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Dissonanze

Autore
Iago Menichetti
Ciclo #2 - La vibrazione di un corpo
Narrativa generale
5 novembre 2020

«…Quando alziamo gli occhi al cielo e proviamo a guardare l’universo, l’unica cosa che vediamo è un’infinita distesa di nero intervallata da poche luci. Un’oscurità profonda che ci fa pensare non ci sia proprio niente tra un astro e l’altro, ma le cose cambiano se invece di usare gli occhi e limitarci a osservare la luce visibile proviamo a servirci delle orecchie e ascoltare il cosmo. Cioè, in termini scientifici, quando passiamo dal telescopio al radiotelescopio. Ed è proprio col radiotelescopio che possiamo rilevare una radiazione elettromagnetica che non è associata ad alcuna stella, galassia o altro corpo celeste e che ha un’intensità maggiore nella regione delle microonde dello spettro elettromagnetico. Questa radiazione di fondo è sistematica e presente in tutto il cosmo.»
«Lei sta parlando della radiazione cosmica di fondo, o CMBR. Per molti suoi colleghi non è altro che la principale prova del modello del Big Bang.»
Isaac Pengoose, come gran parte degli astrofisici e matematici, si era sempre trovato a disagio davanti alle telecamere. Tamponava la fronte con un fazzoletto per evitare che il trucco con cui l’avevano coperto si trasformasse in un grumo informe di cerone. Le sue teorie dovevano sembrare già abbastanza folli a quell’intervistatrice dal tailleur bianco e il sorriso al neon senza bisogno di tingersi una maschera da pagliaccio in faccia.
Intanto una mosca, forse attirata dal sudore o richiamata dalle luci dei riflettori, gli si avvicinò. Non riusciva a vederla, la coglieva attraverso il ronzio: un assillo inquieto che non gli dava tregua. 
«Infatti non è il modello del Big Bang che discuto riprese Pengoose, ma la nostra incapacità di concepire un universo senza un prima o un dopo. Mi permetta di continuare il ragionamento: se analizzata attentamente, la radiazione cosmica di fondo, o CMBR come l’ha giustamente chiamata, presenta un elemento piuttosto interessante: una serie di cerchi concentrici che manifestano al loro interno una variazione di temperatura molto al di sotto del previsto. L’aspetto più singolare di tutta questa storia è che provando a datare questi cerchi con la matematica in nostro possesso risulta che alcuni di loro, i cerchi più grandi, si rivelano più vecchi dell’universo stesso.»
«Mi scusi, ho capito bene: sta cercando di dire che crede di avere rilevato onde appartenenti a universi differenti dal nostro? A sentire le sue parole qualcuno potrebbe pensare che stia facendo riferimento a qualcosa di, come dire… metafisico.»
Pengoose ostentò una risata ma nell’intimo desiderava solo mettere a tacere quell’orribile, sistematico, grottesco, inesorabile, ronzio. Gocce vischiose gli scendevano lungo la fronte. La testa iniziò a martellare. Si sentiva divampare in quella giacca di flanella verde che aveva comprato nella speranza di fare bella figura ma che ora si sarebbe strappato di dosso.
«Dottoressa, metafisica e teologia non sono il mio campo di studi, lo sono invece fisica e matematica ed è proprio in quanto fisico e matematico che suppongo uno stato ultimo di espansione dell’universo tale da arrivare al dissolvimento completo della materia e all’assorbimento della luce da parte dei buchi neri. Ciò che rimarrebbe, a quel punto, sarebbe un cosmo di soli fotoni, in cui la materia si è dissolta, dove, in assenza di termini di paragone, infinitamente grande e infinitamente piccolo finirebbero per equivalersi. Le condizioni che avremmo sarebbero le stesse di quelle che valutiamo necessarie al Big Bang.»
«Secondo lei, quindi, quello in cui stiamo vivendo non è il primo degli universi a essere esistito?»
La testa gli pulsava come un organismo vivo e indipendente. Attorno a lui la luce cominciò a sfarfallare, danzando sul ronzio che si replicava nel vuoto in un incessante tappeto sonoro.
«Voglio dire che ritengo esista, sia sempre esistito ed esisterà sempre e solo un universo che si rinnova ciclicamente e che la fine di questo universo coincida con la sua nascita.
I cerchi concentrici di cui parlavo prima, quelli rilevati all’interno della radiazione cosmica di fondo, ne sono la prova.»
«Prima ha sostenuto che i cerchi rilevati dal radiotelescopio siano più vecchi di questo universo. Questo non cozza con l’idea di un universo unico e ciclico?»
Il calore si fece insopportabile.
Lo studio con le sue telecamere odiose e l’intervistatrice dal tailleur bianco e il sorriso al neon si immersero nella luce. Il ronzio avvolse tutto e il tutto scomparve.

 

Isaac Pengoose sedeva in una stanza di ospedale. Al suo fianco, distesa sul letto, stava la figlia che con la mano intubata stringeva la sua mentre, con lo sguardo, tentava di scovare un passerotto nascosto tra i rami dell’albero nel giardino di fronte. La testa della ragazza era fasciata da un fazzoletto di seta decorato da girasoli.
«Sei sicura sia proprio un passerotto? Io non lo vedo.»
«A dire il vero non l’ho mai visto nemmeno io ma ormai riconosco il verso. Questa settimana lui è venuto a trovarmi tutti i giorni. Puntuale, alla solita ora. Mica come te.»
«Scusami. Al lavoro siamo sotto pressione, ma appena esci ce ne andiamo al lago. Solo noi due. Promesso.»
«Stavolta non esco, Papà.»
«Smettila.»
Isabelle si girò per guardare il volto del padre. Le guance emaciate le dipinsero un sorriso sul volto.
«Papà ti posso fare una domanda?»
«Dipende, basta non riguardi la mamma.»
«No, è sul tuo lavoro… sulle cose che studi.»
«Dimmi.»
«Cosa c’è alla fine di tutto?»
«Che intendi?»
«Nell’universo… quando arrivi alla fine, cosa c’è?»
Isaac Pengoose girò la testa verso il giardino e gettò lo sguardo oltre la finestra. Il verso del passerotto si sentiva forte e chiaro, eppure dell’animale non si vedeva neanche l’ombra. Lo scienziato lo cercava come se da quella scoperta dipendesse la risposta alla domanda, ma l’enigma restava celato dietro le foglie. Se ne poteva cogliere solo il suono: l’eco di qualcosa che si sarebbe voluto conoscere.

 

«Professore… Professore! Tutto bene?!?»
Quando Isaac Pengoose riprese conoscenza si trovava di nuovo nello studio televisivo. Le luci avevano smesso di sfarfallare mentre l’intervistatrice si trovava sempre al suo posto. La testa stava sottosopra, ma il dolore era scomparso e il ronzio con lui.
«Si sente bene? È sbiancato all’improvviso. Vuole un po’ d’acqua?»
«No… No, mi scusi. Sto bene, deve essere stato un calo di pressione.»
«Le avevo chiesto dei cerchi concentrici rilevati all’interno della radiazione cosmica di fondo: se l’universo è unico e ciclico, come sostiene, com’è possibile che i cerchi siano più vecchi dell’universo stesso?»
L’uomo chiuse gli occhi: fuori splendeva una giornata primaverile e un vento piacevole s’insinuava nella stanza passando per la finestra. Tese le orecchie e si concentrò sul verso del passerotto mentre Isabelle cominciò a fischiettare, in risposta al piccolo volatile.
«Capisco possa suonare folle o sembrare complicato ma la risposta è più semplice di quel che si possa pensare: quei cerchi non sono altro che il lascito di un precedente ciclo cosmologico. Un ricordo, se preferisce. Una sorta di memoria universale. Vede, se due buchi neri supermassicci si scontrassero, il tempo necessario a fare evaporare le radiazioni prodotte dall’esplosione potrebbe essere superiore alla durata stessa dell’universo e, in caso di un nuovo ciclo cosmologico, sarebbe ancora possibile rilevarne la presenza.»
«Lei sta sostenendo che quello che noi captiamo è, letteralmente, un’esplosione avvenuta “un universo fa”?»
Una folata di vento più decisa si avventò sulla chioma dell’albero.
«Oppure un’esplosione che avverrà alla fine dell’universo. Nella concezione del cosmo che sto proponendo non c’è differenza tra quello che è avvenuto e quello che dovrà accadere dato che, in un modello ciclico, be’, sa com’è, le cose tendono a ripetersi. I buchi neri sono una specie di prigione celeste: al loro interno lo spaziotempo si concentra in modo tale da circuitare le leggi della gravità generale. Provi a immaginare la quantità di informazioni che possono essere contenute in uno spazio simile. In quelle radiazioni che noi rileviamo possono riverberare cose che non possiamo nemmeno concepire: esplosioni di supernove, fasci di luce cosmica, addirittura le urla, o il pianto, degli ultimi uomini prima della fine dell’universo. Ma anche cose minime, come il canto di un passerotto. Ascoltare il suono di quei cerchi è, in sintesi, come ascoltare l’intera vita di un universo. Del nostro universo.»
Da dietro una foglia più grande delle altre, sbucarono due occhi vispi circondati da piume caffellatte. Il passerotto, forse sorpreso dalla folata che aveva fatto ballare i rami o incuriosito dal richiamo della ragazza, uscì dal suo nascondiglio. Alzandosi in volo, planò leggero attraverso la finestra della stanza e atterrò con le zampette sul letto di Isabelle che strinse ancora più forte la mano del padre. I due risero per un tempo che forse era un attimo, forse qualcosa di più.
«Professore, prima ha detto che, in quanto matematico e fisico, la teologia e la metafisica non sono materie di sua competenza; eppure, mi permetta, esattamente come lei rileva in quelle radiazioni elettromagnetiche il lascito di qualcosa di più grande, io sento nelle sue parole e nel calore con cui difende le sue teorie, la speranza di qualcosa che va oltre la semplice materia. Per questo, Isaac Pengoose, le chiedo: se l’universo è ciclico e infinito, lo siamo forse anche noi?»

Quando il passerotto volò via dalla stanza, l’uomo guardò un’ultima volta la figlia. La abbracciò. E, in silenzio, pianse.

 


Celestografia di August Strindberg