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Ultimo Viaggio

Autore
David Valentini
Ciclo #7 - Spaghettogonie
Narrativa
23 settembre 2021

E ora, mentre Cristo mi fissava dalla croce, lei giaceva fra le quattro pareti di mogano che la sua famiglia aveva scelto come ultima dimora.
Me ne stavo con le mani appoggiate sul legno gelido dell’ambone, davanti a me le poche righe che avevo scritto per lei. Qualcuno fra le prime file piangeva per una figlia, una cugina, una nipote; qualcun altro tossiva in attesa delle mie parole.
Alzai lo sguardo verso quegli idioti adoranti il più assente di tutti gli dei. L’avete messa dentro una bara, dissi, e ora la ficcherete sotto terra. Se Erica fosse qui vi sputerebbe in faccia uno a uno. Non meritate la sua pietà.
Con una manata mandai all’aria i fogli. Il microfono fischiava mentre davo le spalle all’altare. Passando fra le panche potevo sentire i mormorii di riprovazione ma quando mi voltai nessuno proferì parola.
Fuori, mi accesi una sigaretta e riempii i polmoni di catrame. Il sole alto in cielo mi chiedeva di continuare a vivere ma era a lei che avevo donato la mia anima.
Solo a lei potevo tornare.

Però, senza poter accedere a quell’aldilà tanto decantato, in che modo avrei potuto ricongiungermi a lei, che non era più in alcun luogo?
Solo nei sogni, a volte, il suo viso ricompariva.
Solo negli incubi, a volte, la sua voce veniva a tormentarmi.
E quando questo capitava, il risveglio era una pena interminabile.
Una notte, rientrai nel nostro studio dopo aver buttato la serata in un bar. Lungo il corridoio, i suoi dipinti mi osservavano nella penombra. Barcollai fino al divano, nauseato dal mio stesso odore. Fu lì, nel tormento di mille lance che mi trapassavano lo stomaco, che il suo volto mi si presentò, di nuovo vivido come un tempo. Si disse dispiaciuta per come mi ero ridotto. Le risposi che nessuna colpa aveva lei: il mio corpo semplicemente non reggeva più la sua assenza. Allora crea, disse lei. Torna a fare quello che sai fare meglio: dai a questo dolore una nuova vita.
Aprii gli occhi nell’oscurità mentre la sua immagine già svaniva nell’aria. Vagando alla cieca, trovai i miei pennelli. Fu così che, dopo mesi di vuoto, dipinsi le sue labbra per come mi erano apparse, i suoi capelli, le sue mani, riportai tutto sulle enormi tele che abitavano lo studio. L’arte non era stata più arte senza lei.
Per la prima volta dopo tempo immemore, provai di nuovo qualcosa. Furono tre giorni ricolmi di gioia, e amore, e di quella passione che brucia l’esistenza.
Fu l’inizio e la fine di ogni cosa.

Col passare delle settimane, il pensiero di lei si ammorbidì, mentre la notte i sogni si facevano più quieti. Riaprii il nostro studio, ripresi a lavorare alle vecchie commissioni in sospeso. Fu lì che mi trovò Cinzia. Era una delle clienti di Erica. Venne a prendersi un dipinto, la veduta di un paesaggio montano. Tornò per uno dei miei, un’orribile crosta senza valore. La terza volta la presi sul nostro letto. Consumai quel rapporto come si consuma il cibo dei fast food. Poi la mandai via, e rimasi solo con le nostre opere che mi osservavano dalle pareti.
Quella notte, Erica entrò dalla porta e si stese al mio fianco. Profumava di fiori e recava con sé un melograno, i cui semi si sparsero sulle lenzuola. Afferrai la sua testa e provai a baciarla ma i suoi occhi severi mi fermarono.
Perché mi guardi così? dissi.
Immobile, continuava a fissarmi.
Non ti ho abbandonata, urlai. È Il destino che ti ha sottratto a me! Dio si è preso gioco del nostro amore!
Mi gettai ai suoi piedi, glieli abbracciai. La supplicai di perdonarmi, perché le avevo promesso di salvarla e invece avevo fallito. A occhi chiusi, sentii le lacrime eruttare senza che potessi trattenerle.
Solo quando riaprii gli occhi realizzai di essere avvinghiato alla tela incompiuta che la ritraeva. La stessa davanti alla quale avevamo scopato io e Cinzia nel pomeriggio.

Caddero le foglie, marcirono i frutti. Venne la neve a stendere la sua coperta sulle città e sui monti. Poi i fiori si riaprirono al mondo. Fu una lunga insonnia per me, che vagavo per casa come un fantasma legato a quelle quattro mura. Ovunque campeggiava l’odore di muffa e della polvere accumulata.
Lei non era più tornata. Inutilmente l’avevo attesa. Le nostre tele erano rimaste bianche.
Un pomeriggio di metà maggio, quasi per caso, il mio sguardo cadde sul calendario. La pagina era rimasta al mese dell’ultima corsa in ospedale. Di lì a pochi giorni mi sarebbe spirata fra le braccia.
Un anno era passato.
Un anno, riflettei, e già il piede si arrampicava sulla traversa della finestra.
Un anno, dissi, e già mi lanciavo nel vuoto.
Di tutti i dolori provati atterrando sul tettuccio dell’auto, nessuno fu paragonabile a quello di essere ancora attaccato alla vita.
Ogni volta che riaprivo gli occhi, trovavo il gesso bianco che avvolgeva tutto il mio corpo come un sudario. Con la coda dell’occhio intravedevo una sacca riversare poche gocce nel tubicino collegato al braccio. Nessun altro era nella stanza, mai. Per vivere con lei avevo scelt di ripudiare ogni cosa, e questo era ciò che avevo ottenuto.
Quando dalle ossa e dalla carne fasci di fulmini tornavano a trafiggermi, qualcuno veniva a rifocillarmi di anestetico. Cadevo allora nel dormiveglia e finalmente la trovavo assisa alla finestra, coperta dalle tende. Lontana e tuttavia comunque nella stanza, la sentivo bisbigliare parole incomprensibili ma che sapevo essere d’amore.
Allontanandomi da tutto, alla fine mi ero riavvicinato a lei.

Una volta dimesso, la prima cosa che feci fu chiamare il ragazzo che mi procurava l’erba. Charon, dissi, voglio provare qualcosa di diverso: qualcosa che mi consenta di attraversare il fiume che mi separa dai morti. Voglio andare là dove ai vivi non è concesso.
Due giorni dopo si presentò con un sacchetto. Dentro c’erano una polvere gialla, una siringa e una boccetta blu. Mi spiegò la procedura. Fu così preciso che non potei fare a meno di domandarglielo. Sono in molti a chiederti di parlare con i morti?
Lui sghignazzò. Mi ci potrei comprare la barca, disse.
Mescolai un poco di polvere a mezzo cucchiaino di quel liquido dall’odore fruttato. Riscaldai la poltiglia con l’accendino e la aspirai nella siringa. Presi un respiro, ficcai l’ago nella vena e premetti a fondo. Il bruciore che mi penetrava sottopelle per poco non mi fece svenire.
Ma resistetti, perché se fossi svenuto avrei perso tutto: la casa incendiata, le voci echeggianti dalla strada, la luna come un sorriso latteo appeso nella volta oscura.
E soprattutto, avrei perso lei che, con un lungo abito nero, mi osservava là dove la sua tela riposava ancora in attesa di essere completata.
Ci amammo come solo si può amare quel che si è perduto.
Quando mi risvegliai, il mio corpo era assetato di lei. Sudavo freddo e tremavo, preda di una febbre delirante nella quale il suo volto si deformava in quello di un mostro a tre teste, ognuna delle quali aveva fauci demoniache e recava su di sé il colorito emaciato degli ultimi giorni.
Mentre, chino sul cesso, vomitavo tutto ciò che avevo provato a ingurgitare, mi ripromisi di non farlo mai più.
Ma la notte seguente la mancanza di lei vinse ogni proposito.
Col tempo tuttavia imparai a dominare il processo. La sera, a stomaco pieno, in pochi secondi preparavo il composto. L’ago entrava senza difficoltà e subito tutto diventava fiamme e splendore. Lei tornava e, persi fra i nostri umori, trascorreva la notte.
La mattina mi svegliavo col sole già alto e prendevo subito a dipingere. Completai quella prima opera, a cui ne seguì una seconda, poi una terza, infine un’intera serie dedicata a lei. Non solo lo studio ma tutto l’appartamento era pieno di Erica. I colori erano così vividi da trapassare le tele. Chiunque vi entrasse in contatto restava folgorato dalle sue espressioni. Oscar, dicevano i clienti, tutto questo è impossibile. Usavano questi termini assoluti – impossibile, bellissimo, fantastico – perché non esistevano altre parole al mondo capaci di descrivere la vita dentro quei quadri.
Mi implorarono di esporre quelle opere. Tale magnificenza, mi dissero, va condivisa.
Fu così che inaugurai la prima mostra. Nella galleria, Erica mi osservava da ogni parete.
All’ingresso, sotto la sua foto, spiccava il titolo della mostra: Inizio e fine di ogni cosa.

Passarono mesi, così tanti che non seppi contarli. Le mie giornate trascorrevano frenetiche, preda del rituale che ormai avevo fatto mio. Dissi a Charon che avevo bisogno di altra roba. Era già accaduto un paio di volte che la visione si indebolisse, perdesse di consistenza, quasi svanisse. Nel momento in cui i nostri corpi si fondevano nell’amplesso, improvvisamente venivo strappato via e mi ritrovavo a fare i conti con l’umiliazione di una masturbazione indesiderata. Mi procurò delle pastiglie provenienti dall’est Europa, che andavano assunte a stomaco vuoto per intensificare il processo.
La prima volta il viaggio durò due interi giorni, che dedicai solo a lei. Maestosa, Erica vestiva sempre di nero. Il suo volto eburneo aveva lineamenti sovrumani: i suoi occhi erano finestre sulla galassia più lontana, i capelli serpenti dalle mille teste. Eppure non avevo paura: l’orrore che mi si apriva dinnanzi era tutto ciò che bramavo. Lei, che in vita era stata bellissima, nella morte mi trascinava in luoghi sconosciuti, fra lande straziate e corpi dalle carni dilaniate.
Le opere che produssi sotto l’effetto della nuova sostanza furono le mie creazioni migliori. Di ritorno dal viaggio, restavo io stesso sorpreso di quanto avevo prodotto. Per ore contemplavo le tracce di lei che avevo lasciato in quadri che avevano trasceso il concetto stesso di umanità.
Mi patrocinarono una seconda mostra, i cui echi giunsero fin oltre i confini nazionali. Dopo una vita di delusioni, Erica e io stavamo vivendo il nostro sogno. Vedevo i visitatori osservare rapiti quelle creazioni, ma oltre all’estasi scorgevo anche dell’altro. Nei loro occhi, fissi sui dettagli di quei volti spettrali, veleggiava il terrore. Dall’antro lontano dal quale li osservavo, godevo delle loro paure. Quando Erica era con me, nel mondo dei vivi, avevamo desiderato solo questo: creare qualcosa in grado di scagliare ogni essere umano al centro esatto della disperazione.

Ma ancora una volta, le sostanze esaurirono il loro potere. Ancora una volta, pregai Charon di trovarmi un nuovo accesso.
Oscar, disse però. Ti ho dato la roba più forte che avevo. Non ho altro per te.
Continuai ancora un po’ con le solite sostanze, ma ogni volta la tela della surrealtà si indeboliva. Ormai riuscivo appena a intuire Erica, come fosse al di là di un velo che non potevo strappare.
Dovevo rivederla a tutti i costi.

Uno dei miei clienti più affezionati mi mise in contatto con una donna dalla pelle così bianca che nella notte pareva risplendere. Non mi rivelò mai il suo vero nome. Volle farsi chiamare Perpetua. Desideri incontrare qualcuno? mi chiese. Non seppi mentire. Le dissi che dovevo rivedere lei, che era la mia stessa essenza.

Non disse altro. Mi chiese una fortuna per tre dosi, affermando che dopo la prima niente sarebbe più stato lo stesso. Le strinsi la mano. Vendetti un paio delle tele migliori, le cui quotazioni erano salite oltre ogni prospettiva, e pochi giorno dopo mi ritrovai con una valigetta pregiata e decorata con velluto rosso. Dentro c’erano tre fialette. Non superare le dosi fu la sua unica raccomandazione.
Mi preparai come ci si prepara per i grandi eventi. Feci una doccia, rasai la barba, indossai gli abiti che avevo quando ci eravamo incontrati. Lisi, ma ancora in buono stato.
Mi concentrai, trascorrendo quasi un’ora in una sorta di meditazione. Nella trance, i fosfeni esplodevano in mille colori.
Fu il momento. Stesi la prima striscia sul tavolo in una riga perfetta. Guardai la seconda fialetta, poi disposi anche quella. Fissai per qualche secondo quei due binari bianchi.
Inspirai a fondo. Espirai. Lanciai un ultimo sguardo fuori dalla finestra. La luna galleggiava piena lassù.
Mi accostai al tavolo e tirai su la prima striscia. Nulla accadde per una buona mezz’ora. Fui colto dal terrore che il mio corpo, dopo tutti quegli anni, fosse ormai assuefatto. Senza indugiare oltre, andai con la seconda.
Mi ritrovai in un giardino pieno di statue spezzate, di angeli caduti attornianti l’ingresso di una grotta dalla bocca nera.
Erica era là dentro. Vestita di bianco anche lei, mi tendeva la mano. I suoi lineamenti erano splendenti come neanche in vita erano stati, la sua voce una sinfonia maestosa. Piansi davanti a lei come si può piangere solo al cospetto degli dèi.
Baciai le sue mani, baciai le sue labbra. Le dissi quanto l’amavo, ancora oggi dopo tutti questi anni. E lì, nell’istante più luminoso, mi inginocchiai e le proposi di sposarmi. Non era un’idea premeditata: in vita ci eravamo sempre detti che nessun vincolo avrebbe mai potuto legarci più della nostra arte. Eppure, in quel momento mi parve tutto ciò che contava.
Erica, amore mio, dissi. Vuoi sposarmi?
Rimasi ai suoi piedi, in attesa di una risposta.
Fu uno spostamento impercettibile, le sue labbra che si sollevavano verso l’alto per aprirsi in un sorriso che poteva significare solo una cosa. Prese fiato per pronunciare la parola che mi avrebbe donato la felicità eterna.
Poi uno degli angeli mi trafisse le tempie con la sua spada.

Quando mi sono svegliato, qualche giorno fa, ho riconosciuto lo stesso ospedale nel quale ero stato dopo il tentato suicidio.
La stanza puzzava di disinfettante. La tv attaccata alla parete pareva un corvo in lugubre attesa.
Il medico è entrato, ha letto il referto, ha bisbigliato qualche parola all’infermiera, poi si è rivolto a me. Signor Palmieri, ha detto, sa cosa le è capitato?
Ho mosso le labbra ma ne sono usciti solo gorgoglii insensati. Ingoiando il panico crescente, ho fatto no con la testa.
Ha avuto un ictus, ha proseguito lui. Le droghe che ha assunto l’hanno condotta in fin di vita. Poteva morire.
Poi ha elencato una serie di cose che avrei dovuto fare e molte altre che non avrei potuto più fare. Col tempo avrei riacquistato, forse, la capacità di parlare e di muovere quantomeno il braccio destro, ma per ora dovevo stare a riposo. È ancora giovane, ha concluso, e la fisioterapia fa miracoli.
Quando mi ha lasciato solo, ho tirato un sospiro. Ero esausto.
Ho chiuso gli occhi e ho pensato a lei. L’ho cercata fra i ricordi.
Dalla gola mi è uscito un mugugno strozzato. Ho preso ad agitarmi, preda di spasmi incontrollati. Urlavo, incapace di articolare alcunché di sensato. Gli aghi infilzati nella carne si sono staccati uno a uno e il macchinario alla mia destra ha cominciato a suonare.
L’infermiera è rientrata e ha gridato qualcosa. Altri sono accorsi. Mi hanno legato al letto.
Poco dopo mi sono calmato. Sentivo le lacrime colare lungo la guancia e bagnare le lenzuola pulite.
Fissavo il davanzale sul quale l’avevo intravista la volta precedente.
Fissavo la finestra mentre cercavo di ricordare i suoi lineamenti. Ma ovunque cercassi, la sua faccia era solo un guscio d’uovo senza occhi, senza naso, senza bocca.
La cercavo ma lei non c’era.

E oggi vago per il mio studio, dove la sua immagine è ovunque. Quello che mi guarda da ogni parete è un volto alieno. So che è appartenuto a qualcuno che ho amato ma non riesco a ricordare nulla del tempo che abbiamo trascorso insieme.
Sopra uno dei quadri è appesa una targa. C’è scritto Inizio e fine di ogni cosa.
Non ho idea di cosa significhi.

Illustrazione di Viola Falasconi

When I lost you honey sometimes I think I lost my guts too
And I wish God would send me a word
Send me something I’m afraid to lose
Lying in the heat of the night like prisoners all our lives
I get shivers down my spine and all I want to do is hold you tight

Baby, I swear I’ll drive all night again, just to buy you some shoes
And to taste your tender charms
And I just want to sleep tonight again in your arms

Tonight there’s fallen angels and they’re waiting for us down in the street
Tonight there’s calling strangers
Hear them crying in defeat
Let them go, let them go, let them go
Do their dances of the dead, let’em go right ahead, girl
You just dry your eyes, and c’mon
Let’s go to bed