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Stay-down comedy

Autore
Iago Menichetti
Ciclo #10 - Spaghetti volanti pazzi
Narrativa generale
14 aprile 2022

«Poi vedo la sua faccia delusa davanti al mio minuscolo pistone e le faccio: non contano le dimensioni ma che olio usi per lubrificarlo!»
Il Venerus era il migliore locale del distretto per la stand-up comedy. Solo per quello. Per il resto si trattava di un pub ricavato nel seminterrato di un alveare abitativo popolare, con pochi tavoli all’interno, nessun regolare filtro per l’ossigeno e un bancone unto in legno sintetico dove uno degli ultimi baristi umani serviva birra venduta a un prezzo troppo alto. Infine c’era un palchetto con microfono annesso, sul quale ogni sera una manciata di comici si esibiva davanti a un pubblico composto da operai del terzo anello reduci da un turno di dodici ore, alcolisti impenitenti, studenti delle università del secondo anello che scendevano nei sobborghi per risparmiare e artisti falliti, che non avevano problemi a confondersi in ognuna delle precedenti categorie.
«Alle volte mi sento così solo che faccio l’aggiornamento di sistema nella speranza che la nuova versione possa conoscere qualcuno.»
Non stava andando bene a M3-M3. Gli standupper sostenevano che la performance si gioca tutta all’inizio: se riesci a conquistare il pubblico nel primo minuto è fatta. È come con le donne, gli disse una sera un comico che non si levava gli occhiali da sole nemmeno a notte fonda: decidono di scoparti entro i primi due o tre scambi di battute. Se fai  subito colpo, il gioco è fatto!
M3-M3 fece fatica a valutare la veridicità dell’affermazione. In quanto robot da compagnia, non aveva mai corteggiato una donna.
«Fare il robot da compagnia non è stressante. Lo dice il modello M2-M2, rottamato ancora prima di finire il rodaggio.»
Tre minuti e nemmeno una risata. Dai tavoli solo sguardi perplessi, un poco annebbiati dall’alcol, sicuramente annoiati.
M3-M3 scorreva in memoria tutta la serie di punchline che aveva preparato ma il presentatore, un modello industriale di robot intrattenitore con l’unica personalizzazione di un papillon con i fenicotteri fissato al collo, arrivò per levargli il microfono e passare all’esibizione successiva. M3-M3 abbassò i visori oblunghi a terra: era la ventesima serata consecutiva senza risate, da quando aveva cominciato a esibirsi. Forse si trattava di un record negativo. Voleva controllare negli annali digitali ma la connessione precaria del Venerus non lo consentiva. Si era preparato bene per lo show: aveva registrato e analizzato, frame dopo frame, gli spettacoli più applauditi, individuato le categorie di battute più ricorrenti – perlopiù aneddoti su performance sessuali scadenti, turbe, disagi o resoconti di vessazioni lavorative – preparato varianti di monologo per accontentare varie tipologie di pubblico, diversificate per estrazione sociale, etnia e genere. Per ogni variante aveva poi individuato la vocalizzazione migliore, la meno robotica e la più confortevole possibile per un orecchio umano, elaborando qualche centinaio di tracce diverse, scelte tra gli archivi online. Eppure non era servito a niente.
Decise di catalogare in memoria quell’esperienza alla voce “fallimento”.
Scese i pochi scalini del palco. Stando attento a non disturbare lo spettacolo, scansò gli avventori che avevano ripreso a dare segni di vita già alla prima freddura del tizio sul palco. Uno di loro lo urtò per sbaglio, rovesciandogli la birra addosso. Per fortuna i suoi impianti erano impermeabili: regalo del vecchio padrone. Non si scompose, proseguì per la sua strada mentre piccoli tergicristalli gli pulivano i visori.
«Aspetta!»
Il barista da dietro il bancone accorse per asciugarlo con un cencio. M3-M3 lo ringraziò, girò i cingoli e uscì dal locale.
Lo schermo della fermata indicava che, a causa di un malfunzionamento, la corriera avrebbe ripreso le attività la mattina successiva. Ordinaria amministrazione per il terzo anello, dove le notti senza elettricità erano tutto meno che un’eccezione. M3-M3 non si scompose. Non aveva molti programmi per la mattina dopo. Fece ritorno al locale, cercò un posto libero vicino alle buche della spazzatura interrate, proprio accanto a un randagio che riposava beato accoccolato su un cartone e spense i visori, settandosi in modalità stand-by.
«…Allora, dico a te scatoletta, ti serve un passaggio?»
Il barista scuoteva M3-M3 con l’enorme mano destra, coperta sul dorso dal tatuaggio di un dogo.
«Vieni, ho il monopattino qui dietro. Nel portapacchi c’entri preciso.»
M3-M3 sapeva che in questi casi non si doveva replicare. Aveva già catalogato in memoria quella particolare tipologia di azione umana sotto la voce “gentilezza” e il suo vecchio padrone gli aveva insegnato che le gentilezze umane non si commentano, si accettano.
Mise in moto i cingoli e andò dietro alle enormi spalle dell’uomo. Il monopiatto era legato lì vicino. Si trattava di un modello abbastanza recente. Due piazze, batterie a risparmio energetico, quattro marce e possibilità di impostare la guida sportiva. Il barista sollevò senza fatica M3-M3 da terra e lo sistemò nel portapacchi.
«Dove ti porto?»
«Risiedo al KT8.»
Almeno quaranta minuti di tratta. Non proprio vicino.
«Tranquillo, non ho alcuna fretta.»

Lo specchietto del monopattino non rifletteva il traffico che si sarebbe visto di giorno, quando i mezzi si ammassavano l’uno sull’altro, senza nessun rispetto per la segnaletica stradale o le più basilari norme di civiltà. La notte si viaggiava  accompagnati dai neon e dal silenzio, con pochi veicoli, perlopiù solitari, che facevano ritorno a casa o si recavano a lavoro.
M3-M3 osservò il casco nero che copriva la pelata del barista inclinarsi verso l’alto.
«Scatoletta, tu le hai mai viste le stelle?»
Da quando era stato completato anche il primo anello superiore, non era possibile osservare il cielo da quello più basso. I tre anelli della città giravano senza soluzione di continuità l’uno sull’altro, con gli innumerevoli alveari abitativi, in cui stavano assiepati umani e robot, a colmare il panorama. M3-M3 le stelle non le aveva mai viste, in compenso spesso trascorreva le sere a casa a sbirciare, con le sue lenti, le feste negli attici più in vista del primo anello. Tutta quella esibizione di colori sgargianti, luci stroboscopiche, impianti giganteschi, lo incuriosiva. Nella sua memoria l’aveva catalogato alla voce “sfarzo” e il vecchio padrone gli diceva sempre che era una cosa interessante. Il termine aveva una definizione troppo vaga, almeno dai dizionari consultabili, però il padrone sapeva sicuramente cosa intendesse dire.
«Lo prendo come un no.»
Il monopattino virò bruscamente a destra, verso una strada che dava sulla parte più periferica del distretto. Il navigatore di M3-M3 segnalava la direzione sbagliata in ogni possibile tragitto, eppure il robot non se la sentì di farlo presente al barista.
«Vieni, scatoletta, ci facciamo la panoramica!»

Parcheggiarono vicino a una discarica.
«Tranquillo, non ci sono soldi per pagare un sorvegliante e il cancello qui è sempre aperto.»
M3-M3 non era mai stato in una discarica; cumuli e cumuli di carcasse metalliche che si sollevavano da terra per diversi metri, dentro cui riconobbe anche le scocche di alcuni modelli della sua serie, malfunzionanti o abbandonati, ma c’erano anche elettrodomestici, vecchie utilitarie a benzina, schermi e parti dei più disparati robot industriali: operai, camerieri, vigili e pure la testa di un insegnante che ancora ripeteva in loop la tabellina del due.
«Scusa, non ci avevo pensato, per te questo posto deve essere come una specie di cimitero, giusto? Guarda mettiamoci là, c’è uno spiazzo libero.»
Il barista si mise a sedere per terra, con le gambe stese e il casco legato al braccio. Tecnicamente M3-M3 era incapacitato a sedersi, così si limitò a impostare i cingoli in modalità riposo.
«Allora, dimmi un po’, perché ti piace la stand-up comedy? Non se ne vedono tanti di robot che vogliono fare i comici.»
Questa pratica era nota al robot da compagnia, nello specifico l’aveva catalogata alla voce “scambiarsi confidenze”. Il suo precedente padrone aveva impiegato anni per arrivare a farlo con lui, ma M3-M3 sapeva dalle opere audiovisive che aveva analizzato in questi anni che diverse persone ci riuscivano più in fretta, mentre altre erano proprio incapaci di farlo.
«Mi fa schifo la stand-up comedy.»
Rispose di getto. Il concetto di schifo era stato uno dei primi in cui si era imbattuto stando a contatto gli uomini.
Il barista scoppiò a ridere. «Anche a me. Mi sembrano tutti un gruppo di egocentrici che elemosinano qualche risata mettendo in mostra la loro merda. Voglio dire, lo so che facciamo schifo ma non sento questo bisogno di ricordarlo ogni sera. Però il locale paga bene, la capa non è troppo stronza e quando hai il culo di rimediare un lavoro qui al distretto non lo molli… ci si deve accontentare.» Sul suo volto M3-M3 rilevò una specie di smorfia. «Comunque non mi hai risposto: perché lo fai?»
M3-M3 non sapeva se rispondere avrebbe significato mancare di rispetto al suo vecchio padrone. Passò in rassegna il suo archivio alla ricerca di esempi simili, ma non trovò nulla di paragonabile alla situazione in cui si trovava.
Esitò qualche secondo, poi decise di recepire il consiglio del padrone, che lo invitava sempre a lasciarsi andare nelle conversazioni, come un permesso. Riprodusse la traccia sonora.
«Cos’è questa? Sembrano le risate di un vecchio.»
Negli ultimi anni che il padrone trascorse vicino a lui, prima di smettere di funzionare ed esaurirsi, l’uomo passava sempre più tempo davanti alla tomba della donna con cui aveva condiviso ventidue anni di matrimonio. Stava ore a raccontare alla tomba la sua giornata, i suoi pensieri, anche piccole cose, come che aveva sempre più difficoltà ad andare di corpo o le volte in cui confondeva il sale con lo zucchero quando provava a fare le torte. In particolare, si dedicava con passione a raccontare tutti quegli aneddoti o quei fatti che lui riteneva buffi o che la moglie avrebbe potuto trovare divertenti. Quando era in vita, il padrone amava farla ridere, lo definiva il suo migliore vizio e soprattutto a la sera, a cena, difficilmente si alzava da tavola senza che la compagna gli avesse ripetuto frasi come “Quanto sei stupido!” o “La vuoi smettere di fare l’idiota!”.
La donna però ormai si era spenta e non avrebbe certo potuto ascoltare le storie del marito attraverso la tomba. M3-M3 era certo che il padrone lo sapesse, eppure non passava giorno senza che lui si piazzasse lì a raccontare storie divertenti.
Così, temendo che il padrone stesse in realtà affrontando un malfunzionamento cognitivo, M3-M3 gli chiese perché continuasse a comportarsi così.
Come risposta l’uomo scoppiò a ridere. Fu una risata, fragorosa, limpida, bella.
La stessa risata che il robot riprodusse al barista.
Una volta finito di ridere, il padrone rispose: «Gli esseri umani sono questa roba qui, amico mio.»
Poco tempo dopo il padrone morì. Non aveva figli. Nel testamento lasciò scritto che la casa dove avevano abitato in tutti quegli anni sarebbe dovuta restare a M3-M3, che così diventò uno dei pochi robot proprietari di un appartamento del distretto.
M3-M3 non comprese il gesto. Il padrone non gli aveva mai parlato di quella possibilità, l’evento non era stato assolutamente previsto dalle stime che aveva fatto. Così realizzò che la sua conoscenza degli esseri umani era del tutto approssimativa, i dati che aveva raccolto insufficienti e che se avesse voluto comprendere meglio l’umanità sarebbe dovuto partire dalla pratica che il padrone non aveva mai abbandonato fino al compimento della sua vita: la risata.

Al barista piacque la storia. Non lo disse chiaramente, ma l’espressione del viso, comparata ai più consultati manuali di fisiognomica presenti in rete, parlò chiaro.
«Scatoletta, mi sa che non c’hai capito molto di quello che intendeva il tuo capo. Adesso però guarda laggiù.»
M3-M3 puntò le lenti nella direzione indicata. In quell’istante gli anelli superiori ruotarono in modo da lasciare uno spiraglio libero all’orizzonte.
«A quest’ora la rotazione lascia una breve finestra di tempo in cui è possibile osservare il cielo.»
La luce delle stelle illuminò il visore del robot per la prima volta e da dietro una nuvola riuscì anche a scorgere la sagoma della luna.
«È uno dei pochissimi posti del distretto in cui è possibile osservarla. Per questo ogni sera, appena chiuso il bar, vengo qui.»
Non era la stessa luce che M3-M3 vedeva provenire dagli attici degli anelli superiori: era più tenue, soffusa, meno sgargiante. Non sapeva come catalogarla.
«Quelli come me non potranno mai arrivare agli anelli superiori, scatoletta, ma questo non mi impedisce di passare le mie notti quaggiù a osservare il cielo come i riccastri di sopra. Capisci che ti voleva dire il vecchio? È tutto parecchio divertente.»
M3-M3 catalogò in memoria quell’affermazione alla voce “da verificare”, quindi fece presente al barista che in nessuno degli spettacoli di stand-up che aveva analizzato c’era un pezzo relativo alle stelle e alla luna.
«Perché la stand-up fa schifo, ma qualcuno la deve pur fare.»
Il robot registrò la frase nei suoi archivi, quindi avviò una ricerca comparativa.
Concluso il processo, ebbe un’idea.

* * * 

«Perché un robot fa stand-up? Perché la stand-up fa schifo, ma “qualcosa” la deve pur fare.»
Ventunesima serata al Venerus. Ancora nessuna risata.
Stavolta però M3-M3 individuò un sorriso in terza fila. Dati alla mano, il suo miglior risultato di sempre.
Era un inizio.