Città desolata
Anche questa mattina la città è ricoperta da una glassa umida di nebbia. Sono settimane che non piove e sono mesi che non si vede il sole, ma Ada, prima di scostare le tendine della finestra che si affaccia sulla strada, ancora ci spera: vorrebbe essere investita dalla luce sfavillante. Le scosta con la mano secca: sopra, il cielo è ancora grigio; sotto, c’è il grigiore ancora più scuro della processione di automobili in coda, come ogni mattina.
Gigio ha già iniziato a fare avanti e indietro dalla cucina alla porta d’ingresso, trotterellando sulle zampe sottili. Anche se Ada è ancora in vestaglia, forse ha intuito, da qualche dettaglio impercettibile, che presto usciranno; o forse gli scappa la pipì e teme di non riuscire a resistere per molto. Lei, però, beve il latte lentamente. Non ha fretta. Sulla credenza, un orologio che già da bambina vedeva ticchettare a casa di sua nonna e che ancora conserva tracce di quell’antico decoro, porta avanti la lancetta dei minuti con una pigra e placida indolenza. Anche lui pare non avere più fretta. Ada sparecchia, pulisce il tavolo, raccoglie le briciole per terra, dà una polpetta a Gigio e poi si prepara. Nello specchio del bagno riconosce il volto che aveva sua madre poco prima di morire.
Fuori, Gigio procede con il muso basso: ha la cataratta e ci vede poco, ma il naso, che gli funziona ancora, riconosce nell’aria umida segnali e comunicazioni a distanza. Il mondo è pieno di rivali, pensa nel suo linguaggio canino. Si avvicina alla ruota di una macchina e riconosce, quasi con sgomento, la traccia di un cane con il quale aveva litigato tanto tempo prima e che pensava ormai morto. Piscia sullo pneumatico, un goccio (rateizza le pisciate lungo tutto la strada) per ribadire che in quella zona è lui che comanda. Quando alza il naso, si stupisce per il tanfo mortifero della città: vorrebbe studiare meglio quell’odore, ma viene strattonato da Ada e così riprende a trotterellare al suo fianco, dimenticando subito il cane che pensava ormai morto e l’odore che grava su ogni cosa.
Dopo aver girato un angolo, gli pare di intravedere in lontananza un cane al guinzaglio che punta verso di lui. Sono passati così pochi secoli da quando erano dei lupi che i cani non hanno ancora preso coscienza delle loro nuove dimensioni; è per questo che quando Gigio valuta le sue possibilità di successo in una zuffa con il cugino non sa di essere poco più grande di un gatto, e che quello è un pastore tedesco. Per lui, infatti, tutti i cani sono uguali. Gli mostra i denti, oscilla sulle zampe e ringhia con una voce da castrato (non è vero, ma l’età gli ha alzato i latrati di un’ottava); pure il pastore tedesco, mentre abbaia con furia, gli mostra i denti, denti bianchi, giovani e aguzzi: sono gli stessi denti di alcuni suoi parenti che lavorano in campagna e che sono il terrore delle povere pecore. Entrambi tirano a tutta forza i guinzagli, fino a mettersi in piedi e si dicono parole inventate in mezzo ai boschi, quando cacciavano per mangiare; sono insulti silvestri, tramandati di generazione in generazione; ma i due cani, nati in mezzo all’asfalto, li capiscono a malapena, come fossero il ricordo di un ricordo che non ricordano più. Una cornacchia, appollaiata sopra un ramo secco, osserva divertita quella specie di rissa; ma non succede nulla, non succede mai nulla, e forse è anche per questo che Gigio si permette di abbaiare in quel modo. Quando finalmente il pastore tedesco se ne va, Ada rimprovera amabilmente il botolo che gli fa compagnia da tanti anni: gli dice di fare il bravo ma tutto sommato è orgogliosa di vederlo ancora coraggioso. Da giovane era tutto nero, con una zampetta bianca e minacciava di mordere tutti quelli che rappresentavano una minaccia per la vita della sua padrona: lo capiva con un istinto canino tutto suo. Con il tempo il pelo è diventato di un grigio uniforme, come il cielo ora che ricopre la città, e ha messo su qualche chilo, la schiena è diventata rigida: non si piega più, sembra un piccolo tronco, un salame rinsecchito dal tempo, e non morde più nessuno. Sa che Gigio è più vecchio perfino di lei; sa che, nella corsa verso la fine in cui tutti sono impegnati, lui ormai vede il traguardo vicino. Talvolta le capita di pensare al giorno in cui lo troverà morto ai piedi del letto, e teme che le sarà impossibile reggere anche a quel dolore.
Ma questa mattina Ada non ci pensa, non ancora. Ha preso appuntamento in banca.
Lungo il marciapiede incrocia ragazzi che escono dai bar con lo zaino sulle spalle, mamme al telefono che spingono bambini nelle carrozzine, altri vecchi, altri cani più mansueti, arresi: alla base dei muri dei palazzi ci sono gli innumerevoli ghirigori delle loro innumerevoli pisciate e quei discorsi di sesso e potere si mescolano tra di loro in un frastuono che, per Gigio, è quasi insostenibile.
La guardia armata all’entrata della banca le dice che non può entrare con il cane: glielo dice tutte le volte, e tutte le volte cede, forse perché le ricorda sua madre. Ha un appuntamento con il dottor Mariotti, spiega a una donna che la accoglie. La fanno accomodare in una sala d’attesa e dentro ci sono due uomini anziani con uno sguardo ruminante. Gigio si acquatta sotto i piedi della sua padrona e annusa attorno: non ci sono odori di alcun tipo e forse è per questo che sa che non può pisciare. Da una piccola finestra entrano i rumori della strada, un po’ di luce, il tubare di colombi invisibili; attraverso la porta a vetri che li separa dall’area degli sportelli, si intravede un viavai di persone indaffarate: sono tutte severe e parlano sottovoce come se fossero in chiesa. L’arredamento informale, i divanetti e le piante finte, i quadri astratti alle pareti e le ciotole delle caramelle sui tavolini, vorrebbero suggerire l’idea che là dentro andrà tutto bene. Non ci sono orologi, nella stanza, e così il tempo scorre pigro senza lasciare tracce. Ada è stanca e pensa che è un peccato perdere in quel modo un’intera mattina, tra le poche che ancora immagina di avere davanti. Chiamano il primo dei suoi compagni di stanza, che si alza goffo e segue l’impiegata. Poco dopo arriva il turno dell’altro. Gigio si assopisce e, sospirando, sogna pecore che non ha mai visto. Alla fine, tocca a lei.
Mentre li accompagna verso l’ufficio del dottor Mariotti, l’impiegata prova ad accarezzare il muso di Gigio, ma a casa ha solo una gatta e non sa come si fa: Gigio, che peraltro ha riconosciuto l’odore di quell’antico rivale, le ringhia perché è contrario a certe confidenze. L’ufficio del direttore della filiale ha la stessa mancanza di personalità di tutto il resto; fa eccezione una foto incorniciata sul tavolo nella quale la moglie, con un viso vagamente equino, e due figlie piccole con i medesimi tratti, sorridono infelici nello stesso identico modo. Il direttore ha un’eleganza stropicciata, a buon mercato, da OVS, e un naso lungo e aguzzo di cui si è sempre segretamente vergognato; la fa accomodare su una poltroncina pelosa e la tratta come se, almeno per quel giorno, fosse la cliente più importante della banca. È un uomo prudente e accorto: anche se nessuno lo sa, nel secondo cassetto della scrivania tiene nascosta una pistola perché, pensa, la città è cattiva ed è sempre pronta ad azzannare. Ha già in mente di offrirle un’assicurazione contro i danni degli incendi condominiali: è tra i più bravi nell’evocare i peggiori disastri nell’animo sensibile dei suoi clienti.
Ada, invece, è venuta per parlargli di un suo problema: è stata sfrattata, gli spiega, e ora deve cercare un nuovo appartamento. Ne ha trovato uno piccolo, carino, con l’ascensore, e l’affitto è alla sua portata (ormai è abituata a vivere con poco, ma questo non lo dice); però bisogna versare una caparra e lei non ce l’ha; anche per il trasloco, aggiunge, servirà qualcosa. Ha bisogno di un – il direttore la interrompe, cambia espressione, non riesce a nascondere l’imbarazzo: ne vede passare ogni giorno, di casi come quello, e sa già come andrà a finire. Le chiede la cifra di cui ha bisogno solo per fingere di avere preso in carico la richiesta, e poi cerca qualcosa nello schermo del computer, mentre tenta di riesumare il ricordo di un corso che aveva fatto due o tre anni prima dove gli avevano spiegato i modi migliori per dire di no a richieste come quelle. Con un dito secco e curiosamente peloso indica un punto a caso del monitor, aggrotta le sopracciglia molto curate e abbassa dispiaciuto le spalle.
«Purtroppo non ci sono le condizioni per un prestito».
Poiché Ada non risponde, aggiunge: «C’è scritto qui».
Il suo dito, che Ada non vede, è appoggiato sulla faccia della Meloni che sorride arcigna dal sito di un giornale. Ada spiega all’uomo, che ha meno della metà dei suoi anni, che suo marito è stato un cliente della banca per tutta la vita e che ha sempre onorato tutti gli impegni presi.
«Suo marito può fare da garante?».
Glielo chiede perché non ricorda che è morto; e quando Ada glielo dice, le fa le più sentite condoglianze, perché, nonostante sia riuscito a recuperare una vaga immagine di quell’uomo, non ricorda che è morto da dodici anni.
Ada insiste un po’, lui la ascolta con una pazienza sempre più flebile.
«Capisco bene la sua situazione» le dice alla fine con una voce quasi caritatevole, un trucco che ha imparato col tempo, «ma non si può fare proprio nulla».
Spegne il monitor, come una volta avrebbe chiuso un faldone pieno di pratiche, e le spiega che le banche obbediscono a regole rigidissime che non dipendono da lui; riesce a fermarsi un attimo prima di dire che là dentro non si fa beneficenza.
Ada gli chiede cosa farebbe se la banca fosse sua, ma lui scaccia quel pensiero con una mano, come se fosse una mosca pronta ad appoggiarsi sul suo naso aguzzo: non sta a lui giudicare l’azienda che gli paga lo stipendio. Sta solo facendo il suo lavoro. Poi le passa un fazzoletto di carta affinché lei possa asciugarsi le lacrime, e le offre una delle caramelle aziendali che tiene in una ciotola sopra il tavolo. Ada sa che senza quei soldi finirà per strada, ma non glielo dice per il senso di decoro che condivide con l’orologio di sua nonna sulla credenza. Si alza dalla poltroncina pelosa e quando stringe la mano al dottor Mariotti si stupisce che sia calda e viva come la sua; d’altronde, sono passati solo pochi secoli da quando erano tutti esseri umani. Gigio, dopo essersi scrollato di dosso il torpore nel quale è sprofondato, la segue con la fiducia incondizionata di sempre: condivide con lei un unico destino e questo è un dono per il quale non saprebbe chi ringraziare. Poi, pur riconoscendo di non essere molto intelligente, ritiene di aver capito cosa sta succedendo; così, prima di uscire, tenta di mordere la gamba della donna che li aveva accolti poco prima: è questione di vita o di morte. Lei lancia un urlo, insulta Ada e il suo stupido cane e dice che chiamerà la polizia. Il direttore, che ha sentito le grida dal suo ufficio ma non ha visto la scena, apre il secondo cassetto e mette la pistola sul tavolo. Gli è già capitato di doverla usare, una volta, e per questo ha ricevuto una medaglia dalla banca per il coraggio dimostrato. Se potesse, anche Ada morderebbe la donna puntando alla sua gola, ma non ce la fa più. Tira il guinzaglio senza convinzione e il cane capisce che è ora di andare; si accontenta di fare una pisciatina sul tappeto in entrata ed esce con la sua padrona.
Quando Ada è fuori, il direttore mette via la pistola, si alza e spalanca la finestra perché non sopporta l’odore dei cani. Poco dopo vede la donna che cammina lungo il marciapiede, con il suo botolo che la segue a un metro di distanza e finge di non sapere che quando tornerà a casa lei aprirà il gas per risolvere, una volta per tutte, il suo problema. In un mondo migliore, che non vuole nemmeno immaginare, uno come lui dovrebbe scendere giù per regalarle i pochi soldi di cui ha bisogno, e salvarla; ma nella città in cui vive bisogna essere duri per riuscire a sopravvivere, e lui lo ha imparato da tempo. Sposta lo sguardo sulla foto appoggiata sul tavolo, verso la sua famiglia di piccole cavalle, e si dice che ha fatto bene, che non aveva scelta; riesce persino a pensare di essere un buon uomo, perché sa che tanto nessuno può ascoltare i suoi pensieri. Chiude la finestra.
Lungo la strada là sotto, e lungo tutte le strade di quella metropoli, e in tutte le metropoli che ricoprono il mondo, gli automobilisti, incattiviti per la condanna della coda perenne, continuano a urlarsi dietro gli insulti bucolici inventati dai loro nonni in campagna: suonano il clacson, si lanciano minacce di morte e mostrano i pugni. Nessuno vede Ada che cammina con il suo cane verso la fine: tra poco anche l’orologio della nonna smetterà di ticchettare. Il cielo, intanto, è diventato bianco e incombe ancora su tutto. Un automobilista scende dalla macchina e inizia a battere i pugni sul finestrino dell’auto davanti alla sua; ne scende un altro con il cric in mano. La cornacchia appollaiata sul ramo secco osserva annoiata quel principio di rissa, ma non succede nulla, non succede mai nulla; e forse è per questo che gli uomini che vivono nelle città desolate si concedono il lusso di odiarsi in quel modo.
A illustrare: “Automat (Tavola calda)” di Edward Hopper, 1927.