, ribatte lei.
E ridiamo, serpenti malevoli, perché quella è una gabbia per criceti, a forma di elle, tetra e rumorosa, tra ascensori che fanno su e giù e psicopatici che scalpicciano impazziti per i corridoi. Suono il campanello per farlo saltare, mi sta sul cazzo vederlo così. L’uomo, come se ignorasse di essere vecchio, compie un miracoloso balzo e in due passi ci è davanti. A muso duro gli chiedo i documenti e lui me li porge annuendo docilmente. Proviene da un paese in cui si è abituati a farlo. Controllo quanto ha pagato e quanto resterà da noi: non ha pagato lui, non pagherà niente. È il tradizionale cliente-topo, così li chiamo io. Particolarmente avidi a colazione, golosi di qualsiasi cosa ci sia al buffet, sono quelli che arrivano per primi e svaniscono tra gli altri, non lasciano residui e rubano persino le mele di plastica. È naturale che dorma in una gabbia. E infatti, con uno scatto roditore, mi sottrae dalle mani la sua chiave e le sue carte, ripone e raggiunge l’ascensore. Ha già studiato il percorso più rapido per raggiungerlo, e il miglior tavolo per la cena, tra pilastri e tavolini del bar, sfruttando l’istinto prodigioso caratteristico della sua specie. Non mi aspetterei niente di meno. La vita è fatta di piccole conquiste e lui ha tutto il mio disprezzo.
Mireia non ha mosso un muscolo, mica la biasimo. Sta finendo di contare le monetine da cinque e due centesimi, nonostante abbia già firmato il foglio di cassa. Vorrei avere la forza di dire che ci sono abituato. Ci credereste? Se aveste davanti questa ragazza spagnola che conta soldi non suoi, un centesimo per volta, mentre lotta per darsi ancora un tono, per sfuggire al disastro neuronale ormai imminente, capireste che l’abitudine non c’entra. È l’istinto a perseverare nel proprio disastro, come quello di chi resta in trincea, nonostante abbia perso la guerra. È una concentrazione estatica a spingerci avanti, giorno dopo giorno, in questa vita tagliata in tre monconi, quanti i turni dell’hotel: mattina, sera, notte. Ci restano le ore che avanzano intorno, meno il sonno, ormai intervalli di veglia, e il tempo per cucinare. In molti neanche lo fanno più, mangiano quel che si vende per strada, nel tragitto verso casa. Io mi sforzo di fare onore al mio essere italiano, ma è più una fissazione genetica, diciamo così. Anche questo ormai non ha alcun senso. Spagnoli, italiani, polacchi. Lo siamo solo fuori di qui, passato l’ingresso nessuno sa più cosa pensare e in quale lingua. Qui negli hotel della capitale d’Europa parliamo in inglese, c’è tra noi chi non ne è capace e si esprime in francese. Altri solo a gesti. Io parlo di tutto, se pagato.
Mireia finisce di contare i soldi, cinque minuti prima delle tre, ma io sono già lì, le dico che può andarsene prima, non c’è problema. Lei corre a cambiarsi. La sloggo dal sistema, mi loggo io, preparo la lista degli arrivi, la carta delle stampanti, le penne per le firme dei moduli. C’è tutto. Quando ho finito, sposto lo sguardo oltre il bancone verde del desk e la vedo sbucare dal corridoio laterale, a passi sonori nonostante le suole di gomma. Ora mi sorride, ma è diverso, un velo di colore le illumina la faccia, forse una speranza c’è. Mi augura una buona giornata con quel che le resta della voce, mi dà dei consigli su chi chiamare per i send-out. Ringrazio, sorrido anch’io, ma solo per abitudine.
To send-out: mandare i clienti che hanno una prenotazione da noi a dormire da qualche altra parte. Pratica delicata, può evolvere creando casini le cui ripercussioni proseguono per giorni, settimane. Chi deve pagare la fattura? E il trasporto? E se il cliente decide di non tornare da noi? O se l’hotel dove l’abbiamo mandato non gli piace e ritorna qui perché ne vuole un altro? Non c’è una risposta, si valuta caso per caso. Bisogna telefonare agli alberghi della lista, che non fanno sovrapprezzi o altri maneggi, questa è la procedura. Ciò che non si fa per procedura, in questo hotel si fa per consuetudine. E nessuno osa sfidare la consuetudine, la cui codifica ha richiesto lo sforzo congiunto di generazioni di receptionist transitati qui. Ora è in una cartella sotto ai piedi, con SEND-OUT scritto in nero. Perché non hai fatto come tutti gli altri? Sentirsi porgere questa domanda precede di qualche istante il licenziamento. È vero, l’ho visto succedere. Al cliente va offerta la soluzione, non il problema, la consuetudine dice questo. Giusto un attimo prima che abbia il tempo di capire: non troppo prima perché l’hotel chiamato potrebbe avere momentanea disponibilità, e dopo dieci minuti essere pieno, né dopo, quando è già da noi, e non abbiamo niente da proporgli, e alza la voce come un ossesso.
Lunedì. Il meteo, agosto. Animali feroci. Sopraggiunge un istantaneo pizzicore tra le costole, ad ogni respiro. Decido di ignorare la possibilità di una morte imminente, tanto per farmi un piacere. Va tutto bene. Il barista ancora non è arrivato, il che vuol dire che non sono ancora le quattro. Dei miei novantaquattro arrivi ho fatto solo il signor topo, e non ha richiamato per lamentarsi. Hanno già acceso la musica, monotona, lounge, e le luci del bar. Il turno del mattino mi sfila di fronte, uomini e donne. Resto da solo col contabile, trincerato dietro il vetro. Mi rivolge la parola per lamentarsi, dice che le fatture della lavanderia non sono ancora pagate, dopo due mesi, e vuole che scriva ancora per un sollecito. Certo, subito, rispondo. Ma non lo faccio subito, perché non sopporto la sua faccia da cazzo. Poi però lo faccio, altrimenti me ne scordo.
Arrivano i primi clienti, novantatré meno due: due svedesi. Con loro si fa presto. Il nostro hotel appartiene a una catena scandinava, e loro qui si sentono a casa più di tutti. Sanno come funziona tutto alla perfezione, è gente efficiente e arrogante. In due minuti sono via. Altri tre, polacchi, tutti insieme: ottantotto. Questi, tradizionalmente, chiedono fatture con un’intestazione lunghissima, piena di consonanti. Hanno le prenotazioni firmate da qualcuno a penna blu, sempre blu, corredate da una fotocopia del passaporto dell’autenticante, stessa firma di sopra, un loro superiore. I tre sanno tutto di noi, ciò nonostante, richiedono ogni volta le stesse cose. Io parlo polacco con loro, e loro ogni volta mi fanno le stesse domande. Segue una piccola carovana di tedeschi, circa quindici. Anch’essi, tutti insieme e straordinariamente indisciplinati: si dispongono lungo tutto il perimetro del desk, per cingermi d’assedio. Io sorrido e in inglese chiedo, tendendo un braccio davanti ai miei occhi, di disporsi lungo una fila. Nessuno di loro capisce l’inglese, tutti però eseguono con diligenza. E tutti mi chiedono a che ora sia la colazione. Ce l’hanno pagata, lo sapevano già da prima.
E siamo a settanta. Finalmente le quattro, lo so perché arriva il barista. Ben rasato e occhiali da sole, un cenno della mano oltre l’ultimo tedesco. Sparita la fila, sbuca dal fondo della sala, dietro il bancone del bar. Mi chiede se voglio un caffè, dice qualcosa che mi sembra una battuta sui jihadisti presenti qui in città, è marocchino, rido da solo, lui no. Forse se l’è presa. Di certo s’intristisce e mi dà le spalle per accendere la grande tv. E da lì in poi, parleremo solo per emergenza.
Settanta meno due, due giapponesi, madre e figlia in stanze diverse. Grande popolo. Così tiro dritto fino almeno alle cinque e mezza, e arrivo a circa trenta, ho messo dentro persino un’intera azienda di baresi che, appena arrivata, mi ha chiesto dove poter mangiare del crudo. Inteso pesce, ovviamente. Quello con la panza più tonda e abbronzata di tutti, con una camicia dal collo imperiosamente alzato, è colui che ha pagato tutto a tutti, camere, colazione e tassa di soggiorno.
A posto?, poi mi ha chiesto.
A postissimo, ho esclamato io congratulandomi.
Altri cinque tedeschi, al volo, prima di scendere a pisciare. Venticinque arrivi, siamo alle sei meno un quarto. Vado in bagno, il barista mi terrà d’occhio il desk. Guardo l’ora, altro che sei meno un quarto. Sono le otto passate e sono allegro, respiro, evacuo e mi sciacquo la faccia: ho fatto una botta pazzesca e ho gestito i flussi serafico e professionale. Comincio a sentirmi meglio, comincio a provare sensazioni proprie di un essere umano. Indugio allo specchio. Ci vedo la faccia ottimista di un trentacinquenne, italiano, laureato, di professione traduttore, ma attualmente impiegato in questo bell’hotel del centro della capitale d’Europa. Con uno stipendio niente male e prospettive per il futuro. Un colorito roseo e sano, poca pancia e persino fame. Ed è ora di cena. Non mi pare affatto poco.
Affioro leggero dalla psiche, riprendo possesso del mio posto di lavoro. Venticinque arrivi, alle otto e venticinque. Mi sento strano, non so come dirlo, positivo. Forse oggi questo giorno capriccioso e vorace di guai pretende il sacrificio del collega notturno, e non il mio. Volubili numi di agosto e del lunedì. Al bar, intanto, il collega traffica tra un tavolo e l’altro servendo pizze e lasagne per cena. Tutti gli svedesi di cui disponiamo cenano qui, e adesso, perché alle otto e quarantacinque comincia la partita di una qualche loro squadra di merda. E devono correre ad alcolizzarsi a stomaco pieno. Ci sono anche i polacchi, tutti, ad un tavolino poco distante da loro, a guardare la tv e spiare gli svedesi, perché vorrebbero essere come loro. Ogni tanto tirano su un braccio per chiedermi una birra, ma io li ignoro, stronzi, chiamate il collega, non vedete che lui ha il grembiule e io no?
Quel loro provarci mi contraria, tarpa lo scatto di autostima sopravvenuto poco fa in bagno. Quei polacchi mi infilano di forza nelle spoglie patetiche del mio corpo semimorto, maledetti. Comunque sia, siamo alle nove meno venti. Venticinque arrivi rimasti, anzi ventiquattro: finlandese del lunedì, puntuale e noioso, di quelli che restano fino al giovedì mattina. Anche lui, rapido ed efficiente, più imbarazzato di me. L’unica cosa che mi chiede, come gli altri del suo popolo, è il sauna club, che organizziamo ogni lunedì.
È già pronta?, mi fa.
Prontissima, mento spudoratamente.
Appena mi dà la nuca, scivolo indietro per accendere l’interruttore. Si lamenterà per il freddo, mi fingerò impegnato, o sorpreso. Quella è una faccia che so fare benissimo.
Ormai due ore alle undici. Ventitré arrivi rimasti. Troppo presto per cominciare la chiusura, troppa gente ancora in arrivo. Potrebbe accadere di tutto. Potrei avere una fila lunga ventitré persone qui davanti a me entro le undici meno un quarto. Potrebbe accadere, come no. Qui sappiamo tutti che il volo Stoccolma-Bruxelles atterra alle 20:47 e che i più solerti arriveranno a momenti. I più ricchi alla spicciolata, impettiti nei completi di alta sartoria e prenotazioni nelle nostre camere più costose.
Saranno loro i send-out, me lo sento. L’ansia si annuncia con il formicolio tra le costole, la giacca comincia a pesare, tirare sulla schiena, sotto le ascelle. I vestiti sembrano stringersi sempre più ai polmoni. Sto sudando, e non c’è alcuna ragione fisica che lo spieghi. Non c’è nessuno che urli. Ecco gli svedesi, sette, otto anzi. Una piccola comitiva, anzi no. I primi del volo da Stoccolma. Maledetti. Mi sbrigo a dargli quello che vogliono. Speriamo che nessuno chieda di cambiare camera. Non ho spazi di manovra.
Undici meno otto, quindici rimasti. Ore nove e trenta. Proteggetemi, numi di agosto. Dieci camere ancora disponibili, in cinque se la prenderanno nel culo.
Altri tre: due svedesi e un danese, vestiti benissimo, tutti di blu. Ridono per il mio accento, per la camicia scura di sudore. Io sorrido in risposta e deve essere agghiacciante, perché smettono subito di fare gli spiritosi. Passaporti, moduli, firme. E siamo a dodici, sette dentro e cinque fuori. Ore dieci. Fra un quarto d’ora comincio a preparare la notte. Stampo i moduli, rispondo alle mail. Il collega del bar comincia a chiamare le dernier verre, l’ultima comanda, poi il bar chiude. E mi lancia occhiate sfinite, di chi ha la metro alle 22:57 e non intende perderla.
Altra ansia. Conto la cassa. Non manca niente.
Dieci e venticinque. Stampo il modulo, lo firmo, faccio persino una ics dove dovrebbe firmare il mio collega.
Butto cartacce, inciampo, faccio cadere la mia acqua sul pavimento. Chiamo in causa il figlio del dio evocato poco prima. Perdono, perdonatemi tutti, santi poeti e marinai. Mi viene da piangere per l’ansia. Quasi non ci vedo più, per qualche secondo. Piango proprio, stavolta, asciugo l’acqua con le cartacce appena buttate, riprese dal cestino. Non asciugano un cazzo e sono disperato. Mi sento uno straccione, ho buttato via trentacinque anni, ho finito tardi l’università, parlo un francese mediocre e traduco di merda da una lingua di sfigati. Sono un brutto spettacolo da vedere, mi nascondo dietro lo scaffale.
Sento i rumori di qualcuno nella hall. Devo riprendermi, asciugarmi la faccia. La vista mi ritorna, tutta d’un botto. Nessuno suona il campanello, era solo un cliente che usciva. Butto via tutto, respiro forte per darmi un tono e finalmente lo vedo, Yannis, il collega della notte. Ha il viso itterico di chi non dorme mai, un principio di calvizie alle tempie, l’alitosi. Mangia molto aglio, mi dice, sua moglie sa cucinare solo così, o solo quello, non l’ho mai capito. Mi chiede cos’abbia, gli dico niente, sorridendo, ed è come se avesse visto il demonio.
Vado a cambiarmi, commenta contrariato. Io gli stampo i moduli per la notte.
Dieci e cinquantasette.
Il mio contratto mi autorizza ad andarmene, vedo sfilare oltre le porte l’81, l’autobus che avrei preso tra poco. Yannis prende posto al desk, porgo le consegne del giorno. Gli dico degli arrivi, firma il foglio di cassa, e inghiotte un boccone d’aria amara, che però non va giù come dovrebbe, riesco a sentire i fremiti delle budella che si rifiutano di assimilare la realtà, cornea, indigesta. Uno sguardo alla griglia, poi all’orologio, quello del monitor e il suo da polso.
Ho ancora tempo, annuncia, ma sembra chiedermelo, implorare una risposta. Yannis dice qualcosa nella sua lingua, mentre si abbassa a prendere la cartella dei send-out.
Io ho provato a chiamare il Radisson, ma non rispondevano, mento senza pudore.
Yannis neanche finge di ascoltarmi, le porte di vetro si sono aperte e una decina di uomini vestiti dello stesso impermeabile attraversa la hall a grandi passi. Puntano verso di noi, tirano tutti fuori il telefono, alcuni ce l’hanno già pronto sulla schermata della prenotazione. Riconosco il colore del banner. Senza nemmeno contare, so che sono tutti lì. Gli arrivi, i futuri send-out. Ma anche la luce in fondo al mio tunnel. Lo sa anche Yannis, che distribuisce a tutti i moduli, chiedendogli di riempirli ovunque sia necessario, firmando in basso a destra. Tempo necessario a respirare, formulare idee.
I clienti incespicano, sbuffano, protestano. Yannis non ascolta nessuno, ha occhi solo per il suo monitor, e la mano gli trema sul telefono. Parla rapidissimo, tre hotel gli dicono subito di no. Si volta verso di me.
Al Radisson non risponde nessuno, annuncia con un’occhiata atroce.
Alzo le spalle, te l’avevo detto, gli dico e corro a prendere l’81 che si è appena fermato. Affronto il meteo di agosto che incombe. Le undici e sette. Sette minuti regalati.
L’heure c’est l’heure, messieurs-dames.
A domani.
Foto di Francesco Sammarco