Gli universi intangibili
Memory
Cliccando tre volte sulla madeleine pixelata, il navigatore si trova su Memory, metaverso di una sola stanza, il cui arredamento prende le forme del ricordo che si vuole evocare.
I ricordi non accadono davvero: sono solo simulazioni, animazioni imprecise delle fotografie che gli diamo in pasto, imitazioni di vecchi filmati.
I navigatori sono ombre translucide che oscillano come simulacri e si alternano o sovrappongono ai sé del passato.
Molti tavoli hanno occupato la stanza di Memory; rotondi, rettangolari, allungabili, di massello di rovere o di plastica instabile; con molte portate o una modesta merenda; con i gomiti che toccano i bordi o gli avambracci che si spalmano sulla tovaglia; a volte un gatto si muove sinuoso tra i vassoi.
Viene imbandita una cena come si faceva per il compleanno della nonna, che è morta da vent’anni e la ritroviamo lì, insieme a suo figlio maggiore – quello zio che non ricordiamo bene perchè se ne è andato troppo giovane e ancora scapolo – e poi ci siamo noi, non più i bambini che giocavano con le sorpresine dell’ovetto Kinder, ma con figli a nostra volta, marmocchi che ora facciamo conoscere alla nonna defunta che è diventata bisnonna in un corto circuito temporale che i software avanzati e complessi di Memory gestiscono senza incidenti – per la durata massima di trenta minuti.
Manuel, classe 1989, rivede i mondiali del 2006 seduto accanto a suo padre, sul divano, e non sa mai da quale minuto iniziare per godersi al massimo quella mezz’ora. Appena Memory si esaurisce, continua a vedere il resto da solo, su YouTube dal cellulare, mentre si scalda una pizza surgelata in forno e non c’è nessuno a festeggiare con lui.
Chiara, che aveva solo quattro anni il giorno della vittoria, si catapulta anche lei in quel momento. S’illude di averlo tra i suoi ricordi, ma è solo un racconto, il racconto dei suoi fratelli più grandi.
Sliding Doors
A chi usa uno smartwatch che registra le emozioni durante il sonno, come gli arrovellamenti del cervello, e così passa la notte attanagliato dai rimorsi, vengono proposte pubblicità di Sliding Doors.
Così al mattino, mentre dovrebbe concentrarsi su altro, con il mouse che si muove accanto all’alone rotondo di una tazza di tè, clicca sul banner e finalmente vi accede, per ritrovarsi in quella stessa stanza con la tazza di tè ancora fumante.
Sliding Doors è il nostro universo, ma un giorno prima.
Dove c’è la tazza di tè fumante che lascerà l’alone rotondo, quell’amore non ancora perduto, quell’occasione non ancora sprecata.
Il navigatore si alza, per cogliere le seconde opportunità.
Dichiarerà il suo amore, sarà gentile con il collega, ricorderà il compleanno della madre, eviterà quello yogurt scaduto, dirà a Tommy di guardare a sinistra prima di attraversare la strada, nasconderà dei risultati chimici fatali per l’umanità.
Oggi sa cosa è giusto, ma non lo sapeva ieri.
Così, succede che quando vorrebbe coricarsi felice delle sue scelte quotidiane, Sliding Doors si autodistrugge.
Si trova solo, con l’alone della tazza da pulire, senza qualcuno ad abbracciarlo stanotte e sua madre che aspetta una sua chiamata, un forte mal di pancia, Tommy che è morto investito, una bomba che è stata sganciata.
Building Box
Chi naviga verso Building Box lo fa per rimanere fermo.
Per irrigidirsi in una statua, in un palo della luce, per diventare il Burj Khalifa.
Si può essere La Gioconda, sotto gli sguardi di migliaia di turisti, o il sassolino in giardino che ci vede uscire di casa ogni mattina e un bel giorno finisce nella nostra scarpa.
A Building Box si sceglie l’immobilità, la presa di coscienza, lo stare, il rimanere.
Si diventa il tempo scandito come l’orologio appeso alla stazione dei treni, l’insicurezza riflessa nello specchio del camerino di Zara, l’abbraccio alla propria madre dell’urna che ne contiene le ceneri.
Contempliamo l’unicità di un momento, la staticità di un’emozione che non cambia.
Finché non succede qualcosa, finché non diventiamo un sassolino che era in un giardino e finisce in una scarpa che viene scossa in ufficio e ora cade sul pavimento lucido e freddo e viene spazzato via in una pattumiera con briciole capelli polvere e chissà, chissà dove finirà.
Macroland
C’è un metaverso composto da infiniti mini-mondi.
Si tratta di Macroland, dove il navigatore si rimpicciolisce alla ricerca della meraviglia.
Si possono seguire le formiche, vedere come marcisce una mela, scivolare su di una lacrima sul volto. Giocare a gamba zoppa sulle tessere nere dei cruciverba, vivere nei castelli di sabbia che costruivamo da bambini.
I chimici lo usano per guardare da vicino i loro esperimenti, le maestre a scopi didattici, qualcuno per farsi calpestare dalla suola di una Nike su un marciapiede.
VVord
Ci sono parole, e basta, su VVord.
Né wasd né frecce, l’utente si muove premendo qualsiasi tasto, si destreggia sulle combinazioni in un alfabeto di strade, scivola su una parola e poi l’altra, s’aggrappa alle virgole, rotola sui punti, s’intreccia, si streccia, si spande.
Così si dipanano cento e poi mille storie, che si rincorrono senza fine, in un libro in perpetua espansione.
Si è cercato di circoscrivere racconti, di estrapolare romanzi, di ricavare saggi. Solo dopo aver stampato interi volumi si è capito che il flusso di VVord, se frenato o interrotto, non trova una verità narrativa.
L’essenza di VVord è il continuo divenire, l’esplorazione della lingua, il viaggio delle parole.
Ora VVord è una nuova corrente letteraria, che cavalca i neologismi, travalica i flussi di conoscenza, va avanti senza guardare indietro, e detta nuove regole, nuovi schemi, che sfuggono agli studi classici e fondano i principi della letteratura in perpetuo divenire.
Di questo, sì, è stato scritto su carta stampata: saggi che tentano d’incasellare con insuccesso il complesso incedere della lingua su VVord e che non vengono già più studiati neanche dalle maggiori cattedre di linguistica.
The last man on Earth
Di Harbornight ci sono due volti.
Al primo il navigatore accede subito: attracca al porto assieme ad altri novantanove giocatori, facenti parte di un gruppo di detenuti selezionati per un esperimento nell’isola del Pacifico. Qui dovranno sopravvivere, costruendo fortini, cacciando la fauna, curandosi con le erbe, uccidendosi a vicenda. Premio all’ultimo sopravvissuto: la libertà.
Ma quando la battaglia finisce e novantanove giocatori sono periti, il giocatore non vince corone né punti: la sessione non si chiude, così prova a girovagare per la mappa per conquistare trofei nascosti, e non li trova, allora torna al porto ipotizzando di doversi recare sulla terraferma, ma scopre che il gioco prevede di restare lì. E il vincitore è impossibilitato a uscire dalla partita o ad avviarne una nuova.
Vaga all’infinito per l’isola deserta, disseminata di cadaveri, senza avere altro da fare che vederli decomporre. Spera di morire anche lui, e magari tornare così al menù principale, ma si rende ben presto conto che a togliergli punti vita erano i colpi degli avversari e ora che sono tutti morti non v’è speranza che qualcosa possa ucciderlo.
Harbornight allora gli fa una promessa: se non racconterà dell’amaro destino del vincitore agli altri utenti, a breve potrà uscire dal gioco.
Lampeggia adesso un conteggio temporale a schermo e l’unica speranza per il vincitore è che, giunto a un certo minutaggio, la sessione scada.
Così ad Harbornight ci sono sempre vincitori nuovi e nessuno che abbia già vinto torna a giocarci una seconda volta.
Bruttopia
Ora dirò come si svolgono le sfilate a Bruttopia.
Si può intanto partecipare in due vesti: coloro che sfilano, e mettono in mostra le brutture; oppure coloro che guardano, e deridono e offendono e sputano a quelli che sfilano.
Chi sfila sceglie le proprie fattezze, il proprio abbigliamento, e fa a gara a chi è più volgare osceno ripugnante. Corpi obesi o fuscelli disidratati, pelli rovinate da cicatrici, allergie o incidenti, nasi grossi e gobbi e menti lunghi e pelosi, occhi strabici e vacui, lentiggini e voglie e foruncoli gonfi, organi genitali bitorzoluti o a malapena accennati, capelli unti e sfibrati e andature goffe zoppe invalide.
Il pubblico partecipa al più grande show dei freaks: urlano, inneggiano, offendono; lanciano pomodori, uova, saliva; poi passano a oggetti più pesanti, addosso, in testa, in faccia alle persone brutte. Per vederle ferite, inermi, disprezzate.
Fino a che nel guardaroba dei brutti sono apparsi i marchi di lusso, a proporre le loro linee kitsch. Essere disgustosi nel modo più bello.
Da allora le sorti di Bruttopia si sono rovesciate: quelli che guardavano hanno cambiato i propri avatar, per prendere le fattezze di chi prima sfilava. E così ora si sentono belli imitando chi prima disprezzavano. Chi sfila, invece, somiglia adesso a come erano prima quelli che guardano, e guardandoli lanciavano pomodori, uova e sputi.
Mimox
Un patto è necessario per accedere a Mimox.
L’utente che voglia personalizzare il proprio aspetto, o accedere alle attività di questo metaverso, o addirittura comprare e investire in un terreno, deve rinunciare a qualcosa del suo corpo reale.
Ad esempio si può dar via un rene per avere un pass vip e cominciare l’avventura su Mimox con un buon gruzzolo di bitcoin.
Si può donare il sangue costantemente per ottenere meravigliose skin per il proprio avatar, oppure privarsi di un arto per acquisire punti abilità – utili agli utenti che vogliono gareggiare nei minigame e cominciare a guadagnare in cripto.
Diversi ospedali collaborano con Mimox traendo beneficio dalle donazioni per i trapianti, ma com’è facile immaginare, qui operano i maggiori traffici illeciti di organi.
Più si passa tempo su Mimox, più si è propensi a rinunciare a qualcosa di sé. Se su Mimox si è investito bene, e si trova lavoro e magari una compagna o un compagno, saranno poche le ragioni di uscire dal metaverso e a ben poco servirà avere ancora delle gambe o dei piedi.
Al contrario, c’è chi per Mimox ha dato tutto, per avere tutto in cambio da Mimox.
Non ha più gambe né braccia né capelli né pelle del volto, solo con la retina si muove nel mondo virtuale, e mentre dentro è svuotato dei suoi organi vitali e sopravvive attaccato a macchine artificiali, su Mimox ha una villa, una macchina grande, dei vestiti di marca e il corpo che ha sempre desiderato.
A illustrare: M. C. Escher, Vincolo d’unione (1956)