Malalengua, malafemmena, malaparata
Elia arrivò davanti all’edificio col fiatone e i pensieri un po’ in subbuglio. Si guardò intorno per accertarsi che nessuno lo avesse seguito, poi fece mente locale, ma si rese conto di non sapere a chi citofonare: suo cugino Salvo gli aveva detto solo di recarsi al numero 210 di Via Stazio e di chiedere di Donna Regina. Col polpastrello scorse tutte le caselle fino a trovarne due o tre che lo convincevano. Andò a caso e premette su “G.Panvino” segnato a matita. Una voce maschile gracchiò pronto ed Elia rimase muto. Pronto! Maledetti corrieri sfaticati. Scendo, aspiett’!
Maledisse Salvo per non avergli fornito indicazioni più precise. Tentò con la seconda casella, quella di un certo “Notaio De Rosa Russo”, scritto elegantemente, senza abbreviature. Lo trovò quasi un monito altero perché da dove veniva lui la gente aveva solo un cognome, al massimo un soprannome. Suonò, attese, prese una boccata d’aria. Poco dopo una voce femminile disse sali. Elia fece per rispondere, stranito da quella familiarità inaspettata. E non parlare con nessuno.
Il portone di legno emise un clac terribile, quasi uno sparo. Attraversò il cortile, imboccò la prima rampa di scale e, urtando contro qualcosa, per poco non perse l’equilibrio.
«Ué, ‘o fra’! Attenzione! Ma che hai visto un corriere di Amazon per caso?».
Elia fece un passo indietro, spaventato da quella comparsa inaspettata.
«Sapete a che piano sta la signora De Rosa?» riuscì a chiedere.
Non finì di pronunciare l’ultima parola che ricordò l’avvertimento della donna. Sul viso dell’uomo si aprì invece un sorriso malizioso.
«Hai capit’ alla vecchia! Allora non l’ha pers’o viziett! Tu sei quello nuovo?».
L’eco delle sue parole si perse nell’aria.
«Quanti anni tieni? A me m’ pari tropp uagliunciello tu… vieni da qua? Sei del quartiere?» insistette.
Elia gli sfilò velocemente di fianco.
«Sta al sesto piano! E nun correre, tant nun se move allà!».
Ignorando il consiglio, si precipitò di sopra, macinando gradini a due a due. Quando arrivò a destinazione, cercò di prendere fiato e ravviarsi i capelli riccissimi, ma la porta si aprì prima: si trovò davanti una donna alta, di circa sessant’anni, dalla chioma candida e gli occhi color oceano. Elia fu colpito non tanto dal suo aspetto, ma dall’intensità dell’odore che emanava: così diverso da quello delle ragazzine della sua età, tutte deodoranti e shampoo sintetici. Rimase per un attimo avvolto da quelle note di vaniglia e tabacco e decise subito che gli piacevano.
«Entra, veloce» ordinò lei, «Hai incontrato Panvino, vero? Prima o poi lo mando al creatore, quello spione di paese. Gabrié! Sarà sempre troppo tardi quando comincerai a farti i fatti tuoi!».
Una voce dal basso echeggiò nella tromba delle scale, si pazzea donna Regì!
La donna sbuffò, poi spinse Elia dentro.
«Che caldo» esordì lui, pensando che un’opinione sul meteo avrebbe rotto il ghiaccio, «Ma non ce l’avete l’ascensore nel palazzo?».
«Niente domande, togliti le scarpe».
Elia obbedì, soprattutto per avere il tempo di riprendere fiato e dare un’occhiata in giro: l’appartamento era enorme, luminosissimo, con una vetrata che regalava una vista sul golfo di Napoli da cartolina. L’arredamento era quasi tutto bianco: divani, tappeti, librerie, tessuti, con l’unica eccezione di un pianoforte verticale e un grosso gatto rosso, che lo stava osservando con aria amichevole.
«Come si chiama?» chiese, avvicinandosi per accarezzarlo.
«Siediti».
Elia si bloccò a mezz’aria. Imbarazzato, raggiunse la poltrona. Il gatto lo seguì.
«Non ci perdiamo in chiacchiere» disse lei, in piedi vicino alla vetrata, «Quanti anni hai?».
«Diciotto».
«Sicuro?».
«Eh».
«Lo sai perché sei venuto qui?».
Elia abbassò lo sguardo, incontrando gli occhi pigri del micio.
«Salvo ha detto che mi potevate aiutare con quella questione, quel fatto dei soldi…ve l’ha spiegato, no?».
«Quanto?».
«Diecimila».
Regina fece una smorfia quasi consapevole. «E a chi li devi restituire?».
«A Pepp’o’nir» rispose, più sicuro, «È iss che s’occupa degli spacci nella zona mia».
Regina si stropicciò la fronte. «Non mi dire che ti droghi pure».
«Macché, io la vendo solo».
«Non la vendi bene se hai diecimila euro di debiti».
Elia ebbe un sussulto d’orgoglio. Il gatto, intanto, si strusciò contro le sue caviglie.
«Me li hanno fottuti» ribatté, «Quelli di un altro rione, m’hann fatt ‘o sgarr».
«E ti hanno detto che io potevo risolvere la situazione».
«Non lo so, me la potete risolvere? Sennò so’ morto entro domenica».
«Ti costerà tre mesi».
«E che so’ tre mesi?».
«E farai tutto quello che dico».
«Meglio sotto ‘na femmena ca sotto terr».
Regina serrò la mascella, mostrando un paio di fossette infantili.
«Pure poeta stavolta».
Il gatto prese a fare le fusa, rotolandosi sulla schiena. Elia lo guardò, intenerito, poi chiese con lo sguardo il permesso di accarezzarlo.
«Allora come si chiama?» chiese di nuovo.
«Niente domande. Torna domani, alle sette di mattina, e portami due sfogliatelle ricce, una bottiglia di latte per lui e un pacco di Marlboro rosse».
«Alle sette?».
«Per tre mesi, lo farai tutte le mattine, anche di domenica. Dì al tuo amico che avrà i soldi. Adesso vattene».
*
Erano passate un paio di settimane da quando Elia si era presentato a casa di Regina e non riusciva ancora a trovare il coraggio di chiederle se avesse mantenuto la parola. Lanciò l’ennesima occhiata al cellulare, sperando in una conferma di Salvo, poi ricordò il motivo per cui si trovava di fronte al frigo: aveva una terribile sete. Gli sportelli erano così lucidi che riuscì a distinguere bene la sua sagoma: non si riconobbe, eppure si sentì tanto scemo, e quasi si pentì di non essere morto per mano di Pepp’o’nir.
Pregò dentro di sé che mai nessuno venisse a sapere come s’era dovuto conciare.
Quando tornò in soggiorno, Regina era dove l’aveva lasciata, seduta sul divano con le gambe accavallate e l’ennesima sigaretta tra le dita. Aveva mangiato una delle due sfogliatelle che lui aveva portato, mentre il gatto stava rosicchiando la seconda. Non parlava mai molto: gli ordinava cosa fare con poche fulminee frasi e poi se ne stava ferma, con gli occhi fissi a scrutare il vuoto.
Elia tornò al suo posto, uno sgabello vicino alla vetrata, suo perché Regina gli aveva detto così. Non sapeva dove mettere le mani, goffo com’era in quel ridicolo vestitino a fiori, aderente, scollato, fuori luogo, e rimpianse di non aver portato con sé il bicchiere d’acqua. Regina aveva persino ordinato che indossasse delle infradito con un pompon rosa che gli mordevano la pelle tra le dita. Per fortuna non c’erano specchi in quella stanza: preferì non pensare all’aspetto che doveva avere, certamente curvo su se stesso, un pugno di fiocchi e merletti rosa in mezzo a tutto quel candore accecante.
Per celare l’imbarazzo, imitò Regina e si mise a guardare il panorama: il Vesuvio spiccava contro il cielo limpido, la superficie luccicante del mare punteggiata da una miriade di barche a vela. Gli sembrò di essere così vicino a quella serenità, ma allo stesso tempo fuori campo, come una comparsa, un attore di second’ordine. Non riusciva a comprendere cosa ci facesse lì: Regina non gli chiedeva mai niente, né di intrattenerla, né di cucinare, né di pulire, voleva solo che restasse fermo e in silenzio, vestito da donna. Il primissimo giorno che gliel’aveva detto, Elia era arrossito, un po’ confuso, un po’ divertito, convinto fosse uno scherzo. Quando poi lei lo aveva condotto davanti a un armadio a quattro ante stracolmo di abiti femminili, aveva smesso di sorridere.
Ne indosserai uno diverso ogni giorno, aveva detto, e lui aveva provato a chiedere spiegazioni. Lei si era voltata e l’aveva lasciato impalato con mille dubbi.
Le giornate allora trascorsero in quel modo per un po’: Elia portava le sfogliatelle, il latte e le sigarette, se ne stava zitto e muto, cambiava vestito ogni giorno e andava via poco prima di cena.
Ogni tanto, scendendo a piedi, incrociava Panvino che lanciava una battuta o due, quasi sempre marcando il fatto che lei fosse troppo vecchia ma poco depravata per uno come lui. Allora una sera provò a chiedere a suo cugino Salvo, consumato da una curiosità inappagata.
«Boh, a me domandi?» rispose il ragazzo, «Ij sacce sul che è ricca assaje».
«Ma com’è che sta sola? I figli, il marito? Non li tiene?».
Salvo sbuffò, grattandosi la pancia.
«Mi sa una disgrazia con la figlia. Aggia dumannà a mammà».
Elia fu costretto a tacere sulla questione del travestimento.
«Che disgrazia?».
«’Na vot’ ci ho mandato n’altro ragazzo, uno di Forcella» aggiunse Salvo, «È stato dalla signora quasi quattro mesi, dormiva pur’ là, e ha raccontato che come pigiama si doveva mettere una vestaglia col pizzo, c’ pienz? Nu’ uaglion alto alto e gruoss com ‘na muntagna cu ‘na vestaglia ‘e pizz?».
Elia ingoiò il rospo.
«Cos ‘e pazz…mi sa che pure la parrucca si doveva mettere».
«Vabbé, che esagerazion…».
«E dumand’ tu se non ci credi. Mica si sul tu? Sai quanti ci so’ andati? Dicono tutti la stessa cosa, anzi, secondo me non confessano p’ nun fa’ figur ‘e merd, ma qualcuno se l’è scopato pur’…perciò la chiamano Regina ‘a zuzzosa».
«Ma chi? Donna Regina nun fa ‘sti cos! È una brava persona».
«Sient, se è brava o no, a me nun me ne fott. Basta che ha pagato a Pepp’o’nir, po’ a casa sua può fare pur ‘o circ».
Elia tacque, sollevato. Il suo sollievo però durò poco.
«Oh ma, dimm ‘na cos…» aggiunse Salvo, abbassando la voce, «È ‘o ver che ti fa vestire da femmina pur’ a te? Girano voci qua, che sì diventat nu’ poc femmeniell… nu poc… capisc a me!».
«Ma quando mai!».
«Vabbé ma che fa? ‘O sapene tutt quant che chella è nu’ poc strana».
«Chi l’ha messa in mezzo sta voce? Chi l’ha detto?».
«Eh, so’ voci».
«E tu dì che nun è ‘o ver!».
Salvo gli mise un braccio intorno alla spalla.
«Elì, Pepp’o’nir sta tranquill, è questa la cosa important. Tu nun t’ preoccupa’, ‘a gent po’ si scorda».
Elia ammutolì, sopraffatto da una sensazione indecifrabile tra malinconia e risentimento, senza nemmeno sapere perché.
*
«Non lo so suonare il pianoforte».
Regina fece la solita smorfia, una fossetta che le forava la guancia. Quella mattina portava un turbante in testa, tutto nero, di un nero troppo scuro per i suoi capelli bianchissimi. Indossava poi un caftano, nero pure quello, lungo fino ai piedi. Il contrasto tra la sua figura e quella casa splendente quasi ferì lo sguardo di Elia. Il gatto rosso intanto si lasciava grattare la pancia.
«Sai suonare qualcosa?».
Lui prese tempo, non tanto per preparare una risposta, quando per non deluderla dopo tutti quei silenzi.
«Un poco, la chitarra» mentì.
Regina mugugnò, poi lo fissò intensamente per qualche secondo ed Elia arrossì.
«Non mi piace questo vestito che hai scelto oggi» disse, laconica, «Metti quello rosso».
E si accese una sigaretta, forse la decima di quella mattinata ancora giovane. Elia, davanti al guardaroba, imprecò. Dopo lunghi minuti di indecisione, afferrò un abitino corto, di seta, color corallo. Si sfilò quello che aveva addosso e restò per un attimo in mutande. Si toccò, indugiando, come a voler accertare che la sua virilità fosse ancora intatta. Ripensò alle parole di Salvo, alle voci che la gente aveva iniziato a mettere in giro e imprecò di nuovo, indeciso se sentirsi più arrabbiato o più imbarazzato. Diede la colpa a se stesso, per essersi cacciato in quella situazione, ma anche a Regina che lo costringeva a travestirsi. D’improvviso allora desiderò masturbarsi.
Si infilò le mani nello slip, ma non fece in tempo a concretizzare che si accorse con terrore che Regina lo stava osservando poco fuori dalla stanza. I suoi occhi blu sembravano lucidi, forse arrabbiati, delusi. Elia indossò in fretta e furia il vestito rosso, poi ravviò i ricci ribelli.
Rimase in piedi, scalzo, le mani che gli formicolavano. Si guardarono l’un l’altra, nell’imbarazzo e nell’inerzia più totali, fin quando Regina non decise di dargli le spalle e di tornare da dov’era venuta. Quando Elia trovò il coraggio di raggiungerla, lei era sempre al solito posto, adagiata sul divano, una nuvoletta di fumo poco sopra il suo capo e il gatto a pancia all’aria.
«Donna Regì…» sussurrò, «Vi chiedo perdono».
«Lo sai perché non esco?».
Elia tacque.
«Non esco perché la gente si prende la libertà di definire chi sono: per loro, io non sono Regina De Rosa Russo, per loro sono ‘a vecchia, ‘a zuzzosa, ‘a malaciorta…».
Elia avrebbe voluto fare mille domande. Trascorse qualche minuto, lui sempre in piedi, scalzo, con quel vestito troppo stretto, troppo sensuale, e la silhouette di lei stagliata contro il cielo, severa e priva di sfumature.
«Il gatto si chiama Ninì» aggiunse, «Mia figlia voleva prenderne un altro, una femmina, così si sarebbero fatti compagnia a vicenda. Ma non ha fatto in tempo».
Elia deglutì. Istintivamente sfiorò la stoffa dell’abito, con timore e un po’ di inquietudine.
«Che è capitato?».
Regina fece spallucce e rispose senza dire niente, lui invece capì all’improvviso il perché di quegli abiti, di quei silenzi, di quella casa così bianca, così sterile.
Pesò bene le parole prima di aprire bocca.
«Perché volete la compagnia dei maschi? Non è meglio una femmina come vostra figlia?».
Regina sospirò profondamente. Sembrò che anche lei stesse pensando a cosa dire, a come dirlo e perché. Si accese un’altra sigaretta, mentre il gatto, forse spinto da un’empatia improvvisa, andò ad accoccolarsi ai piedi di Elia.
«Ne ho avuta qualcuna» rispose lei, la voce meno salda, «Ma hanno sempre qualcosa che non va. Mia figlia era bella assai, aveva i capelli lunghi e lisci e la pelle sempre abbronzata e questi occhi grandi, ma grandi, come castagne mature».
Elia non riuscì a immaginarla e solo in quel momento si rese conto che in casa non c’era nemmeno una foto, né di lei né di nessun altro.
«Le ragazze non vanno bene» concluse, secca, «O le somigliano troppo o troppo poco».
Seguì un silenzio curioso, per nulla imbarazzato. Un silenzio che doveva esserci, sigillo perfetto di quella conversazione. Entrambi lasciarono scorrere il tempo, i secondi, i minuti, le ore che in quella casa sembravano rincorrersi più lentamente del consueto.
«Sono finite le sigarette. Cambiati e valle a comprare».
*
Quella confessione stentata aveva cambiato le carte in tavola: Elia non ce l’aveva più con Regina per la storia del travestimento. Non poteva dire di comprendere, ma la sua confusione si era tramutata in pietà, in tenerezza. Con il passare delle settimane il loro rapporto si era fatto meno formale, meno arido, ed Elia non aveva potuto che affezionarsi sia a lei che a Ninì.
Un affetto che però aveva una scadenza sempre più vicina.
Perciò, una mattina caldissima di luglio, comprò le solite sfogliatelle, il latte e le sigarette, poi pensò di aggiungere anche un mazzo di roselline bianche. Quando arrivò a casa di Regina gliele porse sbrigativo, cercando di celare il batticuore.
«Ho pensato che andavano bene di questo colore».
Regina sorrise ed Elia, infiammato dal suo profumo e da uno slancio irrazionale, la baciò sulle labbra. Lei non si scostò subito, ma attese giusto il tempo di avvertire calore e trasporto, sentimenti che erano morti dentro di lei da tempo.
«Perché?» chiese, allontanandosi.
Elia batté le palpebre.
«Come perché?».
«Non sta bene. Non vorrai mica che Panvino si pigli la ragione?».
«Ma che me ne fotte di quello a me!».
Regina lo guardò come se volesse bucargli il petto. Fu uno sguardo severo, risoluto, adulto. Elia capì di aver fatto un errore madornale.
«Vabbè, facciamo finta che non è successo niente» tentò goffamente.
«Quanto manca al termine dei tre mesi?».
«Boh, non me li conto i giorni».
«Bugiardo. Mancano due settimane».
Elia tacque, improvvisamente angosciato.
«Tu finisci questi quindici giorni, ti comporti come al solito e poi io e te non ci rivediamo mai più».
«Ma…perché? Che ho fatto di male?».
Regina si addolcì e gli accarezzò una guancia.
«Queste sono solo fantasie, Elì, so’ pazzielle. Trovati una bella ragazza, o un bel ragazzo, è lo stesso, ma per bene. E basta con quelle porcherie, meglio un lavoro onesto e pulito».
Elia aprì la bocca per protestare, ma lei gli aveva già voltato le spalle, preferendo sistemare le rose in un vaso piuttosto che affrontare il suo sguardo mesto. Elia si precipitò fuori dall’appartamento e poi giù per le scale. Incrociò di nuovo Panvino, che provò a fare una battuta delle sue.
«Gabrié, ma vafangul ‘na vota e bona!» urlò, «Ce scassat’o cazz!».
*
Un mesetto dopo, Elia si trovò a passare di nuovo nei dintorni dell’appartamento come un cavaliere preoccupato per la principessa nella torre. Si sedette su un muretto, gli occhi all’insù: da quell’angolazione riusciva a vedere una piccola porzione della vetrata, dove si sedeva sempre lui, il suo posto. Subito gli balzò in braccio un gatto rosso, sornione ma attento, come riconoscesse il luogo al quale era sempre appartenuto.
Elia lo liberò dal guinzaglio e si mise le mani in tasca.
«Che dici, Ninì, va bene qua?» chiese al micio, «La riusciamo a vedere oggi?».
A volte era fortunato e Regina si spingeva fino alla vetrata, altre intravedeva solo il suo nuovo ragazzo da compagnia, meno riccio, meno bello, vestito con gli stessi abiti che aveva indossato anche lui. Si era beccato una pantofola in testa qualche giorno prima, forse perché aveva fatto troppe domande.
Elia aveva riso, un po’ divertito, un po’ triste, e aveva ricordato la sua ultima ora a casa di Regina: la donna non aveva detto granché, si era solo raccomandata e gli aveva allungato un paio di banconote da cento euro che però lui aveva rifiutato. Poi aveva indicato il gatto e gli aveva detto di portarlo via, che sarebbe stato meglio con lui e avrebbe finalmente avuto la compagnia che si meritava. Elia aveva accettato e se n’era semplicemente andato, senza nemmeno dirle grazie.
A volte beccava Panvino che si affacciava dal suo balcone allungando il collo per sbirciare qualche piano più su. Elia si era ripromesso di lanciargli delle uova marce insieme a Salvo: era sicuro che Regina non avrebbe avuto obiezioni in quel caso.
Sospirò, accarezzando distratto il gatto sulla testa. Rimase ancora un po’, sperando di vederla, ma quel giorno la fortuna non fu dalla sua parte.
«Ninì, oggi nun è cosa».
Indugiò un ultimo istante, poi tirò fuori dalla tasca dei jeans una piccola bustina piena di pastiglie colorate e sorridenti. Se la rigirò tra le dita, senza osservarla per davvero.
«Torniamo domani, sì? Mo’ andiamo a fare altri due debiti con Pepp’o’nir».
Fotografia di Francesco Sammarco