Oggetti smarriti
Mi pare di tornare a quando andavo a trovare mia nonna, mi dice, mentre continua ad esaminare le mensole del frigorifero. Sembra che la cosa lo diverta. Nell’ordine, mi fa sapere che: le pannocchie sono scadute da settimane, il salmone ha un colore che non ispira fiducia, la rucola è andata a male e le mozzarelle la stanno seguendo a ruota. Finirà tutto nel cestino.
Che dovresti decisamente vuotare, puntualizza. Forse dovrei fare anche a te una sorta di inventario, come facevo con lei. Concordare un menù settimanale. È questo che ti serve? mi chiede, e sento che lo fa sinceramente. Pensi ti aiuterebbe?
Io nemmeno mi ero resa conto che il mio frigorifero fosse tanto popolato. Contemplo le mensole incrostate, mentre lui tiene lo sportello aperto; una barbabietola esangue svetta tra i pochi sopravvissuti come un triste presagio. Afferra la scatola delle uova e la pone accanto ai fornelli, al centro del piano lavoro. Mi guarda negli occhi, sincerandosi di avere la mia attenzione.
Queste ricordati di mangiarle entro domenica, dice. Ce ne sono ancora tre.
Niente mi pare più lontano ed estraneo di quelle tre uova di gallina, a partire dalla confezione, di un’azienda il cui logo non mi sembra di riconoscere. Le avrò comprate davvero io, e nella prospettiva di farci che cosa? Cosa ne è stato del quarto uovo, quello che completava la confezione? Ne ho fatto un’omelette? Un uovo sodo? Forse strapazzato.
Forse mi è caduto.
Il pensiero di quell’uovo mancante mi fa venir voglia di piangere, da solo riesce a tirare a galla tutta la stanchezza della giornata appena trascorsa. Penso a come riesco a gestire dignitosamente i miei tanti impegni di lavoro -tutte quelle mail, gli incontri su Zoom, le video call, le scadenze, le incombenze -, a come fronteggio il ritmo di un’agenda sempre più ansiogena, che sembra voler fagocitare ogni momento di tranquillità che mi è rimasto. Malgrado tutto mi riesce. Sto in piedi. Sono brava. Ma poi in questi piccoli dettagli emerge tutta la vastità del mio smarrimento. Quel cazzo di uovo
Da quando non dai una pulita, chiede, e qui il suo tono comincia a piacermi un po’ meno.
Qualche giorno, rispondo.
Non la beve, si guarda attorno, i suoi occhi sorvolano la stanza, posandosi qua e là come mosche. Indugiano sul tavolo da pranzo su cui sono ammonticchiate un po’ di stoviglie, sul tappeto lacero, sul divano rivestito di documenti e barattoli di yogurt, sui pesanti scaffali della mia libreria, sull’attaccapanni mutilato; un giorno, d’improvviso, i suoi bracci hanno ceduto, come i ramoscelli di una pianta sulla quale è caduta troppa neve. Ho lasciato le tante giacche -estive, invernali- sdraiate lì dove sono cadute. Non ho voluto raccoglierle perché il gatto ama nascondervisi, e a me piace guardarlo mentre fruga tra le stoffe e si ritaglia un suo spazio. Immagino sia lì anche in questo momento.
È un gattone allegro e pasciuto, malgrado la FIV e la vita innaturale a cui l’hanno costretto la malattia e l’addomesticamento. Non sembra avere nostalgia del suo passato randagio; riposa, mangia, e sembra che queste due sole cose gli bastino. Una coperta e una manciata abbondante di Purina al salmone. C’è stato un tempo in cui potevo accarezzarlo per ore, godendomi le sue fusa, assorbendo un po’ della sua calma.
A volte mi scopro ad invidiarlo, e nel farlo mi spavento.
Non so perché non ti prendi una donna delle pulizie, insiste. Non voglio farti i conti in tasca, ma penso proprio tu te ne possa permettere una.
Fino a qualche settimana fa ce l’avevo, una donna delle pulizie. Maria. Indossava sempre la stessa ampia gonna a fiori, che a me era sempre parsa quanto di più scomodo si potesse indossare in simili circostanze. Prima che cominciassi a lavorare da casa, veniva da me ogni lunedì. La incrociavo la mattina, prima di uscire; mettevo la moka sul fuoco e le snocciolavo i miei desiderata: i vetri del soggiorno, le piastrelle del terrazzo, i pavimenti. La sera rincasavo e i vetri erano puliti, il terrazzo risplendeva sotto le lucine artificiali, tutto aveva un posto e sembrava pieno di senso fino a scoppiare. Oggi non potrei nemmeno pensare di lavorare con lei attorno, per quanto la sua sia sempre stata una presenza leggera e rassicurante. Non riesco ad immaginarla mentre spolvera i miei vasi vuoti, mette le mani tra i miei panni, solleva le pesanti serrande. Non riuscirei più a guardarla mentre fa entrare la luce, mentre apre spazi, mi libera dal superfluo e dagli oggetti che vanno accumulandosi da mesi perimetrando i miei spazi e la mia vita. Mi servono, questi limiti. Mi costringono a restare nei bordi, mi permettono di non perdermi.
Così le ho detto che con il telelavoro avrei avuto molto più tempo: mi sarei arrangiata, anche se l’appartamento non sarebbe mai più stato così luminoso e pulito. E infatti non lo è più stato.
Non credo di essere più uscita in terrazzo, da allora.
A Natale le ho mandato un biglietto di auguri, lei ha fatto lo stesso.
Ma che è successo? esclama, e il suo tono vira verso l’allarmato, mentre solleva uno dei pesanti cuscini del divano.
È caduta della cenere, rispondo. Fumando.
E ha preso fuoco?
No. Non proprio.
Comincia ad ispezionare il divano, in modo tanto meticoloso quanto violento. Quando solleva i cuscini, i fogli volano dappertutto; scivolano e raggiungono quelli accatastati sul pavimento del soggiorno. Mi dico che più tardi dovrò separarli, e il pensiero mi fa salire la nausea.
Per quanto il suo interesse in una certa misura mi scaldi il cuore, mi maledico per la leggerezza con la quale gli ho permesso di entrare in casa mia. Credevo fosse passato per recuperare alcuni attrezzi che aveva lasciato in cantina. Contavo di scendere con lui, riconsegnarglieli, scambiare due parole di circostanza e salutarlo. Credevo che oggi nessuno dei due sentisse più il bisogno di alimentare i resti di un’amicizia che col passare degli anni era andata spegnendosi. Invece mi ha chiesto di entrare e io non ho saputo dirgli di no, non ho saputo imbastire una scusa che giustificasse la maleducazione di un rifiuto. Ma non volevo entrasse in casa mia.
Mi pare di aver perso quel poco di controllo che ancora avevo sui miei desideri; esprimerli mi affatica, e in questa fase mi risulta più facile mettere a tacere tutto quello che reclama una qualche tipo di azione. Chiedergli di andarsene, oltre che mettermi a disagio, sarebbe stato complicato. Aprirgli la porta invece è stato semplice: mi è costato un gesto solamente. Una parte di me forse immaginava cosa sarebbe successo, una parte forse addirittura lo desiderava. C’è qualcosa che mi è parso liberatorio, riposante, in quella resa.
Cristo, vivi come un insetto, esclama, come se volesse mettere un punto al mio monologo interiore, ricordandomi quanto terrena e prosaica sia la mia esistenza.
Non ha tutti i torti: mi nascondo. Gli altri per me oggi sono questo: due occhi che ti osservano, sopracciglia che si sollevano dubbiose, una bocca che ti chiede ragione dei tuoi gesti e quando rimane serrata lo fa per poterti giudicare in silenzio. Questa vita mi risulta più congeniale, ho imparato ad apprezzarne anche i difetti. L’abbraccio per intero, con il suo buio perpetuo, le persiane sigillate, l’afa persistente che ha fatto deperire tutte le mie piante, il plaid logoro in cui mi avvolgo la sera, il ticchettio dell’orologio che non cede e urla ritmicamente le sue ragioni dalle pareti della cucina, il televisore che getta la una luce bluastra sulle pareti disadorne e mi avvolge col suo rumore bianco. Ho scoperto che così è tutto più semplice.
E mentre ripenso alla dolcezza delle mie abitudini, lui si comporta come se volesse strapparmi di dosso quel poco che mi rimane. Incurante di tutto, ha smesso di parlarmi e continua a spostare, sollevare, rimuovere, vuotare. Il mio silenzio fa sembrare tutto ancora più strano. Ma io non so cosa dire.
Le sue mani si allungano dappertutto: dai cuscini sono passati alla poltrona, dalla poltrona alla mia camera da letto. Lo lascio fare, non gli chiedo perché si stia comportando così, cosa stia cercando. C’è un odore che non gli piace, dice, c’è qualcosa che non torna, dice.
Quando un momento dopo emerge dalla mia stanza il suo volto è cambiato, la sua espressione è indefinibile, si situa da qualche parte tra il disgustato e il turbato. Non mi piace come mi guarda, temo stia per emettere un qualche tipo di giudizio. Ma quando parla la sua voce è flebile, e mi sorprende.
Da quanto tempo non vedi il tuo gatto?
Foto di Francesco Sammarco