Conati d’oro massiccio
Interno – Alba – Negazione
Ero una capra in matematica, me la cavavo con una sufficienza scarsa. Mi appello allora a un possibile errore di calcolo: quanti giorni devono passare dopo il ventottesimo per realizzare di essere incinta? Il quindicesimo giorno dopo l’ovulazione più i giorni di ritardo? Non mi vengono le mestruazioni da due mesi. Forse dovrei lasciar perdere i calcoli e andare a fare un raschiamento.
No, non a me. Questo non può succedere proprio a me. Sono sempre disgrazie che toccano alle altre, io sono inviolabile, io ho fatto un patto con qualche divinità pagana dal nome impronunciabile quando ero adolescente: niente figli. Mai. Il patto però era fallace: prevedeva solo la mia pretesa spocchiosa senza offrire niente in cambio, non so, un fioretto – niente figli e in cambio non mangerò più pizza, oppure niente figli e mai più sesso anale – e invece no. Forse è per questo motivo che Dio, o chi per lui, mi punisce. Eppure dicono che ce l’abbia a morte col sesso anale, vai a capire perché.
Resto distesa supina nel letto, la finestra appena alla mia destra si apre su una fetta di cielo che sa di polvere. Mi rendo conto che è primavera perché nell’aria volteggiano sfere di polline. Da quanto tempo sono in questa stanza? Mi accarezzo la pelle morbida intorno all’ombelico: se qui dentro c’è qualcosa mi ammazzo. Lo giuro, mi butto di sotto, mi lancio sotto un treno, mi avveleno con il topicida – no, morte orrenda, sconsiglio – mi gaso con lo scarico dell’auto, mi sparo un colpo di pistola in fronte. Dove potrei procurarmene una? Ora che ci penso: nella vecchia baracca di nonno Gaetano dovrebbe esserci ancora il suo famoso fucile che lo aveva preso dritto dritto ai coglioni. Da quanto non metto più piede in quel tugurio? Magari, tra i sorci e i mobili marci, ci ritrovo pure la sua palla esplosa.
Comunque non mi spaventa la morte. Quello che mi spaventa è il lento immaginare che dentro di me spunti qualcosa che non mi appartiene.
Avresti potuto tenere le cosce chiuse, direbbe qualcuno. Ma chi cazzo è che tiene le cosce chiuse? Prometto a una divinità qualsiasi, quella che ha le orecchie più buone: “Fa’ che io non sia incinta, ti giuro che se mi fai questa grazia vivrò la mia vita come fosse un capolavoro, smetterò di mangiare cioccolata e andrò a messa tutte le domeniche, chiamerò mia madre ogni giorno, sarò una persona migliore”. All’ultimo secondo aggiungo: “e smetterò di masturbarmi pensando a don Carmine, quello che mi ha fatto la cresima”.
Dovrei comprare un test di gravidanza. Sento un rivolo rovente risalire le pareti della trachea. Abortisco un conato. Sarebbe bello abortire anche il resto così facilmente. Afferro il cellulare, digito su Google: “come capire di essere incinta senza test”. Dopo cinque minuti, e tre o quattro articoli che sembrano più oracoli o ricette di almanacchi di Frate Indovino, reprimo un altro conato.
Forse ho la nausea da gravidanza. Mi brucia lo stomaco, le mani formicolano. Cerco di nuovo su Google: “sintomi essere incinta”. A quanto pare, internet prevede che le future mamme siano anche dotate di tre teste/tre tette e/o poteri paranormali. Fisso il soffitto, mi viene da piangere: ricordo il film di Troisi, Ricomincio da tre, la scena in cui lui tenta di attrarre a sé un vaso orribile. Mi metto a sedere, davanti al letto c’è la mia scrivania col computer, una tazza, la borsa del lavoro. Cerco di concentrarmi sulla tazza. “Vieni, vieni”, penso. “Vieni, vieni”. La tazza però non si muove e la cosa mi rincuora. Forse non sono poi così incinta, forse è un normale ritardo. Forse è lo stress, è il lavoro, la solitudine, la rabbia, la vita.
Interno – Mezzodì – Tentazione
Il test che ho preso in farmacia e su cui ho pisciato porta due linee blu. La scatoletta che ho posato sulla lavatrice, insieme al cellulare col timer, non riesco a prenderla. Sono inchiodata al water, con le mutande calate, con le mani che tremano. Le vedo creparsi, le ultime falangi si sbriciolano, cadono a terra e anche un po’ nella mia mutanda, si addensano in questa frase di sabbia: “Non ti preoccupare, forse è un falso positivo”. Un grumo d’oro massiccio si coagula nel petto, devo vomitare ma non ci riesco. Google mi dice che sì, esiste la possibilità di incorrere in un falso positivo in determinate condizioni. È sicuramente anche il mio caso. Io non sono incinta, non sono incinta manco per il cazzo.
Dopo due ore e un’altra pisciata, ancora due linee blu. Google mi dice che sì, è possibile che anche il secondo test dia un falso positivo, ma la percentuale è davvero bassissima, tipo lo 0,01%.
Mi accendo una sigaretta. Razionalizzo: quando? come? con chi? Su quest’ultimo punto non ci sono dubbi, ma la risposta non mi rincuora. Lui è più inutile di una forchetta nel brodo. Quando? Non lo so. Come? Mi prenda il demonio se so anche questo. Mi afferro la carne rigonfia della pancia, la pizzico forte, più forte, voglio sentire i capillari rompersi. Dopo due minuti fiorisce una viola. Lo ripeto altre dieci, venti volte, col risultato che mi ritrovo un campo di boccioli marci addosso. Tiro lo sciacquone, tiro su gli slip, devo scordarmi la speranza di andare in bagno e vederli macchiati di sangue. Afferro i due test di gravidanza, li avvolgo nello scottex, li butto nell’immondizia, poi ci ripenso e li recupero. Li ficco sotto il letto.
Stupida, stupida, stupida stupidastupidastupida troia, maledetta stupida cagna, perché non sei stata più attenta? Che ti costava prendere la pillola? Controllare il preservativo?
E adesso che faccio? Non posso tenerlo, no, non posso proprio. Non lo voglio. Non è mio, deve avercelo messo qualcuno, per sbaglio, per dispetto. Immagino me stessa come una Vergine indegna toccata da SS, che in questo caso non sono le Schutzstaffel, ma lo Spirito Santo.
Mi butto sul letto, scoppio a piangere. La mia vita è rovinata. Mi sento l’antieroina di un b-movie o di una telenovela argentina tutta gemiti e empanadas ripiene di fagioli grassi. Poi, ricordo il mio proposito: mi ammazzo. Dio mi ha tradita. E pure Shiva, Thor, Gandhi. Che cazzo di pagliaccio, Gandhi. Fanculo la messa, fanculo mia madre, fanculo la persona migliore. Afferro il cellulare, digito: “come abortire metodi casalinghi”. Un sito menziona le radici delle patate. Vado in cucina, sotto al lavello recupero un paio di tuberi che sono lì da due mesi, forse da quando ho scopato l’ultima volta, stacco i peduncoli verdastri e li mangio come fossero patatine. Attendo. Spero ardentemente di sentire qualcosa, anche se conservo ancora un briciolo della mia superbia e prego Dio, quello stesso Dio che ora mi sta punendo proprio per la mia superbia, di ridarmi i dolori del ciclo. Non succede niente. Ventre piatto, nessun segno di vita. Mi mordo la lingua a questo pensiero.
Sollevo il braccio destro, serro la mano in un pugno. Mi tiro un colpo sordo sul ventre, proprio laddove immagino ci siano le ovaie. Ancora. Ancora. Ancora. Perdo il conto, fin quando avverto la carne diventare molliccia, come strinata, o meglio, sfibrata. Forse se mi colpisco davvero forte, questa cosa che ha deciso di prendersi il mio corpo capirà che non la voglio e leverà le tende.
Riprendo il cellulare. “Aborto procedura”. Sembra complicato: consultorio, ginecologo, obiettori di coscienza, ospedali. No, non ci arrivo a quel punto, mi ammazzo prima. O mi ammazzo io, o mangerò tuberi velenosi fino a farlo marcire. Controllo se in bagno compare un flacone di topicida. Per fortuna non c’è, ma mai diffidare del coraggio di una donna disperata.
Interno – Pomeriggio – Disperazione
Tutti i miei tentativi fai-da-te non hanno funzionato. A quanto pare la cosa ha attecchito bene. D’altra parte avrei dovuto aspettarmelo: ho i denti di un cavallo – da piccola, per estrarre quelli da latte, mio padre li legava a un filo e attaccava l’altro capo alla maniglia della porta, la sbatteva con tutta la forza che aveva e il dente saltava – i capelli di un mulo, le unghie durissime, i peli di un orso, tutto nel mio corpo si abbarbica a me con una resistenza e una fedeltà commoventi.
Prima di andare in ospedale resto in piedi alla fermata del tram. So guidare, ho la macchina, ma la tentazione di buttarmi sotto le ruote di qualsiasi autoveicolo urbano ha deciso per me. Ho fatto un altro patto, con me stessa stavolta, mi fido di più: attraversare senza controllare. Deciderà il destino se mi andrà bene o no. Un lancio di dadi.
Questo il bilancio suicida, per ora: una bici mi ha scansata all’ultimo, un automobilista ha sterzato violentemente rischiando di tamponare la macchina accanto, e ha urlato “troia” trascinando la a sotto le ruote al posto mio, un autobus ha iniziato a suonare il clacson e a farmi i fanali da duecento metri di distanza. Ora tocca al tram. Se sopravvivo anche a questo, vado in ospedale ad abortire.
Aspetto. Cinque minuti, dieci minuti – guardo l’orologio, avrei dovuto essere già lì – mezz’ora, un’ora. Alla fine il pannello luminoso dice che la corsa del tram è soppressa per sciopero. Quale sciopero? Mi rendo conto che rivolgo la domanda alla mia pancia. Non parlare con lui – è un lui, è una lei? – mi rimprovero.
Torno a casa, prendo l’auto, dopo quaranta minuti sono stesa su un lettino, in un’enorme stanza bianca, con una flebo al braccio. Tutta la procedura non è stata poi così male. Veloce, rapida, la tizia del consultorio mi ha solo suggerito di iniziare ad assumere la pillola. Il ginecologo mi ha chiesto perché alla mia età sono ancora nubile. La dottoressa dell’ospedale invece mi fa firmare un sacco di scartoffie, mi chiede se sono sicura e poi mi dà una pillola azzurra. Che cosina minuscola. La dottoressa la chiama “mifepristone” – pare il nome di un filosofo morto – e serve a impedire la crescita del feto. A volte basta proprio poco per morire. Sempre lei, la dottoressa, mi dice che sono stata brava, se avessi aspettato ancora qualche giorno la pillola non sarebbe stata sufficiente e avrebbero dovuto ricorrere al raschiamento. “Aborto chirurgico” suona più minaccioso di “aborto farmacologico”. Brutta storia, sconsiglio.
Tra quarantotto ore devo prendere un’altra pillola, si chiama “misoprostolo” – pare il nome di un ottavo nano – e serve a espellere il feto. Non me ne preoccupo.
Dopo un quarto d’ora dall’assunzione della prima pillola vorrei cavarmi gli occhi dalla faccia, strapparmi i capelli dalla testa, soffocarmi con un cuscino. Il dolore è disumano. Un invisibile catena d’acciaio mi stritola le ovaie e, contemporaneamente, un uncino prova a strapparmi via i reni. Due forze contrapposte che sembrano fare a gara a chi tira più forte e più a lungo, con il risultato che ho l’impressione di dividermi in due pezzi, un fronte e un retro, uno cadrà verso il pavimento, l’altro resterà in piedi, a mostrare ciò che si nasconde dentro il mio scheletro. Corro in bagno, tirandomi dietro la flebo, i crampi alla pancia mi costringono a cadere, abbraccio il water, un bruciore di lava scorre lungo la schiena concentrandosi alla base. Mi tocco con le mani, la mia pelle è congelata.
Vomito il niente, urlo contro lo sciacquio del cesso, provo ad alzarmi, ma le mie gambe non funzionano. Sono burro, melma, gelatina. Sento un sudore freddo tramutarsi in gocce sul viso, scendere giù per il naso, ne catturo qualcuna con la lingua, sa di sale e di tentazione, la tentazione di afferrare qualcosa e ficcarmela nel ventre per cavarmi da sola questa cosa che mi ammazza, sì, adesso mi ammazza, crepo in un cesso di ospedale, da sola, perché non ho saputo tenere le cosce chiuse, perché non so com’è successo e perché se mia madre venisse a saperlo morirebbe di crepacuore.
Vomito di nuovo, ma stavolta vomito pezzetti verdastri, radici di tubero mal digerite. Il dolore non passa. Quella puttana della dottoressa non ha messo l’antidolorifico in questa cazzo di flebo. In uno scatto di lucidità e rabbia mi strappo l’ago dal braccio, una freccia di sangue si conficca nel muro di fronte a me. Afferro con entrambe le mani la tavoletta del water, provo ad alzarmi. Niente da fare. Mi rendo conto di respirare con affanno. Ho anche la tachicardia, i battiti gorgheggiano nei timpani, la vista cala, la saliva si raccoglie sotto la lingua. Sento di essere sul punto di svenire. Sputo nel water, punto un ginocchio a terra, poi il piede, mi ritrovo in una bizzarra posizione a metà tra la Pietà di Michelangelo Merisi e la Nascita di Venere di Botticelli, con l’unica differenza che ora ai conati di vomito si aggiungono anche delle curiose contrazioni. Forse sto per partorire.
Davanti allo specchio non riconosco il mio viso. Intorno agli occhi sono scoppiati tutti i capillari, la bocca è ridotta a una corda tesa, il colorito esangue. Sto per morire, è ovvio. Un altro crampo mi piega in due. Mi siedo sul cesso, non faccio nemmeno in tempo ad abbassare gli slip che sento un bolo, un grumo – no, troppo piccolo, da me sta uscendo un masso, un cocomero, una palla da demolizione – calare e bruciare e graffiare, e non ho bisogno di guardare per capire, basta il suo odore di ferro e pane, so che si tratta di sangue, di un mare di sangue, di un rosso alieno, fosforescente, che di certo non è mio.
Interno – Sera – Ostinazione
Torno a casa con un pannolone tra le cosce, come una vecchia decrepita incontinente. Nella borsa ho la seconda pillola, mi domando se mi farà soffrire come la prima. Non sono in grado di guidare, ma tant’è, se non lo faccio io non lo farà nessuno. La dottoressa mi ha trovata mezza morta in bagno, per carità cristiana ha rimesso nel braccio l’ago della flebo e ha aggiunto una dose massiccia di morfina.
“Capita alle donne più sensibili” ha detto.
Io non mi sento una donna sensibile. Ho appena abortito. Tra l’altro devo anche andare a lavoro. Torno a casa, mi tengo il pannolone, infilo la divisa, riprendo la macchina, attacco il turno. Nessuno si accorge di niente. Uno dei clienti mi dice persino che sono più bella del solito. Che ingenuo coglione. Non può davvero capire cosa significhi essere una donna e se lo sapesse si butterebbe sotto un tram, che magari non è in sciopero.
Non mi sento meglio, ma comunque faccio il mio. Ogni tanto sento un rimescolare, deliziosi terremoti sussultori che mi costringono a piegarmi a terra, facendo finta di aver perso una penna o una fattura. Quando è il momento del cambio turno per andare a cenare in mensa, mi avvio con sollievo verso il bagno. Proprio mentre cammino nel corridoio che porta alla zona riservata al personale, sento qualcosa di assolutamente inequivocabile: la sensazione ha origine dall’ombelico, si addensa come besciamella, all’improvviso, perché da troppo tempo sul fuoco, e scende e scorre verso il basso. Tutto a un tratto, tra le gambe, avverto la rotondità di un oggetto estraneo, invadente, prepotente. È caldo, caldo in modo insopportabile. Assomiglia alla sensazione di bagnato che si prova durante il ciclo, ma questo, questo, è diverso, grande, sta provando a scavallare.
Arrivo in bagno correndo, giusto in tempo per impedire a un rigagnolo di sangue di scorrere lungo la coscia e macchiarmi i collant color carne d’ordinanza. Non ho il coraggio di guardare. Ho dimenticato tutte le volte in questi giorni che sono andata in bagno sedendomi sulla tazza del cesso a occhi chiusi. Sento un plof. Insieme al rumore giunge un sollievo pacifico, una quiete, una liberazione, un vuoto perfetto. Comprendo con precisione chirurgica che non sono più incinta.
Interno – Notte – Rassegnazione
Mi domando se abbia senso che io prenda la seconda pillola. Provo un senso di colpa mostruoso al pensiero di aver espulso il feto in un cesso. Con tutta probabilità sarà finito nelle fogne e poi in mare. Lavoro in una città di mare. Non era questo che pensavo quando mi sono trasferita qui, non era questo il significato che volevo associare alla parola “mare”.
Non credo che farò il bagno quest’estate.
Accendo una sigaretta. Mi piacerebbe dire che ho smesso quando ho scoperto di essere incinta, ma no, non ho mai smesso. Pensavo di affumicarlo, per assorbimento, per inspirazione passiva. Invece ho dovuto incarnare una moderna Eva e partorire il Niente. Decido, mentre sono supina a fissare il soffitto, di farmi legare le tube di Falloppio. La pillola contraccettiva non basta. Affidarsi a divinità inesistenti men che meno.
Credo mi sia tornato anche il ciclo. La felicità per questa scoperta eclissa il senso di fallimento. Sono di nuovo sola. Decido di mandare un mazzo di fiori alla dottoressa gentile dell’ospedale. Forse lo è stata perché anche lei, alla mia età, ha fatto quello che ho fatto io. Le vorrei chiedere come ci si convive, se il tempo cancella questo strascico di dolore rimasto dentro.
Adesso dovrei fare la persona matura e chiedermi cosa mi ha insegnato quest’esperienza. Niente più sesso? Improbabile, nonché palesemente ipocrita. Maggiore attenzione? Già, forse per il primo mese o anno, ma poi certe cose succedono perché devono. Sigillarmi le ovaie dovrebbe essere sufficiente. Vivere la mia vita, vivere per davvero? Dovevo abortire per capire che, di fatto, ciò che faccio è respirare in modo involontario, per una semplice operazione meccanica del mio corpo, e che non posso prendermi nemmeno il merito per questo?
Cerco su Google: “Istruzioni per vivere”.
A illustrare: Lea Colie Wight – “Cottage Sink”