Sotto il mondo
Un giorno, tornando a casa da scuola, appena varcata la porta, metto gli stivaletti su qualcosa di duro e croccante. Abbasso gli occhi. Piatti. Piatti rotti in giro per il pavimento. Papà, seduto sul divano del soggiorno, ha la testa tra le mani ed è scosso da muggiti. Scivolo nel corridoio fino alla stanza mia e di mia sorella. Con mia sorpresa, trovo Monica seduta sul mio letto.
«Non sei andata al lavoro, oggi?».
Monica mi guarda con gli occhi spenti.
«Sono incinta».
Compare papà sulla soglia della porta:
«Sono calmo. Scusami, non so che mi è preso».
«Va bene così, papà».
«Sono incazzato nero, Monica. Ovviamente non con te».
«Lo so».
«Adesso esco e gli rompo il culo».
«Papà, stai calmo».
«Mirella. Tu che ci fai qui?».
«Tornavo da scuola, papà».
Papà diventa bianco. Si avvicina, ci prende tra le braccia, comincia a piangere, cerca di metterci una pezza. Accompagna personalmente Monica in un consultorio. I dettagli sulla violenza che ha subito, e su come e perché abbia deciso di portare a termine la gravidanza, non mi vengono concessi. Ma che sia colpa di una banda di sgorbietti l’ho capito benissimo. Sento piangere Monica di notte, ma quando le chiedo se vuole parlarne, dice:
«No. Ma vieni qui, voglio dormire con te».
Ed eccomi ridotta al rango di pupazzo, mentre Monica, che in teoria sarebbe la sorella maggiore, regredisce all’infanzia, con la pancia sempre più grossa. Papà organizza i turni a scuola per poterci scortare entrambe alla fermata dell’autobus, e non ci lascia più sole. Ottiene il porto d’armi, compra una pistola, si guarda intorno come un cane idrofobo. Gli sgorbietti sono arrivati a una delle sue figlie, ciao. Non dorme quasi più, si sfoga facendo il bucato, pulendo casa, trapiantando il benjamin in un vaso più grande e cucinando torte. Io e Monica sediamo sul divano, in pigiama, non sapendo che fare, mentre lui divide il cotone dai sintetici alle due e mezza del mattino. La pancia di Monica cresce. Io faccio domande e ottengo risposte telegrafiche.
Un giorno, a cena, papà dà l’annuncio:
«Domani io e Mirella andiamo a parlare con il Pellegrino».
«Io no?», chiede Monica.
«Non mi va che mia figlia incinta si trovi nei paraggi del Pellegrino e della sua banda».
«Scusa, e io?», chiedo.
«Tu sei il mio braccio destro, ora», risponde lui. Il giorno dopo c’incamminiamo per l’incontro al vertice col Pellegrino, che tutti nel quartiere conoscono come il boss della banda locale. Una cugina di papà è stata la sua donna per molti anni, e ha ancora modo di contattarlo se occorre. Papà ha fatto dire che ha una richiesta e che è pronto a pagare bene. Con cosa non lo so, visto che se avessimo due lire non saremmo in questo quartiere a farci violentare o derubare. Camminiamo per quasi un’ora in un parco pubblico dove non va mai nessuno, lungo un canale che poi attraversiamo all’ombra di un boschetto di lecci, fino al condominio abbandonato al centro del parco. Le guardie all’ingresso, in giubbotto nero e mitra in spalla, ci perquisiscono, ci tolgono le pistole e ci fanno accomodare in una saletta al piano terra. Circondato dai suoi luogotenenti, tutti larghi come armadi, siede il Pellegrino.
Che fosse giovane me lo avevano detto. Non credo abbia molti anni più di Monica, che ha fatto i venticinque un mese fa. La faccia è pallida, i lineamenti precisi, e c’è una cicatrice sotto l’occhio destro, che però sembra una di quelle che ti fai da bambino quando vai a sbattere contro uno spigolo più che il risultato di una sparatoria. Pure, questo tizio gestisce lo spaccio in tutto il quartiere, le rapine e i furti in mezza città, ricicla alla bisogna per conto terzi – gente in giacca e cravatta va e viene da questo condominio – e ultimamente è riuscito a strappare al cartello rivale quasi tutta la prostituzione in centro. La sua prima frase è:
«Mi hanno detto che hai una richiesta».
Papà tossicchia, e risponde:
«Sì. Ho due figlie. Una è questa, la piccola; l’altra è a casa. La grande è stata molestata da quegli sgorbi, quelli piccoli con le orecchie a punta».
«Non è l’unica».
«Vero. Ma io come padre questa cosa non la posso tollerare. Vengo a chiedere il tuo aiuto per stroncare questa minaccia una volta per tutte. Organizziamo una spedizione punitiva».
Corre una risatina tra i luogotenenti. Il Pellegrino fa un gesto e la risatina muore.
«Tu vuoi un esercito e io ce l’ho. Vuoi vendetta e io posso dartela. Adesso vorrei sentire cosa viene in tasca a me».
«Primo: ti liberi anche tu di un fastidio. Quei piccoletti rubano cibo e droga, assaltano i tuoi uomini, entrano nei tuoi appartamenti».
«Sei ben informato».
«Mi guardo intorno. Secondo: io posso offrirti in cambio la mia persona».
«Eh?».
«Lavoro in un liceo, il Mamiani. Un liceo bene, pieno di ragazzini ricchi. Tu lì la droga non ce l’hai mai venduta. Ti servirebbe un corriere».
Il Pellegrino inarca un sopracciglio.
«Tu rischieresti un bel po’. E venderesti la droga ai tuoi studenti».
«Affare loro. Gli sgorbietti hanno toccato mia figlia. Li voglio morti».
Il Pellegrino lascia passare un lungo respiro, e poi:
«Ma una spedizione punitiva si fa su un luogo. Gli sgorbietti sono ovunque nel quartiere. Nessuno sa dove vadano a nascondersi. Se è una tana sola, o sono tante».
«È una tana sola, e io so dov’è».
Qui si vede che papà e il Pellegrino hanno appena fatto un affare.
*
Da quel giorno, e per più di un mese, papà si mette in malattia e collabora col Pellegrino per la spedizione. Si incontrano a casa nostra con una mappa della città, Monica chiusa in camera e io che servo lo Zabov ai due angeli della morte. Il Pellegrino sta attento a non rivelare su quante forze può effettivamente contare, e lascia che papà racconti di quella volta che, passeggiando, gli capitò di pedinare un gruppo di quegli sgorbi e di vederli sparire in uno tombino dall’altra parte del quartiere, dove nel giro di due ore s’infilarono altri cinquanta mostriciattoli.
«In gruppetti», precisa papà. «O solo maschi, o solo femmine».
«Vivono segregati per genere», conferma il Pellegrino. «Le femmine rubano cibo, perlopiù nelle case, a volte anche per strada. I maschi invece puntano solo a scopare. Beccano una ragazza giovane e la fecondano a turno».
A papà va di traverso lo Zabov.
E poi inizia l’accumulo delle armi, nel quartier generale del Pellegrino. Lì papà è invitato a spiegare bene cosa ha visto e dove, ma per il resto deve solo stare zitto e guardare un centinaio tra luogotenenti e soldati semplici che aprono casse e tirano fuori mitra, lanciafiamme e bombe a mano. Io sto appiccicata alle sue gambe come un cane e non apro bocca. Quando parla il Pellegrino, stanno tutti zitti; quando indica cosa fare e dove, nessuno lo contraddice. Interagiscono con lui solo quando fa una domanda diretta, o chiede un consiglio; ma lo chiede sempre con l’aria di chi ha già stabilito il grosso dell’operazione, e ha solo bisogno di chiarire qualche dettaglio. Le spie confermano quanto ha rivelato papà, e le mappe delle fogne del quartiere permettono di capire come circondare gli sgorbi.
«Vai al liceo, Mirella?», mi chiede il Pellegrino mentre gli altri sono distratti sulla mappa.
«Sì», rispondo col prurito nei capelli.
«Che anno?».
«Il secondo. Ho quindici anni».
«L’hai fatto Annibale? Le guerre puniche».
«Sì».
«Presente Canne? La manovra a tenaglia?».
«Sì».
«È quello che stiamo per fare. To’, prendi».
Mi offre un cioccolatino. Quando faccio per prenderlo, lo spinge lui nella mia bocca, dove trova – purtroppo – poca resistenza. Indugia per non so più quanto tempo con il pollice e l’indice tra le mie labbra. Le sue dita, complice il cioccolatino, sanno di rhum. Passano le settimane, e un giorno che la primavera pare esplosa tutta in una volta, inizia la guerra.
Papà vorrebbe che stessi a casa a badare a Monica, che ormai è di otto mesi e non cammina quasi più, il feto è immenso. La mattina che partono le danze me lo dice chiaro e tondo; poi esce di casa. Il Pellegrino, dietro di lui, si volta verso di me e dice:
«Vieni».
E mi porge una pistola. Mi prude la testa, mi gratto, prendo la pistola e seguo il Pellegrino, che mi porta in una direzione diversa da quella di papà – lui partirà con un contingente dal quartier generale, noi da un altro punto, un negozio che un tempo era un fruttivendolo e adesso ci si raffina la coca. Sei plotoni battono il quartiere cercando gli sgorbi, con l’ordine di sparare a vista o di ricacciare nelle fogne. Dodici plotoni si calano direttamente nelle fogne, dopo avere sigillato le vie di fuga che gli sgorbi potrebbero imboccare per portarsi fuori dal quartiere, costringendoli a radunarsi al centro, verso la loro tana. All’inizio io seguo il Pellegrino e il suo contingente in giro per le strade. Si tengono in contatto tra loro con gli auricolari. Battono gli appartamenti sfitti, seguono le tracce lasciate dagli sgorbi, ascoltano le segnalazioni alla polizia. A un certo punto si cominciano a vedere in lontananza, tra le colonne di granito di un condominio, gruppi di maschi e che molestano una ragazza, o – in mezzo ad un giardino, seminascoste tra i ciliegi in fiore – femmine che si dividono verdure e carne rubata al banco frigo. Lì i mitra cominciano a cantare.
Gli sgorbietti ovviamente si accorgono che qualcuno si avvicina, ma forse non sono abituati al fatto che qualcuno dia la caccia a loro. Il Pellegrino è stato molto attento a non reagire alle loro infiltrazioni, a farli illudere di avere il quartiere in pugno. Una sgorbietta solleva la testa verso di noi, con una mela in bocca; crack!, e via metà della testa, il cervello sul muro grigio. Le altre cominciano a correre – kpok!, kpok!, kpok! – una dopo l’altra, come bambolotti, eccole capovolgersi, roteare, cappottarsi, e il sangue che lava i pavimenti. Dopo che siamo passati noi, arriva una squadra di moldave a pulire, mettere i cadaveri nei sacchi e riordinare tutto.
Dai tombini ora vengono grida e scrosci di acqua. Il Pellegrino, dopo una decina di massacri, riceve notizie dai suoi luogotenenti in superficie, e assieme a cinque fedelissimi scende nelle fogne, ordinandomi di seguirlo. Ed eccomi nei sotterranei del quartiere.
Sono in un corridoio di pietra, impregnato di odore di acqua marcia, sangue ed escrementi. Si accendono le lucine al neon sul soffitto. Il Pellegrino mi avvisa di stare attenta a non cadere nel canale di scolo; poi comincia a parlare nel suo auricolare, e scatta in una direzione che sa lui, ad ampie falcate. Avanziamo nella penombra, i soldati silenziosi e col mitra spianato, e io che sento l’eco dei colpi di fucile e delle urla. Non capisco con che criterio scegliamo la strada alle decine di bivi che incontriamo. Ma il Pellegrino sa dove sta andando. Sempre più spesso ci troviamo davanti a gruppetti di maschi o di femmine che ci corrono incontro, decimati, sanguinanti, inferociti – crack!, saltano via mandibole, occhi, orecchie – lingue vanno a penzoloni – fuoriescono viscere.
Il Pellegrino ad un certo punto dà ordine di fermarci.
«Voialtri, subito alla Tana. Vi guiderà il Perro sul solito canale. Quando lo incontrate mettetevi a disposizione. Li hanno circondati. Ma prima di liquidarli, voglio parlarci».
I soldati non perdono neanche tempo a dire sì; corrono via. Il Pellegrino mi afferra per un braccio, mi fa entrare in una stanzuccia chiusa, piena di tubi e vasche, il pavimento lercio di sangue e di cadaveri. Mi piega in ginocchio e tocca la mia pistola.
«È calda. Hai sparato pure te».
Deglutisco. Mi spinge su quattro zampe, le mani sul pavimento sudicio, proprio davanti a un cadavere di maschio con un buco in mezzo al torace. Con uno strattone mi cala i pantaloni, e sento il suo dito sulle mie parti intime.
«Lo senti, l’odore?».
Sono carponi, la faccia al suolo, e sento odore di merda, polvere da sparo e sangue. Ho davanti agli occhi le carcasse degli sgorbietti. Il Pellegrino è dietro di me, in ginocchio anche lui – con la mano destra mi carezza, con la sinistra forse si tocca. Non ho capito se quello che mi sta facendo mi piace o meno. Ho voglia di dirgli ‘smettila’? No. Ma ho voglia di star qui? Nemmeno. Qualcosa di liquido mi rammollisce le gambe. Ho le chiappe all’aria. Forse se fossimo altrove, senza cadaveri, avrei le idee più chiare. Il Pellegrino respira più accelerato. Poi qualcosa vibra. È l’auricolare.
«Di già? Bene. Arrivo subito».
Lo sento rialzarsi e riallacciarsi i pantaloni. Poi mi prende per un braccio e mi costringe a rialzarmi a mia volta, mentre goffamente mi sistemo mutande e pantaloni anch’io.
«Vieni, c’è il gran finale».
Sotto il nostro mondo ce n’è un altro che conosciamo molto poco. Sta scritto in parecchi romanzi e si vede in un sacco di film. Il nostro quartiere si è svuotato di recente, con ritmo lento e orribilmente regolare; ma qui sotto dove siamo ora, il controllo della situazione dev’essere andato perso molto prima. Via via che si scende, nei corridoi sempre più bassi, accanto allo sciacquio dei canali di scolo, mi rendo conto che sotto i miei piedi il pavimento cambia – la pietra è coperta di paglia battuta, polvere, terra ed erba secca – alle pareti si accumulano impronte di mani e piedi, che hanno lasciato contorni di unto e di sangue – e dai soffitti pendono sacchi pieni di carni frolle. L’odore cresce piano, tanto che ci abituiamo nonostante sia schifoso. Involucri di tela lercia, che somigliano a sacchi a pelo a misura di bambino, cominciano ad apparire, ammassati in stanzucce che si aprono – o sono state aperte – nei corridoi delle fogne.
E proprio quando non ci facevo più caso, ecco i primi cadaveri. Non ce n’è uno dei nostri, sono tutti degli sgorbietti. Hanno la faccia incattivita, la lingua di fuori, e un buco in fronte, o nel torace, o in pancia. Lo strato di erba e paglia assorbe il sangue e diventa fradicio – camminiamo come sulla birra versata. Il rumore dei mitra e le urla riempiono lo spazio e presto non sento più niente. Mi pare di distinguere, però, una parola in mezzo alle grida, che sono tutte degli sgorbietti: il nonno, il nonno.
Entriamo in un’area sotterranea dal soffitto molto più alto – forse, un tempo, destinata al controllo e alla gestione delle fogne. Molte porte si aprono su laghi di tenebra, e sul soffitto brillano poche lucine al neon. Quanto basta per vedere mio padre, in un angolo, pallido, sudato e che si pulisce il vomito dal mento. Al centro del salone, i soldati stanno ammucchiando cadaveri di sgorbietti – ormai fanno una specie di montarozzo. C’è chi è ancora vivo, e tenta di resistere – ma prende un colpo di calcio di mitra sul cranio, e cade a terra come un caco maturo, con la testa spiaccicata. Altri soldati esaminano gli oggetti accumulati alle pareti – bauli pieni di suppellettili e vestiti, sacche piene di noci, ghiande, nocciole – e sempre quei sacchi a pelo di tela annerita.
Il Pellegrino fissa un’apertura dalla parte opposta del salone, dove i cadaveri sono ammonticchiati come a impedire l’ingresso. I colpi di mitra sono tutti sul davanti – gli sgorbietti hanno fatto scudo del loro corpo. Avanza, circondato dai suoi luogotenenti che gli fanno rapporto sul numero di morti, su perdite e risultati, sulle ricerche in corso dei sopravvissuti. Uno di loro gli annuncia:
«Il nonno è lì dentro. Se ci dai l’ordine, procediamo».
«No».
E si posiziona, a braccia conserte, davanti al monticello di cadaveri che protegge l’apertura nel buio. A un suo urlo, tutto il salone tace; i soldati imbracciano il mitra e attendono.
«Esci: ti sfido», grida infine il Pellegrino.
Per uno, due, cinque minuti non si sente che il silenzio e le acquicelle delle stanze intorno. Poi dall’interno dell’apertura, due arti che dondolano, due gambe – due braccia, poco sopra – un corpo alto, sodo, coi muscoli in evidenza – ecco che esce, abbassando la testa, sotto il neon. È più alto di un uomo. È anche più grosso. Le orecchie sono a punta e in fuori, ma più lunghe di quelle degli sgorbietti. Ha un muso come quello di un carlino, ma gli occhi sono più grandi, e non riesco a riconoscere una pupilla – sono completamente bianchi. Ha sulla faccia un ghigno idiota.
«Capisci la mia lingua, nonno?», esclama il Pellegrino. «Io penso di sì. E penso che tu abbia capito chi comanda, nel mondo e sotto il mondo. Ho ragione?».
Il nonno crolla il capo, senza cambiare espressione. È nudo. Gli pende dal perineo un membro gigantesco, come di un elefante in musth.
«Ma già. Chissà quanto cervello ti è rimasto, dopo tanti anni qui sotto», mormora il Pellegrino.
«Se quello è il nonno, cioè il progenitore, dov’è la nonna?», chiedo io.
«Non gli serve una femmina», risponde lui. «Ricorda cosa fanno i maschi. Cercano -».
Non finisce la frase perché il nonno mi sta guardando, e muove uno, poi due, poi tre passi verso di me, dondolando la testa. Il membro, come un batacchio da campana, si fa rigido e s’innalza di qualche centimetro in aria. Il Pellegrino solleva il mitra e glielo punta contro.
«No. È mia, questa».
Il nonno si ferma e alza la testa al cielo, come soppesando le parole. Quando riabbassa la testa continua ad avanzare verso di me. Ma non ha finito di appoggiare il piede a terra, che il Pellegrino gli ha mitragliato la gamba destra. Il nonno latra, si mette la mano sulla coscia perforata – ne schizza un sangue viscoso color cannella; e però continua ad avanzare, zoppicando, verso di me. Allora il Pellegrino punta al membro, ormai dritto come un punto esclamativo; e con una mitragliata glielo mozza dal corpo, oltre a fracassargli il bacino. Il nonno cade a terra latrando, a pancia in giù, preso da una convulsione improvvisa. Senza dir nulla, il Pellegrino gli punta il mitra sulla nuca e lo finisce.
Ricomincia il brusio dei soldati e dei luogotenenti, mentre il Pellegrino dà ordini in giro per il trasporto dei cadaveri e degli oggetti in superficie, e la bonifica finale dei sotterranei. Io vagabondo confusa in mezzo ai corpi degli sgorbietti, sul pavimento appiccicoso. Distinguo però chiaramente, e mi sveglia dalla confusione, l’urlo di mio padre:
«Monica!».
Scortata da due soldati, mia sorella entra nella sala, camminando con fatica. Papà le corre incontro, l’abbraccia in lacrime, le chiede perché questa pazzia. Monica ha un neonato al collo, avvolto in una tutina. Le corro incontro.
«Tu che ci fai qui?», mi sento chiedere da papà.
«Prima mi spiegate cosa ci fa qui Monica».
«Ho avuto le contrazioni pochi secondi dopo che siete usciti», risponde lei. «Travaglio rapidissimo, parto da manuale. I soldati che mi facevano la guardia hanno chiamato subito un’ambulanza e ho partorito in camera nostra. Liscio come l’olio».
Ha il volto di terra, le sopracciglia contratte, e la voce è un sussurro furioso.
«Tesoro, ma sarai esausta. Perché hai voluto».
«Perché questa cosa la devo fare adesso», risponde lei con un mezzo grido. «Se aspetto troppo, gli ormoni – quel fottuto istinto -».
Arranca verso il montarozzo di cadaveri. Io e papà la sorreggiamo. Il Pellegrino si è accorto di noi, ma non sembra avere tempo da dedicarci. Arrivati al montarozzo, Monica solleva il neonato e lo toglie dalla tutina.
«Appena l’ho visto – tutta la forza di questa umiliazione», rantola. «Ma io sarò più forte».
Il neonato piagnucola. È di colore verdastro, e ha due orecchie a punta, in fuori. Ripenso a quello che mi ha appena detto il Pellegrino sui maschi degli sgorbietti. Ma non faccio in tempo a finire di pensarci, che Monica mi appioppa il neonato, e
«Aiutami, Mirella», dice.
«Monica, ma che devo fare?»
«Soffoca questo aborto, e buttalo assieme agli altri».
E appoggiandosi a papà, si fa portar via.
Fonte per l’immagine a corredo: https://www.artstation.com/artwork/52KO