Giustizia a Fort Tejon
Superata la collina la situazione non migliorava: polvere e rocce che desideravano diventare polvere erano tutto ciò che riuscisse a vedere.
Scese senza badare troppo a dove poggiava i piedi scalzi; senza badare ai serpenti a sonagli. Era molto stanco e quando era stanco diventava imprudente.
Era ormai giunto ai piedi del colle quando uno strano odore metallico gli riempì le narici. Veniva da un capanno di legno poco più avanti. Buio com’era riusciva giusto a intravederne la sagoma, ma il fetore era così pungente che avrebbe potuto seguirlo anche bendato.
Man mano che si avvicinava, l’aroma metallico si faceva sempre più atroce, fino a quando si rese conto di cosa si trattasse.
Di fronte a lui, nel cortile dietro la baracca, c’erano una decina di bestie scannate. Bovini ma anche un cane. Sotto una vacca, attorcigliata da qualche metro di intestino spuntava fuori una gamba.
Si piegò su se stesso cercando di trattenere un conato di vomito ma senza successo. Aveva lo stomaco vuoto dal viaggio perciò non gli uscì fuori molto. Odore di sangue e bile; ruggine e acido si mescolavano dandogli un leggero capogiro.
I suoi occhi si erano abituati finalmente a quel buio. Sollevò la testa e cominciò a riconoscere anche gli altri pezzi del cadavere sparsi lungo il terreno.
La gamba che aveva visto poco prima era di una donna, ma più guardava gli altri pezzi più c’era qualcosa che non gli tornava. Non era un solo corpo, erano almeno due le persone macellate in quel disordine. Magari una coppia di allevatori. Qualcuno aveva bussato alla loro porta, chiedendo ospitalità, e li aveva ripagati in quel modo.
Il sangue, notò, era ancora piuttosto liquido. Chiunque fosse stato doveva essere ancora nei paraggi.
Girò due volte intorno alla casa con discrezione, tenendosi ben piegato sulle ginocchia fino ad assicurarsi che fuori non ci fosse nessuno. Decise così di controllare la porta d’ingresso.
Dentro la casa era persino più buio che fuori. I suoi occhi faticavano a riconoscere la sagoma dei mobili, avanzò comunque fino al centro della stanza. Il soggiorno doveva misurare in tutto 6 passi, in gran parte occupati da un tavolo. Intravedeva una scala che doveva portare al piano superiore. Salire nel buio era poco meno che un suicidio; rimase quindi ad aspettare tenendosi appoggiato con una mano al tavolino.
La superficie era ruvida, mal lavorata; forse lo avevano fatto recuperando delle assi di legno in giro. Le gambe del tavolo erano state piallate alla buona, il tavolino traballava sotto il tocco leggero della sua mano. Qualcosa però c’era di strano in quella vibrazione. Si guardò intorno: anche le pareti tremavano.
Che notte assurda, fu tutto quello che riuscì a pensare mentre si avviava all’uscita per sfuggire al terremoto. Quando dopo due passi fu davanti alla porta un rumore sordo lo colpì alla testa. Il fetore dei cadaveri che lo aspettavano oltre la soglia gli riempì le narici un’ultima volta.
Si svegliò che penzolava da un albero fuori dalla baracca come la preda di un ragno.
Era ancora notte ma la luce della luna gli permise di scorgere un uomo dai lunghi capelli stopposi in piedi di fronte a lui con un forcone ben saldo fra le mani.
«Buongiorno Principessa, bentornata fra i vivi.»
Riconobbe la lingua dell’uomo bianco ma non poteva sapere cosa gli stesse dicendo, nessuno gliel’aveva mai insegnata.
Il bianco lo aveva legato per le mani a un ramo dell’albero abbastanza robusto. Ora che pian piano riacquistava conoscenza si accorgeva anche di quanto male gli facessero i polsi.
«Che fortuna oggi, sono sicuro che nessuno ha mai visto un raccolto tanto ricco di gennaio.»
Le parole erano solo un borbottio che vibrava nelle sue orecchie e la mente non poté che tornargli a quel giorno di tanti anni prima quando suo padre lo portò per la prima volta a caccia.
Lui e suo padre stavano nascosti tra i cespugli in attesa di un cervo che scalpicciava nei paraggi. Prima lezione di caccia: essere pazienti. Se il cacciatore è capace, sono le prede ad arrivare a lui. Aveva udito un ramo vicino spezzarsi, pensò finalmente che la sua occasione fosse giunta. Scattò in piedi e tirò una freccia nella direzione del suono. Il verso di dolore che fece seguito fu promettente, il colpo era andato a segno. Ma se avesse rispettato meglio la prima lezione, quella sulla pazienza, non si sarebbe fiondato fuori dai cespugli. Avrebbe notato la reazione preoccupata di suo padre a quel guaito che poco aveva dei cervi che ben conosceva. Fuori dai cespugli, superato il grosso albero di quercia, non c’era un cervo ma un uomo colpito a una spalla che nella stessa mano con cui cercava di togliersi la freccia reggeva una pistola.
Se lui oggi poteva ripescare questa memoria nella sua testa era solo perché suo padre era intervenuto per salvarlo da quel colpo di revolver. E così al costo della sua vita aveva imparato la lezione più importante della caccia: i suoni sono utili solo se li conosci.
La mascella dell’uomo bianco continuava a ciondolare sotto il peso delle parole:«Sacrificio», «raccolto», «Dio», chissà cosa significavano quei versi rauchi, si chiedeva mentre sentiva la carne dei polsi lacerarsi lentamente. Eppure era abbastanza chiaro come sarebbe finita quella situazione. Aveva ignorato i suoni dell’uomo bianco per tutti quegli anni per non sporcarsi con le parole del nemico, e invece la conoscenza è sempre un’arma e fra tutte la più affilata.
Non gli dispiaceva morire, neppure in quel modo ridicolo, appeso per i polsi ed esposto seminudo al gelo dell’inverno. Sapeva che la morte era una parte necessaria della vita. Il suo sangue conteneva il nutrimento per fiori futuri e una parte del suo spirito si sarebbe legata a quelle piante e avrebbe continuato a vedere, mentre un’altra parte avrebbe rivisto suo padre e avrebbe finalmente potuto chiedergli scusa. Era questa la giustizia del mondo, persino in un luogo dimenticato come Fort Tejon. Il solo fatto di non capire un meccanismo non significa che questo non abbia una logica.
«Grazie Padre per questa notte, grazie per il freddo che copre la terra e protegge i semi del futuro, lascia che il mio sacrificio propizi il tuo prossimo raccolto.»
Guardò l’uomo inginocchiarsi e protendere un lungo coltello macchiato al cielo. Il ronzio della sua voce gli oscillava nelle orecchie, una vibrazione incessante che gli torturava i timpani e che da lì risaliva dalle braccia ai polsi, salendo per la corda e dipanandosi nel ramo dell’albero a cui era appeso.
L’uomo bianco si alzò in piedi preoccupato.
«Hai detto qualcosa?» Gli urlò con gli occhi infuocati, «Sei stato tu?».
La testa gli cominciò a rimbalzare come il cadavere di un fagiano appeso alla sella di un cavallo, non potevano essere quelle parole, veniva dal ramo sopra la sua testa, e se era il ramo allora veniva dall’albero, che affondava le sue radici nel terreno…
Un rumore atroce spaccò l’aria come un fulmine farebbe nella notte. Fu un momento ma tanto bastò per vedere gli occhi dell’uomo bianco perdere il rosso e fare posto a quelle che sarebbero diventate lacrime se solo ne avesse avuto il tempo. La terra sotto ai suoi piedi si aprì in una voragine che lo inghiottì senza pietà. Con la stessa indifferenza il terreno continuò ad allargarsi lasciando che sparissero nel suo ventre i corpi maciullati delle vacche e degli sfortunati proprietari. In un pugno di istanti anche la casa lì seguì nelle profondità del mondo.
Tutto continuò a tremare per un minuto buono, fino a che non rimase solo il suo corpo vibrante ad oscillare nel silenzio della valle.
Al sorgere del sole riuscì finalmente a spezzare il ramo e liberarsi. Di fronte a sé la pianura era cambiata per sempre; una frattura si dipanava per chilometri come il corpo di un serpente disteso su un letto di sabbia e polvere e ai lati rocce che desideravano di diventare polvere. Sarebbe stato complicato raggiungere il resto dei suoi fratelli alla grande battuta di caccia, la strada non era più quella che aveva percorso per anni. Chissà se anche loro avrebbero avuto difficoltà, e gli altri Pomo?
Osservò il vuoto dove era scomparso l’assassino, non c’era modo di vedere quale fine avesse fatto il suo corpo. Lasciò cadere un sassolino nel crepaccio ma non arrivò nessun suono in ritorno.
Girò alla ricerca della sua bisaccia che trovò vicino a un cespuglio rinsecchito. Incamminarsi in quelle condizioni non era molto saggio ma se doveva morire preferiva farlo da qualche altra parte.
Dopo qualche tempo trovò una sorgente che zampillava distrattamente da una delle tante spaccature del terreno. Bevve avidamente l’acqua fresca. Forse non era quello il suo giorno.
Quando si fu dissetato prese un po’ di tempo per studiare il percorso dell’acqua. Andava a confluire in una conca più avanti, piano piano si sarebbe riempita e avrebbe dato origine a uno stagno che con un pizzico di fortuna sarebbe potuto diventare un lago. Con un simile pozzo sarebbe stato possibile creare una piccola città o un posto decisamente più ospitale.
E così da quella notte di sangue si arrampicava nuova vita e lui poté incamminarsi di nuovo verso i suoi fratelli, sapendo che ancora una volta il mondo aveva trovato il suo equilibrio, sapendo che la memoria di suo padre non era stata tradita, e portando dentro di sé la conoscenza di un nuovo suono.
Foto di Andrea Lenci