Grandi uomini
Di ritorno dal Texas, Jason schiaccia i freni della sua vecchia Mercury che sa di sigarette e Coca Cola secca. Niente aria condizionata, solo una leggera cappa di fumo che non va mai via. Ho le cosce appiccicate sul sedile color vomito, con la fodera di finta pelle tutta grattata sui bordi e l’imbottitura che spunta come macchie gialle su denti corrosi. L’asfalto urla sotto le ruote.
Quando si ferma, Jason spegne la radio, i Led Zeppelin scompaiono, e dice, “ti vengo a prendere non appena sistemo le cose con mia moglie”. Mi afferra il mento e sento l’odore di trucioli di legno e sigarette delle sue dita. “Non chiamarmi, bimba”.
Un ordine più che una richiesta.
“Perché?” chiedo, in un patetico tentativo di non essere Lolita.
Jason non dice niente, si lancia una sigaretta in bocca e l’afferra coi denti. Poi mi schiaffa in mano il disco dei Led Zeppelin, senza copertina. “Aggiungilo agli altri e ascoltalo bene”, fa, guardando la strada, “e ricorda di circondarti solo di uomini come me”. Mette in moto prima che scenda. “Grandi uomini”.
*
Dopo l’aborto mi do malata al negozio dell’usato e passo giorni a letto, sotto le lenzuola leopardate, col disco dei Led Zeppelin e le mani sulla pancia. Immagino di essere Lori Maddox chiusa nella camera di un hotel perché Jimmy Page ha paura di essere arrestato per stupro di minore. Immagino Jimmy Page, ventotto anni, che fluttua su un palco, circondato da migliaia di donne, anche se tutto ciò che vuole è una quattordicenne in una stanza. Immagino Lori Maddox seduta su una sedia di legno intarsiato mentre beve uno sherry e fuma una sigaretta dopo l’altra. Le ore sembrano non passare mai, finché Jimmy Page non bussa alla porta con tre colpetti, due lunghi e uno breve – il codice segreto. Lori Maddox si alza; il kimono le scende lungo le cosce di bambina. Jimmy Page ha il petto sudato sotto il completo nero con il dragone cinese che gli si avvinghia intorno alle gambe. Il drago sembra ondeggiare mentre Jimmy Page entra nella stanza con un mezzo sorriso e dice, hey, baby girl.
Qui il mio sogno si ferma. Non riesco mai a immaginare il lieto fine.
*
Giovedì mi sveglio con due colpi alla porta e il postino lascia sulla soglia un pacco di La Perla. Ancora cerco di non sentirmi Lolita, che è come ripetermi di non sentirmi un cliché. Non c’è biglietto; non ci sono prove né implicazioni, solo un completo intimo turchese, giarrettiera e calze alla coscia coordinate, la carta velina che atterra sul pavimento nell’eco del silenzio che Jason si è appena comprato. Non lo tiro neanche fuori dalla scatola: un completo intimo è una promessa che suona come un ordine. Torno a letto, nuda, di fianco a una candela che brucia da ieri sera sul comodino.
Mia madre mi chiama al telefono almeno cinque volte. Da quando ho finito la scuola e mi sono trasferita vuole sapere cosa ho intenzione di fare dopo l’estate, cosa voglio fare della mia vita, cosa voglio fare nel mio futuro oltre che piegare camicie usate. Non so mai cosa rispondere.
Le dico che sono a lavoro e che vado a pranzo fuori con i colleghi, invece metto un disco di Prince (altro regalo di Jason, altro grande uomo), mi faccio un gin tonic a mezzogiorno, e fumo una sigaretta sdraiata a terra, finché non comincio ad avere freddo e il soffitto mi sembra sempre più vicino, come se volesse avvolgermi fino a sotterrarmi.
*
Prince e sua moglie Garcia avevano un accordo: lei non poteva mai chiamarlo, doveva aspettare che fosse lui a chiamare lei. “Non ho mai capito perché; non me l’ha mai confessato”, aveva detto Garcia in un’intervista per il Daily Mail.
L’ultima volta che lo avevo chiamato, Jason si era chiuso in bagno. “Fatti vedere”, mi aveva detto, solo che io ero a letto, avevo pianto tutto il giorno e avevo la faccia secca, come se qualcuno mi avesse aspirato via tutto il sangue. Avevo i capelli sporchi e indossavo la stessa felpa da quando avevo fatto il test di gravidanza.
“Non posso stare tanto al telefono”, aveva detto lui. “C’è Crystal in giro per la casa”, e io per un attimo avevo cercato le parole per dirgli la verità, per gridargli contro, ma ero solo riuscita ad ascoltare il suo respiro e il rumore dell’acqua del rubinetto che aveva acceso per non farsi sentire da sua moglie.
Alla fine gliel’avevo detto, anche se non ero riuscita a gridare. Non potevo più ritardare.
“Faccio io”, aveva risposto subito, come se dovesse solo pagarmi il conto al ristorante. “Andiamo in Texas. Partiamo questo weekend. Non chiamarmi”.
*
Durante il viaggio per Dallas aveva parlato solo di Rolling Stones, anche se non me ne fregava più un cazzo della musica che gli piaceva, anche se volevo solo arrivare alla clinica e non pensarci più.
“La loro miglior canzone”, aveva detto Jason durante “Jumpin’ Jack Flash”, tamburellando le dita sul cruscotto, e poi mi aveva messo la mano destra tra le cosce. Più che un tentativo, un ordine.
Avevo cominciato a piangere. Così, come se avesse premuto un bottone.
“Ehi, ehi, baby girl”, aveva detto, e mi aveva carezzato una guancia, con la sigaretta stretta tra i denti. “Che c’è? Che ho fatto?”
Piangevo perché non riuscivo a gridare. “Perché hai detto che sarebbe stato meglio?” avevo chiesto, senza guardarlo, con gli occhi sui campi dell’Oklahoma che si srotolavano oltre la strada e le squallide pompe di petrolio che macchiavano il giallo bruciato dei campi. Il cielo era così limpido da sembrare freddo.
“Perché hai detto che sarebbe stato meglio?” avevo ripetuto, la mia voce un patetico mugolio zuppo di moccio.
Per una volta non aveva saputo rispondere, come se stessi parlando con qualcun altro, come se stessi parlando di qualcun altro e non di lui, come se non fosse stato lui, due mesi prima, a presentarsi da me con una bottiglia di Evan Williams; come se non fosse stato lui a togliersi il preservativo mentre mi teneva i polsi fermi contro il cuscino. “È meglio così, te lo giuro”, aveva detto, continuando a bloccarmi le mani. “Te lo giuro. È meglio. Fai come ti dico, per una volta.”
Un ordine.
Adesso, in viaggio per Dallas, dove non ci avrebbe riconosciuto nessuno, non sapeva che dire mentre piangevo come una bambina.
“Dài, ascolta questa”, aveva detto, alzando il volume. “Si chiama “Angie”.”
L’avevo sentita migliaia di volte, la chitarra scioglimutande di Keith Richards, la voce lagnosa di Mick Jagger. “Le groupie per noi erano come stazioni di benzina”, aveva detto Keith Richards. “Passi da Cincinnati e che fai, non ti fermi a fare il pieno?”
Volevo dirglielo, a Jason, chiedergli cosa ne pensava, cosa pensava di Jimmy Page che si scopava le quattordicenni, Prince che non permetteva a sua moglie di chiamarlo, Keith Richards che paragonava le groupie a stazioni di benzina. Ma per tutto il viaggio ero rimasta con la fronte appoggiata al finestrino, la nausea e il vomito che arrancavano su per la gola. Jason aveva continuato a parlare. “La musica di voi giovani non è più quella di una volta”, aveva detto a un tratto, per provocarmi.
Non mi ero neanche voltata a guardarlo. “Qualsiasi canzone mi fai ascoltare mi sembra veleno”, avevo detto.
Jason non aveva risposto, ma non aveva spento la radio. I grandi uomini continuavano sempre a cantare.
*
Il primo lunedì dopo l’aborto mi infilo una felpa che mi arriva alle ginocchia e penso di chiamare mia madre per dirle che voglio iscrivermi all’università. Riesco persino ad alzarmi, a prendere la scatola del completo intimo e uscire a gettarla nella spazzatura, ma prima di uscire sento qualcosa di più pesante che scivola sotto gli strati di carta velina. È un altro disco della collezione di grandi uomini, un bootleg di un vecchio live di Jimi Hendrix.
Per un attimo penso di tornare dentro, infilarmi nel letto, mettere su l’album e non uscire mai più; rotolarmi nelle coperte come un baco in un bozzolo, esausto ancora prima di diventare farfalla. Penso di rimanere per sempre una diciassettenne che beve gin tonic per pranzo; penso a Lori Maddox chiusa nella sua stanza di hotel ad aspettare Jimmy Page, la moglie di Prince che aspetta seduta accanto al telefono, le groupie di Keith Richards e Mick Jagger da riempire come taniche di benzina. E poi Cynthia Caster, la groupie che per un compito di arte a scuola doveva rappresentare qualcosa “di duro” e, in preda all’ispirazione, si era intrufolata nel camerino di Jimi Hendrix per persuaderlo a fargli un calco del cazzo. Penso di iscrivermi all’università e frequentare solo corsi di musica e arte e scrittura e non fare altro che disegnare e scrivere di Jason per vendicarmi, per gridare al mondo quanto faccia schifo, perché chiamare sua moglie mi sembra troppo poco.
Poi penso di restare una tra le tante donne come me, zitte e sole in una stanza.
Mi fermo davanti allo specchio, giovane, sola, nauseata, magra, sporca, con un completo intimo da duecento dollari tra le mani, mentre Jason se ne va a lavoro nel suo completo di poliestere. Lo immagino succhiare dalla cannuccia di un’enorme bicchiere di caffè freddo, salutare sua moglie con un bacio che sa di mentine del supermercato, guidare la sua vecchia Mercury come se fosse una rock star, come se non avesse problemi a pagare gli aborti alle sue amanti minorenni allo stesso modo in cui paga le tasse della scuola privata dei suoi figli. Non c’è niente di grande nella sua vita.
Mi tolgo la felpa, provo il completo di fronte allo specchio. Il pizzo turchese mi esplode addosso come un mazzo di fiori in una camera piena di luce. L’appartamento è silenzioso, un raro momento senza musica. Immagino di nuovo Lori Maddox che si alza e lascia cadere il kimono a terra, il corpo da quattordicenne fasciato in un completo di raso porpora. Jimmy Page entra, hey, baby girl, con un sorriso storto e ubriaco, il completo col dragone che brilla nelle luci arancioni della stanza.
Immagino Lori Maddox che se lo scopa finché lui non collassa, esausto dopo il concerto, con un secchio per il vomito di fianco a letto. Nel sogno, ma anche nella realtà, Lori ha avuto una relazione con David Bowie, ne avrà una con Mick Jagger, e con tanti altri grandi uomini. Lori rimane sveglia tutta la notte di fianco a Jimmy Page che russa e puzza di bourbon scadente. Il soffitto della camera di albergo le sembra straripante di possibilità.
Foto di Anthony Torres