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La seconda persona

Autore
Emanuele Lucci
A scelta dello Chef
Narrativa generale
28 aprile 2022

Non ho ben capito a casa di chi sono ospite.
“Di ‘sto cazzo” mi risponderebbero, se osassi chiedere, per cui mi limito a guardarmi attorno con preoccupata serenità.
L’età media apparente è di circa venticinque anni, ma qui nessuno ha realmente venticinque anni. A falsare la statistica è un ristretto manipolo di over trenta, compagni di chi ha finalmente trovato una persona più matura dei propri coetanei. Insomma, è esattamente la festa post-liceo che mi aspettavo. L’aranciata convive con gli alcolici sul tavolo del buffet. La musica passa dall’elettronica alle sigle dei cartoni animati. Le coppie si appartano, i single si accoppiano, i single veri fanno testuggine.
E poi ci sono io.
Lontano dalla mia zona di comfort – che si trova a ridosso delle pareti e in prossimità degli angoli – attendo che l’unica persona con cui ho confidenza torni da me. Sta parlando con i suoi amici, che ingenuamente provano a includermi nel loro gruppo:
«Hai una faccia conosciuta, ci siamo già visti?»
«Boh, non sono bravo a ricordare le facce.»
«Stavi al classico?»
«No, scientifico.»

Individuare il momento esatto della fine degli argomenti di conversazione è la mia specialità. A volte lo prevedo anche con tre o quattro battute di anticipo. Un talento sprecato visto che poi nel vicolo cieco ci finisco comunque. Faccio un passo indietro per non imporre la mia presenza.
A un occhio inesperto potrei apparire immobile, qui al centro della sala. Rilassato, perfino. Se sto facendo bene il mio lavoro è grazie ai micromovimenti, quelle minime azioni quasi impercettibili che in condizioni ideali il corpo esegue in automatico, e che possono fare la differenza tra un vivo e un cadavere. Il problema è che quando sono in pubblico il mio cervello ripete a ciclo continuo una diagnostica di sistema, acquisisco piena coscienza di ogni muscolo, l’autopilota non funziona. Ogni arto non supervisionato assume pose inaccettabili. Inizia la danza del disagio.
Nascondo le mani in tasca per non dovermene occupare. Batto un piede a tempo con le Spice Girls. Fischietto anche il ritornello per dimostrare che conosco la canzone. Una ragazza incrocia il mio sguardo: capelli rossi e sufficiente autostima da aver occupato il divano. Mi volto dall’altra parte. Ho esagerato.

“Ecco, bravo! Ora quella ti ha visto da solo in mezzo alla festa che fischiettavi con le mani in tasca!”

La voce nella mia testa si rivolge a me in seconda persona, forse perché la prima è lei.
Estraggo una mano dalla tasca. Mi gratto la barba che non ho. Estraggo l’altra mano e faccio il gesto di scrocchiarmi le dita senza riuscirci, ché non sono capace. Mantengo la posa per qualche secondo, poi ripongo entrambe le mani in tasca. Sfioro il cellulare: la via di fuga facile, categoricamente vietato se non in casi di estrema emergenza.

“Senti, facciamo così: vai al buffet e prendi un bicchiere, almeno hai qualcosa da reggere e una mano la risolviamo.”

Come un pilota di robottoni negli anime giapponesi al suo primo giorno di lavoro, manovro goffamente il mio corpo fino al tavolo delle bevande. Ogni singola funzione va monitorata, neanche il respiro lavora in autonomia.

“Il Chinotto è chiuso e non puoi metterti ad aprire bottiglie nuove. Vai di Coca-Cola.”

Ci provo, ma una ragazza afferra la bottiglia prima di me.
«Vuoi?»
«No, grazie!» rispondo senza guardarla negli occhi.
La ragazza si serve e sparisce in un mare di volti che – come il suo – non memorizzo.

“Attento, non puoi più prendere la Coca-Cola o tutti vedranno che l’hai rifiutata dalla ragazza e poi te la sei versata da solo. Prendi la birra.”

Mano sinistra in tasca, bicchiere di birra nella destra, mi sento già più al sicuro. Bevo un sorso con soddisfazione. Mi fa schifo la birra.

“Vedi? Il bicchiere ti permette di tenere una mano in tasca senza sembrare strano.”

Bere mi garantisce una certa autonomia ma non basta. Devo inventarmi qualcos’altro.

“Proviamo così: attraversa la sala lentamente, come se stessi cercando qualcuno.”

Mi allontano dal buffet. Più mi impegno a camminare in modo naturale, più mi sento storto.

“Vedi? Funziona. Non esagerare con lo sguardo però, non deve sembrare una ricerca troppo importante. È più tipo: se lo trovo ben venga, sennò non fa niente.”

Raggiungo il lato opposto della sala, dove mi fingo interessato all’impianto audio. A pochi centimetri dalla cassa c’è un variegato gruppetto di persone. Potrebbero spostarsi un po’ più in là, ma preferiscono sovrastare la musica urlando.
«SCOMMETTIAMO? GUARDA…» un ragazzo si volta e sceglie me. «…SECONDO TE XXXXX XXX XXXX DELLA CHAMPIONS?»
Il fatto che abbia capito la metà delle parole è l’ultimo dei problemi. Sento la mano stringersi attorno al bicchiere di plastica, la fermo appena in tempo per non schiacciarlo. Quando ho addosso l’attenzione di troppe persone – ovvero più di due – il mio sistema di puntamento visivo va in tilt. Gli occhi saettano da un dettaglio all’altro senza registrare nulla, premurandosi solo di evitare gli sguardi altrui. Forse è uno dei motivi per cui non memorizzo le facce della gente.
«Non seguo tantissimo il cal—»
«EH?»
«NON SEGUO IL CALCIO.»
«AH… FAI BENE, SOFFRI DI MENO!»
Ridacchio. Sinistra in tasca. Bevo un sorso. Sinistra fuori dalla tasca. Fine degli argomenti.
Per mia fortuna il ragazzo del calcio viene soccorso da una sua amica, che con una scusa lo trae in salvo nel gruppo.

“Vabbè dai, vedi? Se la gente ti ha visto mentre parlavi con loro ora puoi anche passare un po’ di tempo da solo senza destare sospetti.”

Incrocio per errore lo sguardo di una ragazza. Temo sia la stessa che dal divano mi aveva visto fischiettare.

“E no però! Così sembra che stai tutto il tempo a guardarla! Se poi si sparge la voce che alla festa c’è un tizio strano che sta da solo e fissa le ragazze?”

Bevo un sorso. Inizio a sentirmi stanco. Vorrei fuggire altrove. La voce se ne accorge e mi propone scenari fantasy.

“Pensa che bello se ad esempio esci per prendere una boccata d’aria, poi esce anche lei, chiacchierate, ti dice che non le piace tanto questa festa…”

La birra finisce. Ho bisogno di una pausa, prendo il telefono e scorro a caso tra le app. Non ho il coraggio di alzare gli occhi, so che ogni risata in sala è rivolta a me. Si è già sparsa la voce? Sono già diventato il mostro che fissa la gente? Sto sudando. Cosa mi è saltato in mente di allontanarmi dal mio amico? Non sono autosufficiente.

“Ecco il piano: ora metti il cellulare in tasca, conti fino a dieci e poi lo riprendi con aria scocciata.”

Non mi pare il momento di mettersi a discutere. Cellulare in tasca.

“…otto…nove…dieci!”

Cellulare in mano destra, aria scocciata.

“Bravo. Mi raccomando adesso, non devi sbagliare. Fai finta che ti stiano chiamando ma non c’è campo, quindi esci in balcone per rispondere.”

Ok, andiamo in scena. Espressione del “non c’è campo”, poi via verso il balcone, testa bassa e piedi veloci. Un’infinità di sguardi mi percuote mentre mi impegno a seguire la linea dritta del parquet. Raggiungo l’uscita in apnea. Un volto anonimo tiene aperta la finestra per lasciarmi passare. Provo a sputargli addosso un “grazie” ma per mancanza di fiato non mi si stacca dalla lingua.
Sono fuori, la finestra viene richiusa. Mi poggio alla ringhiera del balcone e respiro, mentre le orecchie si abituano al silenzio. Sono solo, sono salvo.

“Vedi?… uff…” – se io ho il fiato corto anche la voce nella mia testa ha il fiato corto – “ se iniziassi a fumare potresti uscire quando vuoi e chiedere l’accendino a qualcuno, sarebbe una scusa per attaccare bottone.”

Bevo dal bicchiere vuoto. Il battito cardiaco torna alla sua normale frequenza, le nuvolette di fiato nell’aria fredda si fanno man mano più rarefatte. Ne emetto una più lunga delle altre, per sentirmi un po’ fumatore.

“Vedi? Ora te ne rimani qui per un po’, dentro si dimenticano di te, la situazione si resetta e poi puoi anche ricominciare le tue azioni da capo… e comunque pensa che bello se davvero adesso esce in balcone anche lei e ti parla!”

Ho smesso di credere agli scenari fantasy, ma guardo comunque verso la finestra per sicurezza. Rimane chiusa. Controllo l’ora sul cellulare: le 21.54.

“Ok, aspetta fino a e cinquantanove e poi torni dentro.”

Resto immobile. Davvero, niente micromovimenti. Ho un brivido, inizia a fare freddino. Si apre la porta. Esce lei. Ha una sigaretta spenta in bocca, si fruga nella borsetta.
«Hai da accendere?»
Sinistra fuori dalla tasca. Braccio disteso. Sinistra in tasca. Bevo dal bicchiere vuoto. Ho il mal di testa in pancia.
«Mi spiace, non fumo.»
«Fai bene…» – continua a frugare – «ma ti ho già visto da qualche parte?»
«Andavo allo scientifico»  mi sforzo di guardarla negli occhi, lei non ricambia.
«Io al classico. Magari ti confondo con qualcun altro eh, sto già alla terza!» Solleva il suo bicchiere di birra. Sollevo il mio.
«Eh, non sono tanto bravo a riconoscere le facce!»
«Neanche io mi sa!»
Fine degli argomenti.
Dal vicolo cieco non si esce, lo so per esperienza, ma stavolta ce la metto tutta per pensare a qualcosa da dire. Sono convinto che qualsiasi cosa andrebbe bene, eppure tutto ciò che ho in mente suona più stupido di “qualsiasi cosa”.
«Vabè… io entro a cercare un accendino, se sei ancora qui ci vediamo dopo, ok?»
«Ok!»
Di nuovo solo.

“Vedi?”

Vedo. Controllo lo schermo del telefono, sono le 21.58, ho ancora un minuto.

“Comunque meglio qui alla festa che chiuso in camera tua, no? Poi che ne sai, magari tra poco lei torna fuori con l’accendino e—”

Smetto di ascoltare. O forse è la voce che smette di parlare, non lo so. Ne approfitto per prendermi una pausa, almeno in questo minuto posso non pensare a cosa accadrà nel prossimo. Un gruppetto di persone esce in balcone e io mi sposto di lato. Incrocio uno sguardo senza farmi troppi problemi, tanto sono in pausa. Il ragazzo ricambia un sorriso che non mi ero accorto di avergli fatto. Sanno che sono qui, che occupo spazio. Posso stare.

“22:07, che dobbiamo fare?”

Mi stacco dalla ringhiera e subito qualcuno prende il mio posto. Penso che per prima cosa andrò al buffet, la birra mi ha fatto meno schifo di quanto ricordassi. Poi controllo se nel frattempo il mio amico si è liberato. Poi—

“22:08”

Ok. Prendo fiato, apro la porta e torno in scena.


Illustrazione di Emanuele Lucci