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La città e i fantasmi

Autore
Federico Mascolo
Ciclo #16 - Lo spaghetto dimezzato
Narrativa generale
28 dicembre 2023

L’aria oltre le finestre è opaca e densa come dentro una nuvola. Un silenzio fermo assorbe i pochi rumori che salgono dalla città. Alla scrivania, accartocciato sotto la luce gialla di una lampadina, sudato marcio, sta un ragazzo. Ha in mano una penna e fissa frustrato un taccuino.
«E così sei tornato senza nulla da raccontare».
A parlare è un ragazzo identico a lui. Gli siede accanto, sembra non soffrire il caldo e ha un viso più pallido. Qualcuno lo definirebbe traslucido.
«Non ho visto nulla che non mi aspettassi di trovare».
«Naturalmente» gongola la copia traslucida, «che ti dicevo io? Impossibile. Non dire che non ti avevo avvisato, è scritto anche lì, guarda. Non lì, la pagina prima. Ecco».
«Ma questo non vuol dire che non mi sia piaciuta».
«Senz’altro, senz’altro. Come immagino ti siano piaciute Barcellona, Genova, Porto… Dove altro siamo stati di recente?».
«Amsterdam».
«Amsterdam, certamente, impossibile dimenticare Amsterdam. Dio ce ne scampi. Devi rassegnarti, caro mio. Viaggi e porti con te aspettative, cliché preconfezionati e la tua città decrepita, e quando vai nel mondo li ritrovi tutti, magari hanno un fetore diverso ma puzzano lo stesso».
Il ragazzo con sangue in corpo china il capo.
«Guarda che non c’è da buttarsi giù, non è colpa tua. È il mondo il problema, il mondo che ci hanno venduto come uno scrigno strabordante di tesori e che invece è un’infinita putrescente discarica a cielo aperto».
La copia fatta di carne appoggia la guancia sinistra alla scrivania. In quell’orecchio i suoni si fanno più sordi, come di conchiglia. Il taccuino è a pochi centimetri dal viso.
«È che c’è modo e modo di vederla, una discarica».

Un viaggiatore che arrivando dall’alto, dopo aver girato attorno alle cime della Bjelašnica e del Trebvice, vedesse infine Sarajevo, noterebbe per prima cosa non la cappa di calore che intiepidisce la luce nella vallata quando è estate, o il grumo di fumo scuro che d’inverno si alza dai camini e la tiene prigioniera; non lo stentato incedere del torrente Miljacka, che al primo temporale si fa rugginoso e gonfio di fango; non i tetti spioventi, di montagna, che prendono il posto dei boschi di conifere; ma i cimiteri. Ampi e bianchissimi anche sotto il cielo smorto, calano giù dai monti come slavine che si incuneano nella città, puntando al cuore. Passata la sorpresa iniziale, un viaggiatore che scendesse lungo una delle prime strade asfaltate presto scorgerebbe, schierati a fitti ranghi, soldatini in un prato verdissimo, piccoli obelischi di marmo.
Un viaggiatore potrebbe allora notare, come accade al Nostro, tre donne a passeggio nel cimitero come in un giardino, e due vecchi giocare a scacchi, e attorno a loro un crocchio di altri vecchi osservare il pedone nero che mangia il cavallo bianco; o magari una famiglia che, nel centro della spianata, ha piazzato una griglia su cui sfrigola il grasso dei cevapi, e poco oltre, tra le tombe del 1992, una ragazza seduta a un tavolino che si sfrega sul palato i fondi farinosi di un caffè.
Ovunque, tra loro, stanno le lapidi. I passanti non sembrano curarsene, eppure il Viaggiatore continua a vederle affiorare, aumentano a vista d’occhio sopra i marciapiedi, nei giardini, tra i tavolini dei bar e in mezzo agli incroci dei vicoli scoscesi di Kovaci. Il Viaggiatore vorrebbe avvisare i cittadini ignari, metterli in guardia, ma essi non sembrano percepire la sua presenza. Solo allora nota il pallore che domina i loro visi, la consistenza evanescente dei loro corpi, e forse comincia a sentire un brusio nelle tempie, prova a parlare, poi a gridare, ma non emette alcun suono.
Si fa strada tra le lapidi barcollando, con la testa vuota e il terrore di sfiorarle. Le tombe sono mucchietti di terriccio ed erba fresca, senza marmo a ingabbiarli; il Viaggiatore ha paura di calpestare i morti che sotto vi giacciono. Quando è ormai convinto di trovarsi in un sogno di fantasmi, in un’allucinazione lontana da Sarajevo, da un crocicchio compare una donna corpulenta, con un lungo velo color cobalto a nasconderle i capelli. Avanza con andatura pesante, passa attraverso i giocatori di scacchi, punta al cimitero. Avrà l’età della madre del Viaggiatore, è presto per definirla vecchia, ma troppo tardi per dirla solo adulta. Ha un’aria che gli è familiare. Si avvicina a una lapide e poggia sulla punta a piramide un rosario sgargiante, color ciliegia; i grani fanno un leggero rumore di denti a contatto con la pietra.
Rimane di fronte alla lapide per qualche istante, poi si dirige verso di lui. Il Viaggiatore ne sente il profumo di gelsomino e il respiro rumoroso, e in quel momento capisce, capisce di essere davvero a Sarajevo, è solo che la Sarajevo dei morti è molto più reale di quella dei vivi, e i vivi non possono far altro che portarsela dentro. Quando la donna viva gli passa davanti senza vederlo, al Viaggiatore sembra di riconoscere, contro le nuvole, la piccola gobba del naso, il profilo tante volte percorso con le dita tra lenzuola irruvidite dall’uso. Il brusio nelle tempie sale, Il Viaggiatore si avvicina alla tomba ancora prima che la donna giri l’angolo. Nessun nome, due date, 1968-1994, e sopra le date un ovale con dentro una foto.
Il Viaggiatore guarda dentro l’ovale, dilata le pupille e salta un respiro: il ragazzo nella foto è lui.

«Tespih, si chiama» dice il ragazzo pallido, «l’ho cercato su Google».
«Cosa?».
«Il rosario. Non si chiama rosario, il rosario è cristiano, quello musulmano si chiama tespih e ha novantanove grani. Correggi».
Il ragazzo che ha in mano la penna fa uno scarabocchio e aggiunge nuove lettere.
«Paraculo».
«Dici a me?».
«Dico a te. Paraculo e pure un po’ vigliacco».
Il ragazzo sudato marcio ha lo sguardo confuso. Quello che non sente il caldo alza gli occhi al cielo. Se potesse, sbufferebbe.
«Capisci che hai barato» dice, «che non puoi cavartela così?».
«Perché?».
«Perché le cose che hai scritto non sono reali» gli risponde, «perché ti sei inventato tutto».
Fuori, dietro l’aria immobile, il cielo si è fatto di un tono più scuro. Il ragazzo che oggi è vivo si raddrizza sulla sedia e fa un respiro profondo. I polmoni si riempiono solo a metà; umidità, polveri sottili e il tanfo tossico della metropoli si mischiano all’ossigeno.
«E anche se fosse?».


A illustrare: All souls’ day, dipinto di Franz Skarbina (1896) (via Pinterest)