Categories

Solo stasera

Autore
David Valentini
Ciclo #3 - Spaghetti does it better
Erotico
21 gennaio 2021

Laura aveva vent’anni quell’estate ma sembrava sapere ogni cosa della vita.
Quando tornavamo dal mare si toglieva le infradito, poggiava i piedi sul cruscotto e si abbandonava sul sedile. Con una mano fuori dal finestrino, guardava gli alberi scorrere lungo la Colombo. Muoveva la testa al ritmo di Felicità puttana e Fotografia, storceva il naso su Amore e Capoeira e altre cagate che la radio mandava in continuazione. Gocce di sudore le scendevano dal collo abbronzato e sparivano nella scollatura che mi faceva salire l’arsura in bocca.
Io, forse per la prima volta in vita mia, guidavo piano. Rallentavo con gli arancioni per farli diventare rossi. Volevo succhiare ogni goccia di quei momenti, quando accannavamo gli altri e ce ne tornavamo per conto nostro. Dopo una giornata fra le onde con gli amici, volevo godermi il mistero della sera.
Laura, seduta accanto a me, ogni tanto si carezzava la gamba col piede. Seguivo quel movimento che mi conduceva verso il polpaccio magro, il quadricipite delineato, le cosce affusolate che incontravano il tanga sotto il vestito leggero. Tentavo di trattenermi, però finivo sempre col poggiarle la mano sul ginocchio. Sotto le dita sentivo la leggerissima peluria bionda, la carne morbida dell’interno coscia. Lei sorrideva a occhi chiusi, mi prendeva la mano e se la portava fra le gambe. Scostava il tanga di lato e usava il mio medio per bagnarsi. La sentivo inumidirsi subito. Proseguivo con un movimento lento, pacato, poi sempre più veloce. Veniva così, dimenandosi sul mio sedile. Quando una macchina si affiancava, la vedevo accendersi. Mi diceva di fissarla, di pensare che quelli nell’altra auto non lo avrebbero mai saputo che era venuta per me. Allora le mettevo il medio inumidito sulle labbra e restavo a guardarla mentre lo succhiava.
Era raggiante quel pomeriggio perché il fratello aveva organizzato una serata per loro due. Non capivo proprio cosa ci fosse di così eccezionale. Michele lo avevo incontrato solo una volta, a marzo, quando avevo conosciuto anche lei. Mentre cercavo di non appoggiare il pacco sul culo della sorella nel tentativo di insegnarle come fare almeno uno strike, lui continuava a fissarmi come un fidanzatino geloso. Ci vogliono le palle, pensavo, a guardare a quel modo uno che pesa il doppio di te e può sfondarti di cazzotti.
A un tratto divenne nera. Digitava sullo schermo come se dovesse trapassarlo. Sibilò un vaffanculo e lo lanciò nella borsetta. Le chiesi se fosse tutto ok. Rispose che suo fratello aveva fatto saltare tutto perché doveva lavorare.
Non riportarmi a casa, aggiunse. Voglio bere. O fumare. Quanto mi rode, guarda.
Dai, dissi, ti porto in un posto caruccio che conosco.
Lei annuì e rimase a guardare fuori dal finestrino. Ma se andiamo da te? disse poco dopo.
Ok!
Stasera sono tua.
Solo stasera?
Si voltò. Se non ti sta bene, puoi lasciarmi da Sabrina.

Salendo le scale del mio palazzo, andò avanti per prima. Voleva che la guardassi. Che gustassi con gli occhi ciò che avrei assaporato a breve. Gradino dopo gradino, faceva scivolare le dita piene di anelli sul corrimano.
Mi baciò sulla soglia dell’appartamento. Un bacio breve, delicato, seguito da un secondo, più lungo, con la lingua. A occhi chiusi, la sentivo slacciarmi i pantaloni, afferrarmi le palle. La porta è ancora aperta, dicevo. Lo so, rispondeva. Che ti frega se ci guardano.
Poi sparì. La chiamai un paio di volte prima di sentire l’acqua scorrere in bagno. Rimasi come un idiota qualche minuto ad accarezzare Thor, venuto a farmi le feste.
Attraverso la porta del bagno, sentivo Spotify mandare Max Gazzè, Carl Brave, Gazzelle, altra gente che non avrei mai ascoltato neanche sotto tortura. Io, sul letto insieme a Thor, rispondevo con i Maiden, gli AC/DC, gli Slipknot.
Ci stava mettendo una vita per farsi una stramaledetta doccia.
Andai in cucina. Il frigorifero era quasi vuoto. Presi del prosciutto, delle olive, tagliai qualche fetta di grana e di brie. In due ciotoline misi miele d’acacia e marmellata di fragole. Trovai dei tarallini al peperoncino e un bianco portato qualche sera prima da Marco e Anna. Lo stappai, ne assaporai un sorso e lo versai in due calici nuovi di zecca.
Sentii dei passi leggeri sul pavimento. Laura era lì, intenta a guardare il tagliere. I capelli biondi, lunghissimi e gocciolanti, scendendo dalle clavicole, coprivano il seno e arrivavano fino all’ombelico. Con la mano sinistra, si portava alla bocca una fetta di brie. Con la destra, si grattava un fianco.
Bello il tagliere, disse afferrandomi il mento. E bravo il mio uomo.
Brindammo: io a quella serata, lei al futuro. Al nostro? chiesi. A quello che ci aspetta, rispose. Non lo sapevo ancora, ma a marzo sarebbe partita per sei mesi di Erasmus. E prima di quel momento, avrei avuto modo di maledire ogni singolo secondo trascorso con lei.
Il primo sorso lo sentii scorrere lungo la lingua, riscaldare la gola e lo stomaco. Svuotammo i calici in piedi, mentre mi parlava di lezioni che sarebbero ricominciate a breve, di un secondo anno che sarebbe stato più complesso del primo. Non l’ascoltavo. Non riuscivo a concentrarmi sulle parole, avendola lì accanto. Vedevo i suoi piedi smaltati, le linee delle gambe, quel ventre piatto con un accenno di addominali.
La presi a metà frase. Disse di no, si divincolò. Ogni volta faceva finta di scordarsi che la superavo di quasi quaranta centimetri e una sessantina di chili. Con una mano le bloccai entrambi i polsi, con l’altra la afferrai da sotto le ginocchia. La sollevai sul tavolo. Le aprii le cosce e presi a baciarla. Mi guardava dritto negli occhi. Il suo odore mi stordiva. Provò a stringere le gambe ma con un gesto gliele spalancai.
Affondai la faccia e nello stesso istante la sentii ridere. Era dolce, troppo dolce. Il sapore della sua pelle si mescolava a quello della marmellata che si era spalmata senza che me ne accorgessi. Mi persi là in mezzo, in quel vortice di sapori. Passavo la lingua sul clitoride, me lo tenevo fra le labbra, davo colpi veloci prima di rallentare, così da prolungare l’agonia. Lei ansimava, mi accarezzava la testa e mi spingeva a continuare. Nel silenzio assoluto della casa, immersa nella solitudine estiva, i suoi ansiti erano un’estasi. Sentivo il suo corpo vibrare in modo diverso man mano che si avvicinava all’orgasmo, le dita dei piedi contorcersi, le mani sulla mia testa farsi più rapaci.
Quando disse Così, continua così, mi fermai. Mi guardò con tanto d’occhi. Che cazzo fai? disse. Stavo per venire.
Lo so, risposi. La tirai giù dal tavolo come fosse un vecchio straccio. Mi avvicinai per baciarla e mi diede uno schiaffo.
Ma do’ vai? dissi.
Provò a darmene un altro ma le fermai il braccio. Allora affondò la faccia nel mio collo. La sentii mordermi, e dovette prendere un nervo perché una scarica elettrica mi trapassò la faccia. Urlai, la spinsi contro i fornelli. Lei mi si fiondò di nuovo addosso.
La afferrai per il collo. Strinsi forte, forse troppo. Allentai appena, mantenendo la presa salda. Lei mi sfidava con lo sguardo: Piuttosto mi faccio ammazzare, sembrava dire. Vidi la sua pelle arrossarsi, gli occhi irrorarsi di sangue. Si leccava le labbra, e intanto con le mani mi slacciava di nuovo i pantaloni. Prese a masturbarmi.
Dopo una ventina di secondi, mi toccò la mano che stringeva il collo. Dovevo lasciarla, era quello il segnale. Invece la tenni a lungo, finché la faccia non divenne quasi viola. A quel punto mollai la presa. La sentii prendere una boccata d’aria infinita. Sul collo aveva due segni scuri.
Ops, dissi con un mezzo sorriso, mi sa che ho esagerato.
Sei uno stronzo, Ste’, fece lei massaggiandosi sotto l’orecchio. Ma la voce la tradiva, e anche il suo corpo. Si sputò sulle dita e mi inumidì per bene il cazzo, poi si voltò, allungandosi sul tavolo. Scopami, disse. Vediamo se riesci a fare di meglio.
Scivolai dentro quel lago bollente. Le tenevo la testa schiacciata contro il tavolo, mentre con l’altra mano scendevo lungo il collo seguendo la linea delle vertebre. Arrivato oltre i fianchi, disegnai minuscoli cerchi intorno al buco del culo.
Quello no, disse, sollevando il mento. O magari chissà, se ti comporti bene…
Mi slacciai la cinta. Lei si avvinghiò al tavolo. La sua schiena, abbandonata davanti a me, era una campagna da saccheggiare.

Più tardi, sul mio letto, in silenzio dividevamo una Gauloises mentre i raggi della luna che filtravano dalle tapparelle illuminavano i nostri corpi nella penombra. Vedevo il suo ventre inabissarsi, e subito risollevarsi quando emetteva il getto di fumo. Ci eravamo scolati la bottiglia di Pinot e ora stavamo dando fondo al Disaronno che nel frattempo ero sceso a comprare.
Lo squillo del suo telefono arrivò come una fucilata nel silenzio della stanza. La vidi scattare in piedi e dire Cazzo cazzo cazzo. Accesi la luce e le chiesi se fosse tutto ok. Mi zittì con la mano, come facevo con Thor per farlo smettere di rompere i coglioni.
Mentre parlava, la mia testa continuava a vagare. Da un lato mi compiacevo delle strisce che le avevo lasciato lungo la schiena, dei lividi già quasi neri sulle chiappe, dei segni rossi sui polsi. Dall’altro, non riuscivo a distogliere l’attenzione dal tono pacato della sua voce, che ripeteva come avrebbe trascorso la notte da Sabrina, solo loro due e la maratona di Peaky Blinders. Era fin troppo brava a inventare cazzate.
Quindi resti, dissi dopo che aveva attaccato.
Ti dispiace?
Soffocai un sospiro, poi la afferrai e la trascinai accanto a me.
Non farci l’abitudine, disse. Me lo prese in mano. Guarda, è di nuovo sveglio.
Con te vicino è normale, risposi con una voce che suonò finta persino a me.
Mi passò la lingua sulle palle. Senza mai staccare lo sguardo, e lasciando minuscoli baci per tutta la lunghezza del pene, mi chiese se avessi un lubrificante.
Me lo inumidii appena e le entrai nel culo quasi a secco. Disse di essere la mia troia, che dovevo farle male, umiliarla. Ma non ero già più con lei. Con la testa ero tornato a un’ora prima quando, in cucina, si era fatta schizzare in piena faccia. Aveva goduto nell’essersi sporcata a quel modo. Subito dopo aveva detto che doveva farsi un’altra doccia ed era corsa in bagno. L’avevo spiata attraverso la porta accostata, convinto si stesse lavando. Invece si scattava delle foto. Inquadrava il culo arrossato, il collo livido, il viso impiastrato.
Poi era andata su WhatsApp e aveva inviato le foto a qualcuno. Mi chiedevo a chi cazzo potesse mandare roba del genere. Qualche amica, credevo. Così, mentre la sua figura veniva avvolta dal vapore, mi ero avvicinato al lavabo con la scusa di darmi una rinfrescata. Scendo a prendere qualcosa da bere, avevo detto. Cosa preferisci?
Disaronno, aveva risposto. Il telefono aveva vibrato in quel momento. Sullo schermo era comparso un messaggio di Michele: Sei una stronza, diceva. Ti odio.
Spinsi più forte che potei. Lei cacciò un urlo. La tirai per i capelli. Aveva le lacrime agli occhi quando avvicinai le labbra all’orecchio.
Manda pure questo a tu’ fratello, dissi.


Frame tratto da Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino