La sala dei penitenti
La luce sopra il Confessionale si fece verde. Katia scostò la tendina e uscì fuori, dirigendosi verso il tavolo. Walter la osservò percorrere con passo pesante la Sala dei Penitenti mentre sorseggiava gin. Era morto da quasi tre anni eppure si trovava ancora lì, col suo boccale ricolmo di birra seduto al bancone del Bar. Questa era la sua condanna, così era stato stabilito: bere birra in attesa della Purificazione. Dalle otto della mattina fino allo scoccare della mezzanotte, un lungo discernimento precedeva una nuova confessione. Tutte quelle anime assiepate tra i tavoli non aspettavano altro che di svanire al più presto. Scomparire, letteralmente, da un momento all’altro e per sempre.
C’era chi impiegava pochi giorni e chi invece se ne stava in silenzio per lunghi periodi o addirittura anni. Walter non apparteneva né agli uni né agli altri. Da subito aveva appreso – e non con poca sorpresa – il destino che toccava a chi, come lui, aveva lasciato il mondo dei vivi con dei conti ancora in sospeso; sin da subito era stato al gioco – che poi gioco non era, ma un poco lo sembrava – impegnandosi nel suo percorso di redenzione. Ogni mattina ripensava a quando aveva aperto gli occhi per la prima volta, convinto si fosse trattato di un brutto sogno. L’odore di chiuso, le zaffate di sudore provenienti dalle lenzuola, e, per finire, il sentore della polvere che aleggiava tutt’attorno. Poi, la scoperta. Il corridoio, la scala che portava al piano di sotto, il Banco, il boccale, e l’inizio di tutto. O sarebbe più giusto dire la fine di tutto. O meglio ancora: la fine della fine. Ma comunque, questo era e questo faceva: indurre la propria ubriachezza per aspirare a una sincerità incontrollata in grado di riportare a galla ogni sua più sconvolgente vergogna rimasta tumulata nelle profondità dell’anima. Dava sempre il meglio di sé e questo Massimo il Confessore lo sapeva, eppure mancava ancora qualcosa per liberarlo. Un piccolo tassello, un dettaglio che faticava ad arrivare.
La sua matricola era una delle più vecchie, ciononostante la pena era e rimaneva la stessa: birra, e nient’altro. Scovare i peccati più reconditi con il mero sostegno del luppolo era assai complicato, tutt’altra cosa sarebbe stata poter contare su dell’ottimo gin; a questo pensava Walter contemplando il bicchiere di Katia, ora rannicchiata su sé stessa al tavolo giù in fondo alla Sala. Walter si voltò e con lo sguardo cercò il Druido. «Un’altra» disse, facendo scivolare il boccale. Il Druido annuì, azionando la leva dello spillatore. Walter non lo aveva mai sentito parlare, il Druido comunicava con gli occhi e basta, e lo faceva bene. Se uno al Banco parlava più del dovuto, ecco che il Druido gli indicava il Confessionale. Se un bicchiere era vuoto da troppo tempo, con un gesto del viso gli faceva intendere che era ora di riempirlo. Il Druido, il Confessionale, la Sala dei Penitenti, la Purificazione. Nessuno mai lo aveva istruito sul funzionamento di quel posto, semplicemente si era alzato dal letto che già sapeva. Si sentiva un inutile ingranaggio tra i tanti inutili ingranaggi di un’immensa macchina redentrice di anime disperse. E proprio quando Walter pensò d’aver afferrato il significato profondo del concetto di dispersione – segnale questo che preannunciava l’avvento della sbornia, ma che, al contempo, richiedeva un’altissima capacità di ancoraggio sulle pareti di un ragionamento, che un secondo prima appariva chiarissimo e un secondo dopo lo sentiva scivolare via come un alpinista dotato di piccozza e scalpello che più sale e più fatica a respirare, col rischio di precipitare nel vuoto perdendo il senso di tutto – ecco, proprio sul più bello, Katia iniziò a vomitare.
Nell’udire quel conato, gli occhi del Druido ruotarono verso il fondo della Sala e presero a fissare la donna, dopodiché iniziò a battere i pugni sul bancone del Bar, seguito all’istante dagli altri Penitenti. Nessuno vomitava, a meno che non fosse l’ora. Ognuno di loro contemplava quella scena con deferenza e, Walter ci avrebbe giurato, un pizzico di invidia. Il bicchiere di Katia rotolò sul tavolo e finì a terra, in frantumi.
«Dai che ci sei» gridavano tutti, incitandola.
“La dispersione di sé stessi” pensò Walter, cullato dagli effetti dell’alcol, “non è altro che il propagarsi dell’anima”.
Katia ora si contorceva, le sue mani premevano sulle tempie, finché il vomito non si esaurì. A questo punto cadde in ginocchio, guardò il soffitto, e, con occhi spenti, svanì.
“È il passaggio dal solo alla moltitudine. L’ennesima trasformazione del corpo, la più importante”.
Tutt’un tratto, le sembianze della donna non erano più visibili. Tutt’un tratto, non esisteva più. Dissolta nell’eternità.
Lo sfregare del vetro sul legno del Banco riportò Walter al suo castigo. La birra era pronta e il Druido gliela spinse fin sotto il naso, per poi additarla con l’indice destro privo di unghia. Era passato da poco mezzogiorno e Walter si apprestava a bere la sua sesta birra.
«Druido, e che cazzo, una gioia ogni tanto, no? Il gin di Katia, non chiedo altro. Che magari porta bene anche a me. A proposito, niente Benedizione per la nuova Purificata?».
L’uomo dapprima si lisciò i baffi a manubrio, poi riempì un cicchetto di rum e lo mandò giù con un impeto a dir poco animale, lo sbatté sul banco e ruttò di gusto. I quindici Penitenti in Sala si voltarono all’unisono, alzarono i boccali, quindi bevvero e ruttarono anch’essi.
Le ore trascorsero come gli altri giorni, seduti in quella Sala rivestita del legno della Vera Croce, un misto tra il cedro, la palma, e l’ulivo, in attesa della Confessione che li avrebbe condotti alla pace. Il vero problema per Walter consisteva nel ritrovarsi senza nulla da dire. C’erano volte in cui sedici ore in balia dell’alcol non gli erano sufficienti per analizzarsi a tal punto da trovare quel che cercava. E quando ciò accadeva, gli prendeva lo sconforto.
«Eccoci qui Walter. Quando vuoi.»
«Non sarà mica quella volta che toccai le gambe di mia madre?».
«Eri un bambino, Walter.»
«E che vuol dire? Ho pur sempre toccato le gambe di mia madre mentre dormiva.»
«No, non è quello.»
«Porco cazzo. Pensavo di esserci arrivato stavolta.»
Massimo il Confessore era lì che lo fissava. La sua lunga barba a punta sfiorava il banco del Confessionale.
«Deve averti fatto un male cane» disse Walter, guardando il braccio destro del Santo privo di una mano, «la lingua però ti è ricresciuta, questa cosa non me la spiego. Com’è che te l’hanno tagliata quei balordi della corte imperiale?».
«Walter» disse il Monaco con voce monocorde, «quando cominci a divagare è perché non hai altro da aggiungere. È così, dunque? Anche oggi niente?».
«Ma che niente, e niente. Se ho appena iniziato.»
«Bene allora. Sentiamo.»
La Confessione andò avanti per altri dieci minuti. Dopodiché, da rossa la luce divenne verde, e Walter uscì pencolante. Giusto il tempo di farsi negare la ventunesima birra dal Druido, il quale, con occhi stanchi e sguardo privo di sorriso come il doge del Carpaccio, impennò il collo e indirizzò il suo naso verso l’orologio, che segnava mezzanotte e due minuti. Walter allora risalì la scala, entrò nella sua stanza, si tolse i vestiti e si addormentò.
La mattina seguente aprì gli occhi e pensò che gli mancava sognare. D’un tratto, si sentiva stanco di quel posto e dell’aria stantia che gli saturava i polmoni. Soprattutto ora che Katia non era più tra i Penitenti. Lei era l’unica che, di tanto in tanto, si degnava a farlo ridere di cuore. La sua immagine accucciata sulla panca mentre, con mano tremante e convulsa, si toccava la peluria sotto la gonna l’aveva tormentato in più d’una confessione. «Non ci siamo» lo aveva ammonito il Confessore, reindirizzandolo verso una più docile e mansueta visione. Ma ora, in quel letto che odorava di piscio, il pensiero di riprendere il boccale da lì a poco lo nauseò per la prima volta. Così, non scese. Rimase in camera, a pregare, disobbedendo allo Statuto dei Penitenti. Stette lì per due ore, in ginocchio e con gli occhi chiusi, rievocando i momenti più significativi della sua vita da vivo. Gli anni dell’adolescenza, le battute di sua nonna e il volto paonazzo di suo padre; il primo amore, quel bacio dato su una panchina nel Parco Kolbe allora ridotto a una distesa di fango, e, infine, sua moglie e la paternità. Tanti piccoli tasselli che, se visti su un grande schermo, parrebbero quasi riduttivi per semplificare la vita di un uomo. Eppure, quello era stato e così aveva vissuto. Una vita, la sua, passata a rincorrere i suoi doveri di padre e marito, senza però rinunciare – quando più ne sentiva il bisogno – alla via del peccato – quello giusto però, il peccato “rigenerante”, in grado di ricaricare un essere umano in vista della miseria quotidiana –. Che belli erano stati i sabati sera trascorsi all’osteria con la sua combriccola di compagni scalmanati, per poi svegliarsi la domenica mattina e presentarsi direttamente a tavola per il pranzo. La domenica mattina sì che si dormiva bene, nessuno che fiatava o che si rincorreva nei corridoi. Né moglie, né figli. La sua pace dei sensi, mentre tutti erano a messa nella chiesa del quartiere, tutti tranne lui. Walter aprì gli occhi e disse: «Dio bono».
Il buio della stanza priva di finestre d’un tratto lo annichilì. Si alzò, aprì la porta e scese le scale. La Sala dei Penitenti era al completo, c’erano tutti tranne lui. In quel marasma notò un volto nuovo, un uomo sulla trentina con un grosso mammut tatuato sul petto, le cui zanne terminavano sulla punta dei capezzoli. Il Druido guardò Walter avvicinarsi. Nel frattempo aveva preso un boccale e lo aveva riempito di birra. Lo fece scivolare sul Banco, poi indicò l’ora.
«Io non bevo più» disse Walter, guardandolo con aria di sfida. «Voglio parlare con il Confessore. Adesso».
Il Druido familiarizzò un poco con quel luccichio inedito racchiuso negli occhi dell’uomo, dopodiché annuì, indicando la luce verde sopra il Confessionale. Walter si incamminò e sparì dietro la tendina, accolto dal bagliore dell’aureola del Santo.
Intanto, nella Sala dei Penitenti regnava il silenzio solito della mattina. Un uomo e una donna sedevano alternando sospiri e portandosi i bicchieri alla bocca. Un altro, poco distante, fischiettava una vecchia canzone popolare, mentre un arabo raggiungeva il Banco borbottando frasi lunghe e incomprensibili.
Durò poco. La lampada passò al verde e Walter fece capolino, richiudendo la tenda. I presenti lo guardavano incuriositi, un Penitente con la matricola poco più giovane della sua gli chiese se stava bene. Faceva strano vederlo senza un boccale. Così, per scrollarsi di dosso un po’ di quell’interesse, si sedette al Banco. Era quello il suo posto, lo preferiva rispetto ai tavoli, lo riteneva un punto nevralgico per monitorare l’energia sprigionata all’interno di un pub.
Diede un lungo sorso, arrivando quasi a metà bicchiere. La birra d’un tratto gli sapeva disgustosa, non gli piaceva più. Ebbe un conato, e subito dopo un altro ancora. Spinse via il boccale e saltò giù dallo sgabello, indietreggiando un poco. Attorno a lui sentì un batter di pugni, che in pochi attimi crebbe a dismisura. Walter alzò lo sguardo, e in quel mondo oculare così sfocato e irreale distinse il Druido che preparava un cicchetto. Il Banco era il suo minareto, e lui era il muezzin che chiamava i devoti a raccolta. Era appena mattina, eppure era già tempo di incitarli a dovere. I Penitenti, le anime afflitte che avevano agito in modo immorale nell’arco di una vita intera. Dal Confessionale, con stupore di tutti, uscì anche Massimo il Confessore, che, con un sorriso dipinto sulle labbra, prese a battere con l’unica mano che gli rimaneva sulla parete di mogano dell’arredo.
Il Druido sollevò il cicchetto e mandò giù. Il suo rutto riecheggiò nella Sala per sei lunghissimi secondi, dopodiché i Penitenti applaudirono.
A illustrare: immagine creata con Bing Image Creator in barba ai giovani illustratori