La Vendetta
Quando in città si cominciò a parlare della Vendetta, io e Manuel ci eravamo appena trasferiti nel quartiere dove il bandito fu avvistato per la prima volta. Nessuno fece caso alla coincidenza. Eravamo solo una delle tante giovani coppie che lavoravano, e a cui serviva una casa, a patto che non costasse troppo. Finimmo per sistemarci in un bilocale all’ultimo piano della Torre Stellata, la più alta del gruppo di grattacieli del quartiere. A Manuel piaceva, era sempre vissuto in città. Ma per me, ragazzone di campagna, guardare alla finestra e vedere solo grattacieli e strade coperte di macchine come tralci di vite dagli afidi, pareva deprimente. Ma come ho detto, costava poco ed era in un’ottima posizione.
Ovviamente c’era il trucco. Costava poco perché metà era vuota dopo l’ultimo rastrellamento, e l’altra metà cadeva quasi tutta a pezzi per l’incuria e perché la gente, dopo anni di guerra, non aveva più una lira. Io e Manuel acchiappammo uno dei pochi bilocali ancora sani, bastò dargli una pulita e bruciare il materasso del letto, mezzo mangiato dagli acari. Poco male, avevamo il nostro. La prima cosa che abbiamo comprato insieme: è sempre stato in tutte le nostre case. Appena sistemati, venne a bussare un rappresentante dell’ottantacinquesimo piano e ci spiegò che, per via dei costi di frutta e verdura, una ventina di famiglie aveva messo su un orto sul tetto, e se volevamo per caso contribuire. Io, ragazzone di campagna, non toccavo terra coi piedi. Manuel si limitò a dire che non mi azzardassi a entrare in casa con gli scarponi.
Non ci furono problemi con il lavoro. Manuel lavorava all’ufficio bellico centrale, che ancora pagava i salari non decurtati, ma lui dell’orto non si sarebbe occupato; io invece, che tenevo la contabilità di diverse aziende e lavoravo da casa, avevo tutto il tempo per salire sul tetto della Torre Stellata. I pomodori erano moribondi quando arrivai, ma riuscii a rianimarli e quell’estate crebbero più in alto della mia testa. Ficcando la faccia nell’intrico del fogliame, stordito dall’odore dei peli delle foglie, potevo far finta per una manciata di preziosi minuti di non essere lì, nel cuore di ferro di una megalopoli che si era mangiata tutto, ma già nel futuro, il futuro di pace che ci avrebbe regalato la Vendetta.
All’inizio si finse che la Vendetta non esistesse. I telegiornali la ignoravano. Ma a forza di spettegolare con i vicini di casa che curavano l’orto assieme a me, mi resi conto che ai livelli bassi della catena alimentare se ne parlava eccome. Dopo sei mesi di attività, non si parlava praticamente di nient’altro. I più dicevano che somigliava a una cometa; altri ad una scintilla; altri ancora, più attenti, avevano riconosciuto una forma umana all’interno del suo alvo di luce. Dove passava lasciava un segno inconfondibile: la distruzione. Navi affondate, aeroporti distrutti, edifici crollati, muri sfondati, caserme depredate. Come e perché riuscisse ad evitare morti e feriti gravi, era cosa che nessuno capiva: da quando in qua un terrorista si preoccupa del costo umano delle sue azioni? Perché questo è un terrorista, no? Eravamo in guerra, e in teoria la stavamo vincendo. Non ricordo chi ha scritto che la sola cosa che non si perdona a un regime è la sconfitta, ma ecco, la Vendetta non stava aiutando in quel senso.
Il governo non era felice, e come tutte le persone – o le entità – infelici, tendeva a fare più danni del solito. I Cerqueti del settantanovesimo piano ci avevano chiesto fin da subito se potevano mettere da parte qualche zucca di quelle grosse per la borsa nera, che avrebbero poi spartito i profitti con noi. Falini, il responsabile, accettò purché non ci mettessero nei guai se fossero stati scoperti. Io, per parte mia, passavo loro anche qualche cetriolo gratis, perché le povere anime erano più magre di me. Poi arrivò la mattina che li scoprirono. Uscendo all’aperto, sul tetto della Torre Stellata, vidi al centro dell’orto un drappello di poliziotti circondati dalla folla. La moglie di Cerqueti giaceva nel fosso scavato il giorno prima, muovendosi debolmente e con un buco in gola, come un sorriso, da cui usciva un flusso denso e grumoso di sangue. Se provavi a soccorrerla, il poliziotto ti puntava la pistola alla tempia. Vollero che la guardassimo morire, e poi la portarono via. Il resto della famiglia non l’ho più vista. Avevo il cuore schiantato, ma mi ripresi pensando che la Vendetta era anche per loro, e per tutti quelli prima di loro.
Tiempe belle e na vota, avrebbe detto il mio bisnonno napoletano, quando per fatti del genere si andava a manifestare. Adesso non si manifesta più. Adesso stiamo in casa, andiamo a lavorare, torniamo a casa e bona lè. Al massimo ci si ritrova in quei pochi bar dove hanno ancora da bere, ma occhio che uno su due ha la spia camuffata da cameriere o da barista. Guardo le foto della nostra ultima manifestazione – quella dove ho conosciuto Manuel e mi consumo, sedendo al tavolo della cucina, guardando la finestra spalancata e il profilo della megalopoli che si accende di luci, ora che viene sera. Mi consumo perché non so mai a che ora tornerà il mio compagno. Cucino, mi metto avanti col lavoro, passo lo straccio, lavo le lenzuola e rifaccio il letto, insomma qualunque cosa pur di non rimanere inchiodato alla sedia a fissare il cielo senza nuvole, che prima è bianco, poi azzurro, poi blu cobalto, poi viola e infine nero, e le torri della megalopoli infiammate di luci, come scrigni di gioielli, e di nuovo il cielo vuoto della notte.
Poi quando meno me lo aspetto, ecco Manuel di ritorno.
Lo fa sempre in silenzio, invisibile fino al momento in cui appare sospeso in piedi sul pavimento di casa. Sento elettricità nell’aria, e poi la luce mi acceca per un istante. Faccio appena in tempo a vedere la forma umana all’interno dell’alvo di luce che sono costretto a chiudere gli occhi. Quando li riapro Manuel è davanti a me, con in mano la maschera.
«Tutto bene qui?»
Gli salto al collo. Mi solleva come una bambola.
«Tu, piuttosto» gli dico, mentre lui sfinito mi rimette giù.
Prima un colpo di tosse, poi:
«Sono stato al porto. La sesta flotta era all’ancora, domani dovevano salpare. Ne ho affondata credo metà, prima che arrivassero i caccia a braccarmi. Erano tutte vuote o semivuote, dunque direi nessuna vittima.»
«L’altra metà salperà domani?»
«Non credo. Prima bisognerà liberare l’imbocco del porto dai relitti. Alcuni sono ancora lì che galleggiano.»
«Allora domani mattina torno e finisco il lavoro.»
«Non è sicuro, Vi. I caccia sono ancora di pattuglia.»
«E io sono la Vendetta. Che mi frega.»
«Sono anch’io la Vendetta, e a me frega. Di te, tendenzialmente.»
Mi strofina il naso sulle guance e poi sugli occhi, perché sa che così gliela do vinta.
«Ai servizi segreti sei stato?» chiedo.
«No. Ma credo che anche quello sia troppo pericoloso.»
Per ripicca gli mordo il naso. Poi mi rendo conto che mi sta crollando tra le braccia per lo sfinimento, e nemmeno io sono più tanto in grado di reggerlo. Lo accompagno fino al letto e lo aiuto a sdraiarsi, prendendogli la maschera dalle mani; torno a sedermi al tavolo della cucina, a contemplare quell’oggetto senza senso.
È un manufatto semplicissimo, di colore vermiglio. Ha due buchi per gli occhi e, al posto dell’apertura per la bocca, un cuore rosso sangue trafitto da sette spade. Mi torna in mente sempre la madonna dei sette dolori mentre indosso la maschera.
La prima sensazione che ti coglie è quella di essere improvvisamente diventato l’uomo più felice del mondo. Chissà se, caduto il regime, questa sensazione che proviamo Vittorio e io quando indossiamo la maschera della Vendetta diventerà una cosa banale per la nostra gente. Dopo questa cascata di gioia, mi trovo a galleggiare nella stanza, circonfuso di luce. Mi faccio invisibile, schizzo via dalla finestra aperta, e in pochi secondi raggiungo la stratosfera. Il freddo mi dà gioia. Le nuvole incendiate dall’alba mi fanno venir voglia di fare capriole, là, nell’alto dei cieli. Torno visibile, incandescente come una cometa; sono la Vendetta che precipita in volo verso terra. In meno di un minuto eccomi nella capitale del nostro paese, sopra il palazzo dove l’edificio dell’INPS fa da copertura ai servizi segreti. Nessuno ha mai osato fare attentati qui. Piombo verso un’ala del palazzo, sfondo il muro volando, la attraverso da parte a parte, la do alle fiamme. Risalgo. Sirene e cacciabombardieri mi circondano. Vengo crivellato di proiettili che rimbalzano via. Schizzo verso un caccia, lo afferro a mani nude, gli faccio fare un giro in tondo e lo sbatto contro un altro caccia – il motore mi esplode nelle mani sfolgoranti mentre i piloti si buttano col paracadute. Riparto verso il palazzo, sfondo e distruggo un’altra ala – qui c’erano i database e gli archivi sulla popolazione, con tutte le schedature dei dissidenti politici. Vedrai quanto si divertono domani. E dopo altre ore di distruzione torno invisibile, volo come un siluro verso la nostra finestra ancora aperta, depongo la maschera – atterro sul parquet del salotto proprio mentre Manuel sta finendo di preparare i friarielli per pranzo. Ha un bisnonno napoletano anche lui. Fu la scusa con cui attaccai bottone la prima volta. Trovo che sia molto carino con il grembiule, ma se glielo dico si arrabbia, quindi sto zitto e mi limito ad abbracciarlo.
«Non so se ho fame.»
Guardiamo i friarielli nella padella. Manuel sembra triste.
«Sai? Nemmeno io. Volevo mettere a cuocere le salsicce, ma a questo punto non so nemmeno se riesco a finire la verdura.»
«Almeno quella sforziamoci, ok?»
«Ok, Vi.»
Vado nell’altra stanza a cambiarmi. Per sbaglio mi cade l’occhio sullo specchio. Mi mordo le mani per non piangere. Che spettacolo orribile. Non peserò più di quaranta chili ormai. Manuel poco di più, anche se mette la tuta larga per non sembrare magro. Non ho quasi più capelli né peli. Il mio volto pare quello di uno scheletro, le orbite infossate, i denti che mi ballano nelle fauci.
«Ti hanno sparato addosso,» commenta Manuel servendo in tavola.
«Dove l’hai visto?»
«Al telegiornale.»
«Quindi ormai lo ammettono.»
«Parlano di un terrorista.»
«Alla buon’ora. Sono sei mesi che sfasciamo tutto.»
«Da che ho capito, pensano che sia uno solo.»
«Questo è quello che dicono,» rispondo sedendomi al tavolo e guardando i friarielli nel piatto. «Magari ai piani alti hanno capito che siamo in due.»
Mangiamo con riluttanza. Da quando siamo la Vendetta, è difficile che ci venga fame.
«O forse non ci hanno capito niente, Vi. Altrimenti a quest’ora sarebbero già qua.»
Finito di mangiare, rimaniamo in silenzio. La maschera è appoggiata sul divano accanto all’orto, e ci guarda immobile. L’antiquario da cui la prendemmo insistette per darcela gratis, avvisandoci di non usarla a sproposito: sembra che dia, e invece prende, finché non riesci più a darle nulla. E oltre un certo limite l’effetto è irreversibile. Dopo un’ora è ormai pomeriggio. Vedo Manuel alzarsi, le mani che tremano e le gambe incerte. Le sue gambe all’osso, sotto la tuta. Afferra la maschera. Fa per mettersela.
«Così presto…?»
«Bisogna che la Vendetta finisca ciò che ha cominciato,» replica lui. «I servizi segreti sono fondamentali per il regime. Dobbiamo renderli inutilizzabili. Hai detto che c’erano anche gli archivi, nell’ala est?»
«Cartacei e digitali. Siamo tutti schedati là dentro.»
«E allora bisogna che quella roba vada distrutta. Ci vediamo a cena.»
Indossa la maschera, di nuovo il tripudio di luce, mi copro gli occhi e in un attimo è uscito dalla finestra, volando invisibile.
Una sera ci sforziamo di mangiare, dopo due giorni senza maschera, e ci pare di recuperare un po’ di forze. Barcollando ce ne usciamo, mano nella mano, verso il solito bar ad incontrare qualche amico. Quei pochi che non sono in galera o alla macchia, perché con la Vendetta a fare danni in giro, la gente comincia a prendere coraggio. Davanti a una birra allo zenzero che viene palesemente dal mercato nero, chiacchieriamo a bassa voce con gli amici di questa Vendetta. Il barista intuisce e alza il volume della televisione. Domani, dice uno, ci sarà sciopero. Di chi? Tutta l’industria pesante. Quella serve per la guerra, fa presente un altro. È un brutto colpo. Per loro, replica il primo: se riesce, per noi è bellissimo.
«Ragazzi, io chiamerei anche voi due a manifestare, come ai vecchi tempi,» commenta la nostra amica Laura «ma onestamente non penso che sareste in grado di camminare per più di dieci metri.»
La guardiamo turbati. Lei indica le nostre gambe:
«Non so se stiate facendo uno sciopero della fame o che, ma voi due non state bene. Peserete venti chili uno in braccio all’altro. Ragazzi, se c’è qualcosa che non va ce lo dovete dire.»
«Mi piace quest’idea di uno in braccio all’altro.» commento io, luciferino.
Manuel apre gambe e braccia e io mi accoccolo su di lui, che poi mi abbraccia, carezzandomi la testa.
«Sì, vabbè,» commenta Laura. «Voi non mi prendete sul serio.»
È un momento di stress, risponde Manuel. «Un po’ la guerra, un po’ tutto il resto. Sei molto dolce a preoccuparti, Lau. Ma passerà, e staremo meglio.»
Torniamo a casa mano nella mano, come siamo usciti.
Passano i mesi e la Vendetta non manca un appuntamento. A forza di vedersi demolite o inservibili le sue strutture portanti e le sue risorse fondamentali, il regime sta perdendo la guerra. La polizia è sempre più impegnata a sedare i disordini e i suoi ranghi sono sempre più deserti, malamente rimpolpati da assassini e ladri usciti di galera. Ma la reazione della nostra gente questa volta si vede eccome. Gli scioperi si fanno più devastanti e più audaci. Le cellule della resistenza bloccano e si impossessano di interi quartieri. Sui social, se non si parla di questo, si finisce regolarmente per parlare della Vendetta. Chi potrà essere? Un santo? Un eroe? Un anarchico? Da che parte sta? Apparentemente ce l’ha con il regime – ma se poi volesse sostituirlo con uno suo personale? Abbiamo a che fare con una creatura aliena?
Io e Manuel siamo ancora mano nella mano, come mesi fa quando siamo andati al bar. Questa volta però è tardo pomeriggio e siamo nudi sul nostro letto, in giugno. Fuori dalla finestra si vede il sole, e le foglie del pomodoro che ho portato in cucina ieri mandano per tutta casa un odore di terra e di caldo. Non credo che la Vendetta si farà più vedere. Peso venti chili e non riesco più ad alzare un muscolo, sono troppo atrofizzati. Manuel è accanto a me e sento dalle sue dita che non riesce più nemmeno a stringere le mie. Stamattina ci siamo svegliati così, pensavamo che avremmo fatto questo e quello e invece si è fatta sera, e siamo in agonia.
La maschera è sul tavolo del soggiorno, spaccata in due con un coltello – quasi non ci riuscivo, con questa debolezza addosso. Manuel mi chiama ogni tanto con un filo di voce – ma non ho forza per articolare nemmeno un grugnito. Via via che il sole cala, sentiamo altri rumori da fuori – le urla della folla che manifesta, il rombo dei carri armati, le sirene della polizia, i fumi dei lacrimogeni. Lo sciopero si è trasformato in rivolta. Che tristezza non poterla vedere. È una cosa romantica, ve l’ho pur detto che io e Manuel ci siamo conosciuti ad una manifestazione, non so più quanti anni fa. Il letto dove siamo ora lo comprammo qualche mese dopo, prima di andare a vivere insieme, e ci ha seguito ovunque siamo andati ad abitare. C’è stato tanto amore in tutte le nostre case. Anche in questa, beninteso, ma poi c’è stata la Vendetta, e la Vendetta è più grande della nostra piccola coppia, la Vendetta aveva uno scopo, e lo ha ottenuto. Se ha consumato qualcosa, pazienza. Erano solo i nostri corpi. Anche ora che lentamente moriamo nel letto dove ci siamo amati tante volte, mi volto per guardarlo e sento che c’è tanto amore in questa casa.
A illustrare il racconto, Atomic Kiss – Estratto da Watchmen di Dave Gibbons e Alan Moore.