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Il pensionato di Madame Legrand – Pt.1

Autrice
Deborah D'Addetta
Ciclo #10 - Spaghetti volanti pazzi
Narrativa generale
5 maggio 2022

Voleva lei da sempre, ma la vita del Signor Cappello non gli aveva permesso il lusso di uscire dal seminato. Almeno fino a quel momento. La diagnosi era cristallina: cancro e tre mesi di vita.
Certo, quando si ricevono tali notizie, l’uomo smette di ragionare e torna a essere istintivo e selvaggio. Tanto, cosa c’è ancora da perdere? La dignità? Andata ormai da un bel pezzo, ché una vita vissuta come tutti si aspettano non si può definire vita. Il coraggio? Non c’è niente di peggio che affrontare la morte da consapevoli e con preavviso. La speranza? Il nostro amico non ce l’aveva avuta neanche da sano. Gli affetti? Sospettava che sua moglie avesse intimamente esultato alla notizia e che sua figlia si stesse già pregustando l’Alfa Romeo 1900C Cabriolet del ‘55 che lui aveva ereditato dal padre.
E quindi Adolfo, così si chiamava, decise di fare l’unica cosa logica che gli venisse in mente: andare da lei, infine.
Ne aveva letto anni prima su un giornalino che ancora possedeva – quelli con le fotografie in bianco e nero e le didascalie scritte in caratteri microscopici – e l’immagine di quella donna voluttuosa gli era rimasta dentro. Non era sicuro nemmeno che esistesse, ma la sua imminente morte lo rese audace.
Per prima cosa, convocò una riunione straordinaria con tanto di tartine al salmone e Martini, in cui comunicò a tutti la diagnosi, gongolando nella sensazione di finta preoccupazione che colleghi e amici – molto pochi, a dire il vero – mostrarono.
Poi passò in banca e, dopo innumerevoli grane burocratiche e scartoffie che gli fecero perdere una preziosa settimana di vita, prelevò tutto ciò che aveva. Niente di che, quel tanto che bastava per i suoi ultimi progetti.
Prenotò infatti un biglietto di sola andata per Parigi. Non ci era mai stato, nonostante sua moglie lo avesse pregato in ginocchio di portarcela, e gli era parso giusto esaudire il suo desiderio, ma senza di lei. Per chiudere il cerchio, fracassò l’Alfa Romeo contro il palo di un Istituto Comprensivo dedicato a un altro uomo morto, così, per togliere a sua figlia la soddisfazione di godersela mentre lui marciva in una tomba.
Ormai sono un morto che cammina, diceva a se stesso e la giustificazione tanto bastava dopo cinquantasette anni trascorsi a incasellare ogni gesto nei ranghi del socialmente accettabile.
Arrivato a Parigi, Adolfo Cappello si rese conto di non capire nulla di francese. Decise di stabilirsi in un motel di Pigalle, perché credeva che il Moulin Rouge fosse quello di un tempo, ma soprattutto perché un quartiere costellato di sexy shops e locali per spettacoli erotici gli sembrò il giusto punto di partenza per la sua ricerca.
Chiaramente si sbagliava, un uomo quasi morto non diventa per forza di cose più intelligente, ma Adolfo Cappello non capiva niente di eugenetica al contrario. Dunque, nonostante la sua inconsapevole ignoranza, prese l’abitudine di passeggiare per le strade di Pigalle. Scoprì di essere affascinato dalla quantità di cartelloni pubblicitari: donne nude, uomini nudi, falli giganti al neon, altre donne nude, insegne a caratteri sinuosi, cuori che sembravano natiche e natiche che sembravano cuori. E poi quella sfilza di cafè, hotel, bistrot che nel nome avevano qualche rimando al sesso camuffato da romanticismo.
Le cafè de l’amour”. “L’hotel des folies”. “Le bistrot des fesses”.
Adolfo adorava tutto. Gli anni vissuti della tristezza ovattata della provincia di Varese lo avevano reso intellettivamente e fisicamente rachitico e tutto quella sfacciataggine gli faceva girare la testa.
Una sera – era in città da dieci giorni – si arrischiò a entrare in una sorta di strip club: la réclame prometteva faville, ma lui si lasciò tentare dalla foto di una bellissima ragazza coperta di piume. Pagò uno sproposito, si accomodò su un divanetto di pelle nera e attese. Il locale era buio, fatta eccezione per il palco incorniciato da un sipario rosso, e puzzava di fumo, legno e sudore. A gesti, si fece portare un Martini bianco – una delle sue più grandi passioni – e lanciò un’occhiata alla mise delle cameriere, sensualissime pinguine con le tette all’aria. Si domandò se, pagando, avrebbe potuto averle.
Poco dopo, la ragazza con le piume fece la sua grande entrée sul palco. Rispetto a sua moglie sembrava un angelo caduto dal cielo. Partì a tutto volume una musica allegrissima, ricca di trombe e fischietti, e man mano che si faceva più concitata la ragazza diventava sempre più nuda. Adolfo batteva le mani, prendeva un sorso di Martini, poi batteva di nuovo le mani e lo faceva così forte che un signore accanto inforcò gli occhiali così da giudicarlo meglio. Lui restava ipnotizzato dallo spettacolo, da quella ventata di falsa trasgressione che mai aveva assaporato. Quando la ragazza terminò, Adolfo si avvicinò timidamente al palco, aprì il portafoglio e le passò una banconota da cinquanta euro. Lei non reagì sperticandosi in gratitudine come si era aspettato – e in quel momento gli venne un dubbio: era stato troppo tirchio o era abituata a quel genere di gesti? – ma gli permise di toccarle un piedino.
Uscì dallo strip club in uno stato di catatonica felicità.
Ma perché m’hanno dovuto dire che sono prossimo alla tomba per godere di tutto questo? pensava.
Passeggiando per Rue Pierre-Fontaine s’imbatté in un minuscolo sexy shop aperto. Guardò l’ora, erano quasi le due di notte. Si sentì forte, ancora nel pieno delle sue facoltà, in una città sconosciuta e piena di promesse. Entrò. Quello che sembrava il proprietario, un indiano dalla folta capigliatura tinta di verde, lo salutò con un occhiolino. Non gli chiese niente, ma tornò a sfogliare un giornale. Adolfo si guardò intorno, senza capire l’uso di metà della merce esposta, poi fu catturato da un oggetto: una bambola quasi della sua altezza, con la bocca spalancata e gli arti rigidi. Sapeva cosa fosse – quella sì – e le ricordò la donna che stava cercando. Non le assomigliava affatto, ma la marca che portava incisa su un fianco plasticoso diceva “Le Grande”. Tirò fuori dalla giacca il giornalino che portava sempre appresso e lo sfogliò fino alla pagina segnata con una piega: l’immagine di una donna alta, dal seno e dalle gambe poderose, i capelli riccissimi e un ghepardo finto ai suoi piedi recitava: “Le pensionnat de Madame Legrand”.
Lo prese come un segno. L’uomo indiano era già alle sue spalle, aveva fiutato l’affare. Adolfo gli indicò la bambola con un dito, poi gli mostrò il suo giornalino. Appurata la somiglianza dei nomi quello si mise a ridere. Cominciò a parlargli in un francese velocissimo e di proposito, perché i francesi amano ascoltarsi e imbarazzare gli stranieri, tant’è che Adolfo dovette improvvisare qualche replica.
«No more this» rispose l’indiano, in un inglese peggiore del suo francese, «Le pensionnat de Madame Legrand. Now, it’s Le pensionnat des épices.»
«Non si chiama più così?» chiese conferma Adolfo, agitando il giornalino.
L’uomo rise, i denti bianchissimi.
«Ma allora…esiste! Esiste anche Madame Legrand? Questa qui, questa donna?»
«À Paris c’est tout possible.»
«Mi perdoni?»
«Yeah, good.»
«Sì? Esiste anche la madama che è ritratta qui?»
L’indiano fece l’indiano: si strinse nelle spalle e poi indicò la bambola gonfiabile. Adolfo non capì.
«Non dovrebbe prendere in giro i clienti.»
«Yeah.»
«Lo sa che sono un morto che cammina?»
«Oh, good!»
«No good, no good. La bambola la prendo, ma prima mi dica dove si trova Le pensionnat!»
L’indiano sorrise di nuovo. Adolfo trovò che quei capelli verdi facessero a pugni con la sua carnagione olivastra e spenta. In qualche modo, però, capì. Tornò alla sua postazione, prese ad armeggiare con un vecchio portatile e infine, voltandolo nella sua direzione, parlò.
«C’est ici.»
Adolfo si avvicinò. Lo schermo gli mostrava una mappa satellitare di Parigi, di un quartiere che intuiva essere lontano da Pigalle. Di fianco alla mappa, una fotografia di un portone su cui un’insegna in stile Art Nouveau diceva: “Le pensionnat des épices”.
«Come ci arrivo?»
«You buy» rispose quello.
«Le ho già detto che la compro la bambola.»
«Taxi.»
«Preferisco camminare o prendere i mezzi: i tassisti sono dei ladri.»
Non ne faceva una questione di soldi, ma di giudizio: preferiva regalare quei cinquanta euro a un’altra spogliarellista.
L’uomo rigirò il portatile verso di lui, stampò un paio di fogli e ci scarabocchiò sopra con un pennarello verde. Era evidentemente il suo colore. Adolfo si rese conto che erano delle indicazioni per le linee della metro, vari cambi e nomi di fermate cerchiati più volte: la meta finale era Rue Daguerre, a Montparnasse, ovvero dall’altra parte della Senna.
«Sicuro di non mandarmi chissà dove?»
«It’s good. Now, you buy.»
Adolfo infilò i fogli nel giornalino, poi tornò indietro, si mise la bambola sottobraccio come una baguette e pagò. L’indiano gli spillò il triplo di ciò che valeva, ma lui non ci fece caso. Era galvanizzato dalla scoperta dell’esistenza di Madame Legrand.
«Adieu, monsieur!» gli gridò quello dall’interno, «Amuses-toi bien! Fuck, fuck!»
Adolfo si girò giusto in tempo per vedergli fare un gestaccio con le mani che aveva a che fare con la bambola e i suoi orifizi di vinile.
Se mi avessero detto che per essere felice mi bastava una bambola e una mappa, avrei evitato di sicuro il matrimonio, pensava, mentre attraversava Place Blanche, la piazza in cui si trovava il Moulin Rouge, osservato da tutti. Una ragazza lo avvicinò persino, dividendo un pezzo di strada con lui, senza dirgli niente, semplicemente giudicandolo con un’espressione disgustata sul viso. Ad Adolfo sembrò di vedere sua figlia, così dopo un centinaio di metri si fermò, e insieme a lui si fermò anche la ragazza. Le tirò la bambola in testa, voleva che se ne andasse, che razza di modi hanno questi francesi e poi dicono di essere i più emancipati d’Europa, non l’ho mica rubata, e infine le urlò YEAH GOOD! FUCK, FUCK!
La ragazza spalancò la bocca – comunque meno della bambola – poi corse via.
Quando arrivò al suo motel, il portiere si lasciò scappare una risatina. Adolfo salì in camera, depose la bambola sul letto e valutò il da farsi. Già che ci sono, potrei.
Decise di farsi una doccia – guardandosi allo specchio constatò che era brutto come sempre, nonostante avesse ancora i capelli e due occhi verdi non male – e poi tornò in camera da letto.
Si mise di sopra, poi di sotto, provò a voltarla e vi si sedette, la prese per la faccia, ma la bocca era proprio troppo grande per le sue dimensioni, allora la piegò a metà come un libro, la schiacciò contro il muro e decise che le chiappe potevano andare benissimo.
Ebbe la sua soddisfazione. Non si era mossa, non aveva parlato, non si era lamentata. Tanto bastava per farlo sentire uomo e dargli l’illusione di valere qualcosa davanti a un oggetto inanimato che non fosse sua moglie.
Nel letto, con la bambola di fianco a lui, parlò ad alta voce.
«Lo sai che sono un morto che cammina?»
Silenzio.
«Me lo diceva sempre anche mia moglie, sai?» continuò, «Sei un morto, sei proprio un morto! Ma io dico, non si poteva vivere una vita tranquilla? Senza frenesia? L’ha detto talmente tante volte che, alla fine, è diventato vero.»
Ancora silenzio.
«Spero che Madame Legrand sia più gentile con me.»
La mattina dopo la trovò sgonfia e molliccia, un budello di plastica da quattro soldi pagato come una vera prostituta, forse anche qualcosa in più. Adolfo non ne fu rattristato però, aveva una missione quel giorno: incontrare Madame Legrand.
Si mise in metro, direzione Montparnasse, che erano appena le dieci. Sbagliò linea due volte, prima prese la 13, poi tornò indietro e prese la 2 e infine la 6, tant’è che arrivò a destinazione che era mezzogiorno.
Si rese conto subito che quel quartiere era molto diverso da Pigalle: ristoranti raffinati – niente nomi che rimandassero a pompini o a tette miracolose – negozi di classe, qualche patio fiorito e tante persone in bici. Si fermò ogni cinquanta metri a controllare la mappa dell’indiano, chiese anche a qualche passante se stesse andando nella giusta direzione, infine arrivò davanti al fatidico portone. L’insegna in volute d’ottone annerito diceva proprio: “Le pensionnat des épices”.
Adolfo batté le mani, estasiato. L’ho trovata, l’ho trovata!
Voleva lei, Madame Legrand, l’aveva sempre voluta, e finalmente suonò al suo campanello. Non rispose nessuno. Provò a risuonare. Niente. Si disse che forse era rotto, così bussò con una mano. Nessuna replica. Provò con un paio di pugni, infine urlò Madame Legrand! Madame Legrand! finché una vecchia non si affacciò a una finestra del quarto piano.
Il portone si aprì. Adolfo si catapultò dentro. Il palazzo era maestoso, uno di quelli con la corte interna piena di piante e alberi e un ascensore in ferro che come minimo aveva ospitato Toulouse-Lautrec o Modigliani o Verlaine. Andava ancora a monete, ma lui non le aveva, così dovette farsi i quattro piani a piedi. Giunse al pianerottolo senza fiato, un po’ sudato. La vecchia, una donnina dai capelli candidi e senza denti, si fece trovare all’uscio di uno degli appartamenti gemelli del piano.
«Bonjour!» trillò, con la bocca molle, tanto che invece di un bel bonjour tondo e sonoro le uscì piuttosto un benjè bavoso.
Adolfo cominciò a balbettare. Non gli rimase altro che mostrare alla vecchia il suo giornalino. La donna s’infilò degli occhiali spessi, si portò la pagina a dieci centimetri dal naso e poi sollevò le mani.
«C’est là, c’est là!» gridò, telà telà, indicando con un dito rattrappito l’appartamento di fronte al suo.
«Si trova lì Madame Legrand?» chiese Adolfo.
La vecchia fece sì con la testa, poi allargò le braccia intorno al corpo, come a simulare un cerchio o un barile. Qualcosa di grosso insomma. Adolfo non capì, ma quando mai aveva capito qualcosa? Ringraziò, la salutò e suonò al giusto campanello. Immediatamente comparve un uomo alto, truccato e vestito da donna, con un paio di tacchi vertiginosi. Si ritrovò con il collo piegato all’indietro. La vecchia intanto sbirciava la scena nascondendosi goffamente dietro la sua porta.
«Mot de passe» tuonò l’uomo.
Adolfo tacque. L’altro gli sbatté la porta in faccia. La vecchia sogghignò. Non si scoraggiò e suonò di nuovo il campanello. L’uomo ricomparve.
«Mot de passe.»
«Non comprendo il francese.»
La porta si richiuse.
Adolfo si sedette sulle scale di marmo. Mot de passe, mot de passe, che diavolo vorrà dire? Se solo non avessi buttato il cellulare nella Senna!
La vecchia si affacciò dal suo uscio.
«Les fesses!» sussurrò, ma non lo pronunciò bene, senza denti com’era, così le uscì un lesess.
Adolfo scattò in piedi. «Lesess?»
«Les fesses, les fesses», lesess, lesess.
«Il sesso?»
La vecchia sbuffò, facendo volare qualche gocciolina di saliva.
«Les fesses!» e ripetuto ancora una volta lesess, si voltò e si diede una pacca sulle natiche.
Adolfo aggrottò le sopracciglia. Non aveva capito niente. La vecchia gli fece segno di suonare di nuovo al campanello di fronte, così lui obbedì. L’uomo ricomparve.
«J’ai dit MOT DE PASSE.»
Adolfo allungò un braccio e gli piazzò uno schiaffo sul gluteo tanto forte da risuonare nella tromba delle scale. La vecchia scoppiò a ridere, poi si portò una manina alla bocca. L’uomo rimase allibito per qualche secondo.
«Per l’amore del cielo, sono un morto che cammina!» esclamò, «Abbiate pietà!»
In risposta ricevette una manata sulla fronte. La porta si richiuse.
Dannato indiano dai capelli verdi! Lo sapevo di non dovermi fidare!
La vecchia, impietosita dall’espressione mogia di Adolfo, rientrò in casa per poi ricomparire qualche minuto dopo con un fogliettino. Glielo porse: sopra c’era scritto les fesses, con il disegno di due natiche che sembravano un cuore. Si toccò di nuovo di dietro e continuò a ripetere lesess, mot de passe, lesess, mot de passe. Adolfo finalmente capì che ciò che voleva l’uomo era una parola d’ordine e la parola d’ordine era “les fesses”, ovvero “culo” in francese.
Ravvivato il suo entusiasmo, suonò al campanello per l’ennesima volta.
«MOT DE PASSE!»
«LES FESSES!»
L’uomo si scostò e lo fece entrare.


To be continued…

Ad accompagnare: Henri de Toulouse-Lautrec, Ballo al Moulin Rouge, 1889-90. Olio su tela, 115 × 150 cm. Philadelfia, Museum of Art.