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Insonnia a primavera

Autore
Marco Corvaia
A scelta dello Chef
Narrativa Generale
8 aprile 2022

Un pianoforte precipita in un dirupo, una barca fiammeggia in un lago, una macchina da scrivere viene distrutta a martellate. Scene sullo schermo che illumina il viso di Zoe. Crede quasi di percepire il crepitio delle pupille e le iridi diventare rosse talmente le bruciano. Chiude gli occhi e li sfrega con le nocche, poi con i palmi, creando ragnatele di fosfeni.
Concede una tregua alla TV ed emerge dal divano. Si apposta alla finestra, per invidiare la quiete all’asfalto, al cemento, ai cavi elettrici. Non si sente nulla, e nel palazzo di fronte non c’è neanche un bagliore. Tutto riposa, tranne Zoe. Finché compare un’ombra che s’ingrossa sulla strada, seguita dal suono di passi. È il vecchio barbone. Le fa un cenno di saluto e si rifugia sotto i portici, dove dorme di solito. Anche lei vorrebbe dormire.
Si distende sul letto e ci prova, ma resta a fissare il soffitto, su cui la luce di un lampione, attraversando persiana e tenda, disegna figure simili a lupi, gabbiani, cavatappi, grappoli d’uva e altro. L’insonnia è smarrirsi in un vuoto sostanziale, pensa, meccanismi che s’inceppano, consuetudini che deragliano.
Rinuncia. Spreme delle arance, le filtra con un colino, ne versa il succo in un bicchiere highball pieno di ghiaccio e aggiunge vodka liscia. Fa qualche sorso. Altra vodka. E torna di vedetta alla finestra. Tutto è fermo, tranne Zoe. Beve, rimpiangendo la scorta di hashish; l’unico rimedio efficace per la sua crisi del sonno.
Si sposta sul divano e riattiva la storia episodica. Esplosioni improvvise, monumenti rasi al suolo, bambini che si disperano e altro si sussegue senza suscitare in lei alcuna reazione.

Dopo il terzo screwdriver lascia i titoli di coda ai cuscini, mentre albeggia. Non ha capito granché di quello che ha visto, ma non le importa. Entra in bagno e apre il rubinetto della vasca. Non le va di ingannare il proprio umore, così sceglie un sottofondo musicale malinconico. Si spoglia come se facesse la muta, aggroviglia la chioma in uno chignon sbilenco e affonda nella schiuma.
Si accarezza il collo, le spalle, il seno; pizzica i capezzoli, li rende turgidi, affiorano fra le bolle di sapone; con le dita scende sul ventre, lungo i fianchi, fino alle cosce tatuate; immagina due sconosciuti che la assediano con passione, allarga le gambe, si morde le labbra; muove le mani come uno strumento di piacere, inebriandosi di violini e gelsomino. Ma l’orgasmo non arriva, l’acqua si raffredda, e Zoe si arrende.

Prepara del caffè d’orzo, cuoce un’omelette al formaggio, affetta un paio di fragole per insaporire lo yogurt bianco e si taglia un polpastrello. Lascia gocciolare il sangue nel lavello, scrutandolo con delusione. È così ordinario, rimugina, così noioso. Fa la coda ai capelli e porta il cibo a tavola.
Osserva la colazione, senza appetito. Versando il caffè nella tazzina vede il proprio riflesso sulla caffettiera. Nota una linea che va dallo zigomo alla tempia: è di sangue. E si rende conto di avere firmato con impronte digitali rosse tutto quello che ha toccato; oggetti che ha acquistato, ma che non sente suoi, neppure ora che hanno il suo marchio.
Lentamente i gomiti le scivolano in avanti lungo il tavolo, la schiena s’incurva, spiaccica la faccia tra i piatti e tenta di addormentarsi. Sa che dovrebbe cercare un nuovo lavoro, gli arretrati da pagare si stanno accumulando, ma non dorme da un mese, non riuscirebbe a rispettare nessun tipo di impegno. Può solo aspettare che finisca la primavera, che non le permette di spegnersi da quando ha dodici anni. E non lo fa neanche stavolta; le palpebre non rimangono chiuse. L’insonnia è un pensiero circolare, considera, un’opportunità utopistica, una polemica biologica.
Rinuncia di nuovo. Incerotta il dito, camuffa il pallore con la cosmesi, prende quello che le serve ed esce di casa.

Il vecchio barbone non è sotto i portici, né ci sono le sue cose.
Zoe s’informa sulla sua assenza nel bar vicino, reggendo i tre contenitori di plastica in cui ha messo la colazione. Nessuno ne sa niente, ma trovano insolito che non ci sia, di mattina non si allontana mai da lì.
Finché non esco di casa, riflette lei.
«Potrebbe essere in ospedale» dice un obeso che sta facendo soffrire una sedia.
«Perché?»
«La povertà nuoce alla salute.»
«E tu di problemi di salute te ne intendi, non è vero?»
«Non te la prendere, era solo un’ipotesi.»
Non sei in grado di fare ipotesi su mio nonno, vorrebbe rispondergli, nessuno lo è. Invece abbandona i contenitori su un tavolino e se ne va senza dire niente, per non perdere altro tempo in una conversazione inutile.

Zaino in spalla, occhiali da sole e bracciali che tintinnano. Scorre sul viale con i rollerblade, ignorando gli sguardi sulle sue tette a campana, che ondeggiano ritmicamente. Frena per fotografare una panchina ricoperta di bestemmie, con la macchina polaroid; è la sua migliore amica, la confidente di ogni emozione. Scuote la foto finché l’immagine nel riquadro diventa nitida.
Chiede del barbone alla bocciofila, nella sala da biliardo, ai pensionati che si sfidano a carte nella villetta pubblica. Tutti sembrano volergli bene. Dicono che non è un senzatetto come gli altri: non puzza, non elemosina, non si ubriaca ed è sempre di buonumore. Lo chiamano Nonno Sorriso. Ma non capiscono perché non vuole mai giocare con loro; non sanno quanto si diverte a vederli comportarsi come dei bambini.
Fotografa un signore che passeggia in pigiama e pantofole e pattina via. Fotografa dei ragazzini che lanciano petardi da un balcone e pattina via. Certi momenti la sonnolenza la fa barcollare, non le dispiacerebbe appisolarsi da qualche parte, prima però vuole ritrovare suo nonno; ne avverte la necessità.
Entra nella bettola in cui trascorre quasi tutte le serate. Il garzone sta lavando il pavimento.
«Vodka liscia» dice alla signora che sbadiglia dietro il bancone.
«Ma non è presto per quella?»
«Presto, tardi… punti di vista. Dammi la vodka.»
«Come ti pare» e gliene serve un bicchiere.
Zoe si volta verso l’uscita e inizia a bere. Spera di vedere passare il barbone, oppure il pusher della zona, per rimediare il fumo.
«Non noti niente di nuovo?» le chiede la signora, giocherellando con una ciocca della parrucca color senape che indossa.
Zoe la guarda di sbieco, con una smorfia di sdegno. Poi torna a sorvegliare il vicolo.
«Antipatica come tutti gli Scorpione» bofonchia rivolgendosi al marito, appena rientrato dal magazzino.
«Sto cercando il nonno, è sparito» dice a entrambi.
«Controlla in un cimitero degli elefanti, magari è là» le risponde lei ancora stizzita.
«Che vuoi dire?»
«Ultimamente non sorride più.»
«Quando la smetterai di citare robe africane a casaccio? Ci sei stata mezza volta e non ne hai capito niente. Quel posto non esiste, è solo una leggenda» e le scaglia il bicchiere addosso, mancandola.
«Ehi, fatti una canna di camomilla, era tanto per dire.»
«Già, tutto quello che dici è tanto per dire. Sei più ridicola di quella parrucca.»
«Adesso basta! Vattene via» le intima lui. «Sei una disadattata, farai la stessa fine di quel fallito.»
«Mia madre è un’idiota e mio padre è uno stronzo. Sono la pessima figlia che vi meritate.»

Pattina verso il piccolo bosco in periferia, lontano dall’ennesima lite famigliare. Si accosta alla recinzione di una villa d’epoca, nella quale scorge un roseto. Estrae la polaroid, inquadra il soggetto e un ricordo ha il sopravvento: suo nonno si taglia il palmo della mano con un coltello, dallo squarcio spunta una rosa bianca, che le porge come un dono, e lei la coglie. Rimette la macchina fotografica nello zaino e riparte.
Sul terriccio non può pattinare. Procede scalza tra i faggi, come un’osservatrice discreta, o un’infiltrata in un mondo ignoto, o un’investigatrice che deve risolvere un caso. Non sa se queste impressioni sono causate dall’insonnia, che a volte fa lo sgambetto al suo raziocinio; rialzarsi non è semplice, anche se la caduta le sembra cosa da poco.
Supera il cespuglio dei preservativi usati, la raccolta di riviste porno nello scheletro di un’automobile e avvista una colonna di fumo. Accelera il passo in direzione del luogo preferito di suo nonno: uno spiazzo verdeggiante attraversato da un ruscello.
Si apre un varco tra le piante e lo intravede seduto sul prato, nudo, accanto a un fuoco che si estingue. Sta per raggiungerlo, ma s’immobilizza appena quello si conficca una lama nella gamba. E rimane a spiarlo, atterrita, mentre la incide per lungo fino al piede, divarica il taglio e ne escono libellule, farfalle e una felce rigogliosa; poi fa lo stesso all’altra gamba, liberando api, gerani e primule.
«Non fare la guardona, vieni fuori da là» le dice in modo scherzoso.
E con passo incerto Zoe sbuca da un groviglio di rami e foglie. Lui ha le caviglie legate a dei paletti conficcati nel terreno. Ci sono altri pezzi di corda, altri paletti e un mazzolo. Nella brace riconosce brandelli anneriti del suo sacco a pelo, dei suoi vestiti e del resto.
«Che cosa stai facendo?»
«Tranquilla, lo sai che non sento il dolore. Ti stavo aspettando.»
«Che cazzo stai facendo?» ripete con tono stridulo.
«Zoe, sono soddisfatto della libertà e delle gioie che ho avuto, ma ormai mi sento sradicato.»
«Perché? Cosa c’è che non va?»
«Sono troppo stanco, non mi diverto più.»
«Stanco? Potresti smetterla di vivere per strada e stare da me, o andare in un posto migliore, più adatto a quello che sei. Potremmo partire insieme, oggi stesso se vuoi.»
«No, mi piace questa città, è qui che deve accadere.»
«Potremmo ritornare nel paesino in cui sei nato. Non hai nostalgia della tua terra?»
«Nessuna terra può essere mia, sono io ad appartenerle.»
«Smettila di parlare così. Non puoi lasciarmi sola. Quei due sono degli estranei per me, come tutti quanti, e non c’è niente che funzioni, niente che abbia davvero senso, mi sembra di interpretare un ruolo di cui ho dimenticato le battute. Non so spiegarlo meglio, non capisco niente nemmeno di me stessa. Perché in questa stagione non riesco a dormire? E perché in inverno non riesco a stare sveglia?»
«Avrai le risposte che cerchi, come le ho avute io.»
«Non sono come te, dentro non ho niente di bello.»
«Ti sbagli, c’è bellezza in te, per questo mi aiuterai a non invecchiare oltre. Restituiscimi alla natura, per favore» e indica gli attrezzi.
«La mia vita è già uno schifo, non chiedermi di farlo… non posso.»
«Sai che non è niente di tragico. È solo trasformazione.»
«Ma mi mancherai. Non costringermi a sentire la tua mancanza.»
«Io sarò sempre con te» e sorridendo si sdraia, in attesa di fare parte del paesaggio.

Zoe pattina sotto il cielo d’aprile, più veloce che può, con il viso bagnato di lacrime.
Rientra in casa, scalcia le rotelle dai piedi e si prepara un cocktail; le tremano le mani, ne rovescia la metà. Non vuole farsi assalire dall’angoscia, sarebbe egoista, sa che è stato giusto rassegnarsi al suo desiderio. Per calmarsi guarda le foto del meraviglioso giardino che è diventato suo nonno, ma tra le azalee, le camelie e gli scarabei si fa largo un altro ricordo.
«Ti va di vedere casa mia?» gli ha chiesto un giorno, sotto i portici.
«È una scatola di mattoni e calce, non è casa tua».
E scaraventa il bicchiere contro la lampada, fracassa la vetrina a calci, strappa la tenda, pugnala il divano, sfascia la TV, ribalta il tavolo. Distrugge tutto, esaurendo le ultime energie.
Accasciata sul pavimento e con il fiatone, tenta di avere la mano ferma per fotografare il soggiorno che ha demolito. Si accorge di un graffio sul polso, che si è procurata nella furia. Ne esce fuori una coccinella. L’insonnia è l’effetto di un’eredità, pensa, è la mia lingua madre, la mia madrepatria. E sorride.