Breve antologia dei crimini del caldo
“Ti prego, caro Mercuzio, con questo caldo
è meglio andare a casa; poi i Capuleti sono fuori
e se dovessimo incontrarli, non potremmo evitare
una lite; in queste giornate torride,
il sangue s’infuria e ribolle”.
William Shakespeare, Romeo e Giulietta
Furto d’omicidio
Questi schermi moderni sono complicati: se c’è del nero, i pixel non è che si accendano di una luce nera, restano spenti, di uno scuro talmente buio che accerchiato dal resto dei colori sembra quasi sprofondare lontano dagli occhi di chi guarda. Le telecamere di una pensione da quattro soldi edificata in una zona industriale, su quella che una volta era una palude, sono invece delle carcasse ronzanti che lavorano in scala di grigi, anche che se con il filtro notturno di produzione taiwanese che montano, si tratta più di un bluastro e di un nero accecanti.
Augusto, il proprietario, lo sapeva benissimo che nelle stanze non si possono mettere le telecamere di sorveglianza, ma erano vent’anni che lo faceva: quegli strani polacchi che compravano i video li vendevano all’estero, in chissà quale ex repubblica sovietica dove ricchi pervertiti andavano a fare le vacanze, e nessuno l’aveva mai beccato.
Quell’estate però era caldo e lui avrebbe dovuto sapere che con quel caldo tutto diventa pericoloso. Eppure quando arrivò quell’uomo trasandato con un borsone e una declaratoria di fine pena in mano e chiese della cliente della 24, Augusto non staccò nemmeno gli occhi dalle quote dell’ippodromo e gli indicò la direzione della stanza senza pensarci due volte.
Si chiamava Giulietta, la tipa della 24. Bella fica, da un paio di mesi veniva sempre con un peruviano, o messicano o quello che è, e Augusto pensò che quel giorno la troia doveva aver deciso di portarsene un altro, di amico, per divertirsi un po’ di più. Fu questo pensiero che lo spinse a staccare le pupille umide dalla sua sfortuna al gioco e a spostare lo sguardo verso lo schermo di sorveglianza dandosi una grattatina sotto la cintura.
Purtroppo per lui, in quella telecamera che inquadrava un letto spoglio e bluastro, Augusto vide solo una macchia nera che precipitava lontano in quel suo televisore nuovo di zecca. Il peruviano se la diede a gambe, ma quando passò di fronte a lui non lo notò neanche, distratto dal vomito che gli ribolliva nello stomaco e dalle mani che tremavano gettandosi verso la cornetta del telefono. Non avrebbe dovuto chiamare la polizia, avrebbero scoperto quello che faceva e i polacchi si sarebbero incazzati, ma aveva troppo caldo e troppa paura, e non riusciva a pensare. Era come ipnotizzato dalla pancia di Giulietta e dalla pece che ne usciva a ogni coltellata. Non credeva che ci fosse tanto sangue dentro una donna, tanto nero, tanto sprofondare che si allontanava dalle sue iridi risucchiandogli via le pupille. Quel nero così nero da non esserci faceva del letto una strana macchia di Rorschach con su stesa una donna bucata, sgonfia; morta con addosso un sorriso sguaiato, come se volesse dire: “Ahia, fa male morire così. Fa così male che vorrei averlo fatto io.”
Resistenza a privato commesso
Romoletto aveva taccheggiato nell’emporio cinese un po’ troppe volte per non essere beccato, ma gli servivano i biglietti d’auguri, la penna e i palloncini. Era il compleanno della sua ex ed era sicuro di poterla riconquistare, doveva solo riuscire a fare il carino per una sera. Così per l’ennesima volta si diresse nella corsia dedicata alla cartoleria e fece il minimo indispensabile per non farsi beccare, cercando di scrollarsi di dosso gli sguardi che la padrona, una cinquantenne tarchiata dalla pelle lucida e malaticcia, gli aveva lanciato di sottecchi dalla cassa fin dal momento in cui era entrato. Quando ebbe fatto, andò a passo spedito verso l’uscita, senza nemmeno cercare di comprare qualcosa come copertura; aveva sempre fatto così, ma stavolta la padrona gli si avvicinò prima che riuscisse a uscire da quel negozio stracolmo e fatiscente e prese a parlare in modo stentato, dicendo cose come “Tu fa vedere cos’hai!”, “Tu non mi prende in giro!”. Accuse inutili a cui Romoletto rispose soltanto con dei ripetuti vaffanculo, dirigendosi verso la porta. C’era già passato altre volte: con quelli bisognava essere duri, non mettersi a discutere e telare alla svelta, tanto la polizia non la chiamavano, perché non avevano nessuna cazzo di licenza per metà di quello che ammassavano negozio.
Quell’estate però faceva caldo, un caldo bestiale, e la padrona non mollava. Vedendo Romolo uscire si avvinghiò al suo braccio e fece per tirarlo dentro, ma lui era alto il doppio di lei, era forte, e non fece altro che spintonarla via, facendola cadere a terra. Quella però non si arrese, continuava a urlare “Ladro! Ladro! Italiano ladro!” e si attaccò come la cozza che era alla gamba di Romoletto, impedendogli di avanzare, mentre le casalinghe che uscivano dal vicino supermercato osservavano corrucciate.
Avrebbe potuto semplicemente divincolarsi, avrebbe potuto scrollarsela di dosso mollando la refurtiva, ma quell’estate faceva un caldo tremendo e Romolo era stanco e incazzato, perciò urlò “Ancora che continui?!” e calò sul volto della cinese una serie di pugni violentemente diretti alle sue tempie per stordirla. Non era certo un pugile, perciò fallì, sbagliò mira e le ruppe il naso, ma funzionò lo stesso e a quel punto le braccia della poveraccia corsero al volto per coprire la ferita, solo che non ci arrivarono mai. Prima che le sue dita potessero raggiungere le narici sanguinanti, Romoletto le piantò in bocca un piede in infradito Havaianas contraffatte e il rosso tinse tutto il marciapiede, mentre lui se ne andava bestemmiando e scrollandosi dalle dita il sangue caldo di una cinese troppo volenterosa.
Abuso di musicista classico
Succedeva anche d’inverno, ma di rado, e non era così assurdo, almeno. Si, perché non era tanto il dolore che dava fastidio a Giulietta, ormai ci era abituata, era la bizzarria della cosa che la faceva andare su tutte le furie. Ormai aveva dodici anni e si rendeva conto benissimo che a casa sua le cose non erano normali, si vergognava, ma era ancora troppo piccola per farci qualcosa.
Con il caldo, sua madre si arrabbiava sempre e nemmeno cercava più scuse per picchiarla, lo faceva e basta. Era quasi una sorta di rito: cominciava con uno schiaffo che l’atterriva, come se invece che sulla guancia glielo avesse dato sul cuore, e le toglieva ogni forza; non riusciva a fare altro che rannicchiarsi al centro della stanza, e poi arrivava la musica. A era volte Mahler, a volte Mozart, o Smetana, tutti quei compositori che la mamma amava tanto; all’inizio credeva che servisse a coprire le sue grida, ma poi si era accorta di non emettere alcun suono mentre sua madre la picchiava e allora aveva capito di essere solo uno strumento musicale, suonata come le percussioni in un’orchestra. Era ridicolo: con quei suoi seni piccoli e il suo pube troppo peloso, la mamma si denudava tirandole addosso i vestiti e quasi le ballava attorno, seguiva un ritmo e percuoteva a turno con ogni arto, mordeva e strappava e poi, quando la musica terminava, rimetteva i vestiti alla svelta e usciva tranquilla, sbattendo la porta di casa. E Giulietta restava a terra piangendo piano e digrignando i denti nel tentativo di smettere, dando vita a un suono sommesso fatto di gemiti e guaiti che sembrava quasi una melodia.
Truffa alimentare e associazione di minori
Ermanno non aveva più un soldo, era uscito da un mese e anche se era estate un vecchio come lui nessuno voleva prenderselo come spiaggino, perciò cercava di risparmiare come poteva. Quando aveva scoperto che al McDonald’s sotto i portici della stazione, se riportavi lo scontrino di un menù fisso ti regalavano uno di quegli orrendi panini da un euro, si era piazzato sui tavolini all’aperto del locale e ogni volta che qualche coppietta distratta se ne andava lasciando tutto in disordine si alzava, prendeva gli scontrini, buttava la sigaretta ed entrava a chiedere in cambio ciò che gli spettava.
Era metodico e aveva la faccia come il culo: cosa gliene fregava di quello che pensavano quei fuorisede al verde come lui che se ne stavano lì vestiti come idioti dietro una cassa? Poteva trattarli come voleva e pretendeva impunemente di abusare di un sistema che se era fatto male non era certo colpa sua.
I primi piccoli problemi arrivarono quando quel brufoloso bastardo del manager del McDonald’s si presentò al suo solito tavolino attorniato dal resto dei dipendenti, che nascosti dietro di lui sembravano piccioni in divisa, tutti impauriti e titubanti. Gli disse che non poteva stare lì tutto il tempo. Era solo quello il suo cavillo, il tempo eccessivo che passava seduto al tavolo, che a quanto pareva apparteneva agli altri clienti che volevano accomodarsi. Ermanno rispose con una risata delusa e si spostò a fumare sulla panchina dall’altro lato della strada; sapeva che era un inconveniente da niente, sapeva che ci avrebbe messo poco a risolverlo e l’idea per farlo gli venne in mente neanche due giorni dopo, semplicemente osservando il McDonald’s da quella panchina.
C’era una categoria di avventori distratti estremamente numerosa, quella che gli forniva più scontrini di tutti: le comitive di pischelli adolescenti. Cosa succederebbe, si disse Ermanno, se io rendessi questi idioti consapevoli della truffa? Succederebbe, concluse, che avrebbero un enorme potere e che non saprebbero come usarlo e che io, se li organizzo, ci prendo una notevole stecca di panini gratis.
Allora si guardò attorno in cerca del volto giusto e quando vide un ragazzino che gli piaceva, uno che aveva la faccia di un gonzo che ha voglia di strafare ma non di pensare, gli fece un fischio.
“Come te chiami regazzi’?” gli chiese.
“So’ Romolo, e mo’ te che voi?” rispose quello, e all’improvviso Ermanno si ritrovò ad avere un apprendista.
Rapina a spillo armato
Giulietta assisteva e basta. Non gliene fregava proprio niente di maltrattare le sue coetanee, ma c’era qualcosa che la deliziava nel guardare il dolore, nel vedere qualcuno sprofondare. Per questo, quella mattina, seguì Martina nel bagno e se ne stette a guardare mentre se la prendeva con l’ennesima ragazzina. A Giulietta non veniva nemmeno in mente il nome di quella poveraccia, né si ricordava minimamente perché Martina la odiasse tanto e nessuno la fermasse, qualcosa di fidanzati sicuramente.
A ogni modo, quello spettacolo le piaceva particolarmente, perché Martina era una seviziatrice molto attenta e precisa, inventava storie, amori, amicizie, e faceva promettere sempre qualcosa alle sue vittime. Le gettava nel senso di colpa: se subivano era perché non sapevano mantenere la parola, era una punizione la sua, non un abuso. Ma quello che piaceva di più a Giulietta era il suo metodo, la sua creatività: Martina amava molto il detto “se la promessa infrangerai, mille spilli ingoierai” e teneva nella borsetta un puntaspilli che aveva fregato a sua nonna sarta, su cui aveva infilato una serie di aghi piccoli e appuntiti.
Ora, nel bagno, mentre la poveretta senza nome se ne stava a bocca spalancata seduta sulla tazza del cesso, con Martina che le teneva ferme la lingua e la mascella, costringendola a emettere una serie di suoni tremolanti che a Giulietta parevano tanto gli stessi che fa un maiale, osservò la carnefice che sgridava la sua vittima e le pungolava il palato con gli spilli.
Giulietta si sentiva fremere dentro.
Forse era il caldo di quegli ultimi giorni di scuola, ma c’era qualcosa di tremendamente erotico in quella scena e mentre ansimava forte alla vista dello spillo che penetrava la gola della scrofa, quello che colò dalle cosce di Giulietta non fu solo sudore.
Circonvenzione di Supermercato
Finalmente Romoletto stava facendo qualche soldo e si era ripreso la sua donna, si diceva che ormai era un uomo. Non aveva bisogno di Ermanno, fanculo quelle stronzate del gioco delle tre carte e delle magliette contraffatte, adesso lui spacciava il fumo e la grana arrivava, andava tutto bene.
Però aveva caldo, un gran caldo, e un sacco di tempo da buttare. Così decise di tornare un po’ alle origini, di fare il ragazzino come una volta, e per combattere la calura si infilò nel supermercato vicino al capolinea degli autobus.
Una volta dentro, si avvicinò al banco salumi e chiese al commesso di fargli un panino; esagerò, ci si fece mettere sia il salame che il prosciutto e persino qualche carciofino, poi prese una birra dallo scaffale, la mise in fresco nel frigorifero dei surgelati e si fece con calma un giretto; nascose un pacchetto di patatine di mais nello zaino, riprese la birra e poi fece la sua mossa.
Il bagno, aveva assolutamente bisogno del bagno e non poteva aspettare! – lo pregava quell’addetto alla sicurezza – se non lo faceva andare al bagno si sarebbe sentito male!
E fin qui tutto bene. Proprio come faceva da piccolo, Romolo si rintanò in quel gabinetto scuro e fresco e mangiò tranquillamente, lasciò la bottiglia e la carta delle patatine vicino al cesso, fumò una sigaretta e infine se ne tornò al fresco delle corsie senza niente da pagare, facendo per andarsene.
Poi però gli balenò in mente che la sua nuova attività di Tony Montana del quartiere richiedeva che lui lo pesasse il fumo che vendeva, e che dai cinesi a comprare un bilancino non ci poteva più andare, visto che quella vecchia stronza della padrona le aveva prese da lui. Così gli venne un’idea: quel supermercato era suo, lì comandava lui e perciò poteva usare anche la bilancia della frutta per pesare la merce, nessuno gli avrebbe rotto i coglioni.
Sbagliava, e si ritrovò in una volante nel giro di mezz’ora. Ma andava tutto bene, pensava. Non aveva mai sbagliato prima ed era incensurato, sarebbe uscito subito e poi avrebbe ricominciato. Forse qualcuno avrebbe riso di lui, forse Ermanno gli avrebbe detto di andare affanculo, ma andava bene. Fuori c’era Giulietta che l’aspettava, l’aveva riconquistata ormai, era sua. Lo aspettava sotto la stessa calda luna che ora osservava dalle sbarre della guardiola, e una volta uscito sarebbe tornato da lei.
Abbandono di Carnefice
Il caldo torrido peggiorava il cattivo odore della vecchia, che infossata nella sua sedia a rotelle colma di piscio e merda gemeva piano. “Ti prego” mormorava, ma in risposta riceveva solo sommessi singhiozzi ilari. Era ferma su quella sedia da un mese e ormai non sarebbe stata capace nemmeno di buttarsi a terra e strisciare via, non poteva fare più niente. Nessuno si sarebbe accorto di lei, nessuno avrebbe avvertito l’assistenza sociale; non poteva nemmeno gridare, perché la sua gola era secca e arida ormai, nemmeno piangere, perché i suoi occhi avevano esaurito ogni umore. Tutto ciò che poteva fare era restarsene seduta lì, dolorante e sporca, e mentre il caldo penetrava nelle sue ferite avvelenandola, fissava gli occhi di quella ragazza seduta scompostamente di fronte a lei.
Giulietta guardava sua madre con un sorriso eccitato. Nonostante il caldo, l’aveva osservata per quasi quarantotto ore, si era persino dimenticata di mangiare e di dormire. Le piaceva quella sensazione, le piaceva tanto. Ma ormai il momento era arrivato, voleva chiudere.
Alzò i tacchi a spillo e si diresse verso la sedia a rotelle, si piegò su di essa e stampò nelle pupille della vecchia un ultimo sguaiato sorriso, poi calpestò le cassette di Mahler, Mozart e Smetana sparse sul pavimento e infine se ne uscì tranquilla, sbattendo la porta di casa.
Dentro, la vecchia continuava a mormorare. “Ti prego – sussurrava a nessuno – uccidimi, ti prego!”.
A illustrare il racconto, il dipinto su legno di Zhiyong Jing “Deep Conjecture”, 2020.