Paillettes e il fondo del mare
Nello sgabuzzino aleggiava una cappa di profumo così dolce da risultare stomachevole.
Le pareti erano umide, di cemento grezzo, più che una stanza sembrava una cella. Eppure lo spirito era allegro, boccette e flaconcini di mille colori lampeggiavano nel grigiore, e poi rossetti sparsi, foulard a fiori, parrucche piene di cipria, collant, scarpe col tacco, tanta cenere, fumo.
Lo sgabuzzino era grigio e rosa, grigio e blu, grigio e oro. C’erano anche molte paillettes.
Tre luci d’ottone illuminavano altrettanti specchi messi in fila. Poi tre sedie, tre mensole, un telefono in bachelite appeso alla parete e l’arredamento finiva lì.
Gli abiti di scena, le piume, i boa marcivano a terra o su degli appendini ricavati da grucce monche. Su una delle mensole, tra mascara esausti e slip di pizzo, troneggiava la testa mozzata di un uomo, il sangue quasi nero che colava a pezzi grumosi sul pavimento. Sorrideva, come se fosse felice di stare ancora in compagnia.
«Spruzza ancora un po’ di profumo, toh.»
La silhouette della prima ragazza nello sgabuzzino, Marie, si staccò dal muro e allungò un flacone viola.
«Questo schifoso puzza più ora che da vivo» aggiunse.
La seconda, che aveva scelto come nome d’arte Jeanne d’Arc ma che tutti chiamavano Coco, lasciò dondolare il polso e sparse dell’altro profumo.
L’aria nella stanza divenne irrespirabile.
«Di certo puzza meno di quello dell’ultima volta» aggiunse la terza, Madame Fleur, detta solo Fleur, seduta a terra a gambe incrociate, un tanga che le comprimeva pericolosamente i testicoli e la millesima sigaretta tra le dita.
«Com’è che si chiamava poi?» chiese Coco.
Aveva una vocina sottile, allenata fin dall’infanzia a nascondere le tonalità troppo profonde. Era anche quella più civettuola – portava sempre gli orecchini, anche quando dormiva – e si accaparrava le parrucche, i trucchi e i regali migliori. Proprio la sera prima un cliente le aveva fatto recapitare una radio giradischi in rovere. Marie lo aveva valutato come un gesto da zotico e per un pelo non lo aveva fatto cadere.
«Gino qualcosa» replicò Fleur, con voce roca e profonda.
Marie, perennemente in camicia e la più pratica delle tre, scansò il caos che si era impossessato del pavimento e lanciò un top laminato sulla testa di Gino-qualcosa. Poi, seria, incrociò le braccia sul petto duro.
«La dovete proprio piantare con questa storia, voi due. È già il quinto quest’anno.»
«Se l’è ben meritato» protestò Coco, «Come tutti gli altri.»
«Allora vacci tu a buttare la testa a mare stavolta.»
«Vado in scena tra mezz’ora!»
«Ci vado io, basta che la finite con questi battibecchi da froci.»
Fleur si sollevò da terra, buttò il mozzicone su un cumulo di abiti e si sedette davanti al suo specchio, quello su cui Coco aveva posato la testa. Velocemente ma con cura cominciò a staccarsi le ciglia finte, poi il neo, la calza sui capelli, sciolse il trucco e il rossetto e infine, dopo essere ritornato Florindo Pantani, applicò una crema viso sbiancante, perché ciò che odiava più di se stessa era la pelle olivastra ereditata da suo padre.
Diede uno sguardo a Gino-qualcosa. Anche lui aveva la pelle olivastra. Fece spallucce e si disse che era un bene che quel porco fosse morto.
Coco le si sedette di fianco, davanti al suo specchio – l’ordine era sempre questo, Marie, Coco nel mezzo e infine Fleur – si osservò, sollevando il mento, la solita parrucca biondo cenere e gli orecchini dorati.
«Puoi prendere qualcosa da mangiare quando torni, tesoro?»
Fleur la guardò attentamente, soffermandosi sulle sue labbra carnose, sull’ovale del viso perfetto.
«Cosa vuoi?»
«Puoi prendere un po’ di quella pasta al pesto pronta che fanno in piazza della Raibetta?» disse Marie. «Com’è che si chiama quel buco?»
«Gran Ristoro» rispose Coco.
«Quello!»
Fleur annuì, si accese un’altra sigaretta e infilò la testa di Gino-qualcosa in un sacchetto, poi in un altro e in un altro ancora. Infine infilò se stessa in un paio di pantaloni di fustagno e un giaccone in stile marinaro. Quando si controllò allo specchio vide un estraneo.
«Cerca di non ammazzare nessuno in mia assenza» raccomandò a Coco, «E date una pulita a quel sangue.»
Quella replicò con un bacio volante.
Fleur attraversò il corridoio strettissimo che dallo sgabuzzino portava alla sala principale del club, strapieno anche quella sera. Si fermò un secondo a guardare chi ci fosse sul palco, prima dell’entrata di Coco: una delle ragazze si stava esibendo in uno spettacolo di burlesque, con delle piume rosse che la coprivano a malapena. Ma d’altra parte, lei lo sapeva bene, i clienti andavano lì per guardare: cercavano di nascondere gli sguardi e i sorrisi liquidi dietro al fumo di sigaretta, o le mani agitate nelle tasche dei giacconi, ma si crogiolavano nella consapevolezza che quelle donne fossero lì e non potessero andare da nessun’altra parte.
Il locale si chiamava “Il club delle gigolette” ma, come valeva anche per loro, la gente aveva scelto un altro nome e diceva semplicemente andiamo alle Lette. Andare alle Lette significava pagare per guardare, qualche volta toccare e qualche volta morire.
C’era gente che arrivava a Genova solo per vedere loro tre esibirsi, perché era strano, era disgustoso che tre uomini si travestissero da donna per far divertire qualcuno, eppure funzionava, la macchina faceva soldi e il proprietario del locale aveva addirittura pensato di tenerle vicine e farle dormire al piano di sopra, in uno sgabuzzino ancora più piccolo di quello dove si preparavano per andare in scena, con tre letti e tre pitali, e nessun affitto da pagare.
Che generosità, pensò Fleur, un onore quasi.
Ma sempre meglio che restare a casa, dove il padre la picchiava e la costringeva a guardarsi nuda allo specchio, per ribadire cose che non dovevano essere ribadite. Fleur aveva ucciso anche lui perché, più di tutti gli altri, se l’era meritato.
Uscì dal club. Nessuno la riconobbe. Attraversò via Garibaldi, superò Santa Maria delle Vigne e Palazzo San Giorgio con la sua facciata ampollosa e posticcia, e sbucò di fronte al mare, proprio all’imbocco del Ponte Spinola.
Il vento era freddissimo, nonostante fosse quasi primavera, e un’appuntita pioggerella cominciò a cadere. Fleur attraversò tutto il ponte, arrivò fino alla fine e, senza nemmeno darsi un’occhiata intorno, gettò la testa di Gino-qualcosa in acqua. Si accese una sigaretta mentre osservava il fagotto sparire verso il fondo e si ritrovò a pensare che il poveraccio non si sarebbe sentito solo insieme agli altri.
Il primo in assoluto, tre anni prima, era stato un errore madornale. Aveva visto Coco sul palco e se n’era innamorato. Ovviamente. Poi aveva chiesto al proprietario del locale un incontro privato. Quando aveva scoperto che non era una donna, una donna come intendesse lui, aveva provato a strangolarla. Coco si era difesa, fracassandogli la testa contro lo spigolo della mensola. Quello fu il momento in cui scoprì che le piaceva ammazzare la gente, soprattutto quella che provava a maltrattarla senza motivo. Una liberazione, come un orgasmo solido, meno fugace.
Fleur si era occupata del corpo, come aveva fatto con suo padre, perché era la più alta e la più forte. Coco era un fuscello e Marie non ne aveva voluto sapere.
Poi arrivò il secondo, e il terzo, e il quarto. Anche loro avevano fatto quello che facevano tutti: trattarle come scherzi della natura. Fleur e Coco avevano perso il conto e la sensazione regalava un bizzarro senso di pace, come se togliere di mezzo quella feccia fosse un favore al mondo, una catarsi necessaria.
Avevano iniziato a sceglierli tra la folla, tra i clienti del club: quelli che parevano i più disgustosi, i più infami, ce n’erano sempre due o tre che spiccavano, a volte si palpavano in sala mentre Coco si esibiva, o le insultavano chiamandole mostri, puttane, o ficcavano le mani dove non dovevano per poi meravigliarsi della sorpresa.
Solo con Coco però. Quando invece si esibivano lei e Marie se ne accorgevano tutti che non erano vere donne.
Vere donne.
Fleur si chiese che volesse dire essere vere donne. Non era sicura di averne incontrate nella sua vita: l’unica che più vi si avvicinasse era Coco. Non aveva avuto sorelle né amiche e sua madre si era gettata sotto un treno troppo presto, forse perché aveva messo al mondo una persona che era una persona soltanto a metà.
Lanciò la sigaretta in acqua, poi tornò indietro. Si era fatto buio e aveva i capelli imperlati di brina. Quando entrò al Gran Ristoro si mise in fila, la solita cappa di fumo incollata al soffitto, contando a mente gli spicci che aveva in tasca. Sarebbero bastati per un paio di porzioni di pasta.
«Che ti do?» chiese l’uomo dietro al bancone.
«Quanto la pasta al pesto da portare via?»
«Trecento lire a porzione.»
«Due allora.»
Il tizio annuì, poi cominciò a riempire di linguine dei piatti di ceramica beige. Quando sollevò lo sguardo indugiò sul viso di Fleur una volta, due, poi lo distolse, poi ancora tornò a fissarla.
«Ma per caso ci siamo visti da qualche parte?» chiese.
«Non credo, a meno che non frequenti le Lette.»
«Chi io? Non vado in certi postacci da pervertiti» sbraitò. «Senza offesa.»
«Io non lo frequento: ci lavoro.»
L’uomo aggrottò le sopracciglia, dapprima confuso, poi illuminato. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Fleur lo vide pentirsi. Arrossì e si indaffarò a impacchettare i piatti.
«Sono seicento» blaterò.
«Guarda che non mordo.»
L’uomo fece una smorfia che voleva essere un sorriso, ma che riuscì tanto brutta proprio perché sincera.
«Belin, che lentessa! Facciamo notte?» sbottò il tizio alle sue spalle. Puzzava di pesce e cipolle.
«I piatti vanno riportati indietro lavati e tutti interi» sussurrò l’uomo dietro al bancone.
Fleur alzò le mani, poi gli fece un occhiolino e uscì dal locale. Si accese l’ennesima sigaretta. Sospirò. Certe volte si sentiva una fallita: era tutto uno show, tutta una finzione per non andare in mille pezzi.
Quanto rientrò nel club, Coco aveva finito la sua esibizione da almeno un’ora.
«Dove diamine sei stata?» chiese, isterica. «Muoio di fame!»
Le tolse di mano il sacchetto di carta e senza nemmeno sfilarsi il boa di piume dal collo iniziò a mangiare la sua pasta.
Marie alzò gli occhi al cielo. «Sei la solita egoista. Tutto ok con Gino?»
Fleur annuì, stanca, poi divise l’altra porzione. Mangiò senza appetito.
«Ho rimediato un altro cliente» disse. «Forse.»
Coco sollevò la testa bionda, gli occhi azzurri eccitati. «Un altro da buttare a mare?»
«Ancora con questa follia?» protestò Marie, in piedi, una linguina tra i denti.
«Fatti i cazzi tuoi, nessuno ti chiede niente.»
«Chi è? Lo conosco?» domandò Coco.
«Uno che ho incontrato stasera.»
Marie gettò il piatto sporco sulla mensola. «La prossima volta il sangue ve lo pulite voi.»
Due settimane dopo il tizio del Gran Ristoro si presentò al club. Fleur lo riconobbe mentre si sedeva in ultima fila, il colletto del cappotto che gli copriva quasi il naso. Lo vide mentre la osservava, seguiva i suoi movimenti, le sue forme, lo vide mentre le ficcava lo sguardo in mezzo alle cosce.
Come tutti gli altri, si concentrò sul suo perizoma rigonfio. Fleur non riusciva a capire: con tutto quel che di posticcio si metteva addosso, tra parrucche, trucco e abiti di scena, la gente si fissava sempre su quel punto, come se loro stessi ne fossero sprovvisti. Prima di ammazzarli gli chiedeva sempre il perché. Nessuno aveva mai fornito una risposta soddisfacente.
Una volta finito lo spettacolo, l’uomo la seguì dietro le quinte, cercando goffamente di mimetizzarsi col muro alle sue spalle.
«Ciao» bisbigliò.
«Non avevi detto che era un posto da pervertiti questo?»
Quello arrossì di nuovo. Aprì la bocca come uno stupido pesce, uno di quelli che facevano compagnia alle teste sul fondo del mare, poi decise di tacere.
«Vieni» disse Fleur, prendendolo per mano. Lo condusse in camera, dove dormivano lei, Marie e Coco, si distese sul letto, col perizoma in bella vista, poi attese. Voleva divertirsi. L’uomo non sapeva dove mettere le mani, dove posare lo sguardo.
«Come ti chiami?»
«Io? M-mario.»
«Te l’ho già detto che non mordo. Vieni più vicino.»
Mario obbedì. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
«Dovrai pagare, lo sai?»
Quello annuì. Fleur si sollevò, gli sfilò il cappotto, poi il maglione e infine i pantaloni. Era terribilmente eccitato, ma lei lo sapeva già. Era carino dopotutto, e sembrava anche gentile. Ma non smetteva di fissarla.
«Ti piace quello che vedi?»
Le guance dell’uomo diventarono viola. «Non lo so…non so nemmeno perché sono qui.»
Fleur gli tirò giù le mutande, poi sollevò un sopracciglio truccato. «Lo vedo.»
«No! Non toccarmi! Prima tu.»
«Prima io cosa?»
Mario indicò il perizoma. Fleur se lo sfilò senza tante cerimonie. Sapeva che effetto sortiva, alta com’era, le spalle larghe, gli occhi e la bocca grandi. Nonostante tutto il trucco, tutto l’impegno che ci mettesse per essere bella, gli uomini non la guardavano mai in viso. Mario non era diverso dagli altri.
«Perché?»
Mario la fissò come fosse acqua nel deserto.
«Perché non mi guardi in faccia?»
«Non lo so.»
«Nessuno di voi lo sa, eppure siete tutti qui. Tutto il mondo è qui.»
Fleur si avvicinò e gli stampò un bacio sulle labbra. Mario si tirò indietro, la stessa smorfia disgustata di quella sera.
«Non toccarmi, ti prego!»
«Certo, guardare ma non toccare, vero? Che sei venuto a fare qui? Volevi vedere con i tuoi occhi come siamo fatte? Ecco qua il mostro.»
L’altro non replicò. Fleur notò che era ancora eccitato.
«Sei un porco, come tutti gli altri.»
«Hai ragione! Faccio schifo!»
Fleur non rispose, un po’ sorpresa.
«Voglio toccarti io, ok? Tu non fare niente, non muoverti.»
Si avvicinò con cautela, spaventato più dalla propria intraprendenza che da Fleur. Il suo sguardo venne calamitato verso il basso.
«Sei messo bene, eh?» constatò con un sorriso sbilenco.
Fleur sentì un conato di vomito montarle in petto. «Sono una donna.»
Mario si lasciò scappare un grugnito nervoso. Si strizzò i testicoli, poi si avvicinò a Fleur. Anche lui puzzava, puzzavano tutti. Non ci aveva fatto caso quella sera al locale, il profumo di basilico e tabacco aveva coperto il tanfo. Ingoiò la nausea, le mani che formicolavano. Sentì all’improvviso una mano gelida sul pube. Le si accapponò la pelle.
«Non ti muovere» ripeté l’altro. «Voglio solo provare… solo provare a fare una cosa»
Fleur sapeva cosa fosse quella cosa.
Sentì stringersi fortissimo, proprio come faceva suo padre quando gli ribadiva che era un uomo e doveva comportarsi da tale. Era una cosa insopportabile, eppure tutti quanti si sentivano in diritto di farlo, come se quello che stessero toccando non fosse il suo corpo, ma un pezzo di carne attaccato lì con la colla, un pezzo di carne di nessuno.
Fleur represse un brivido dietro la schiena, si voltò e posò la mano sulla guancia di Mario. Quello le sorrise, proprio mentre Fleur gli spingeva la testa contro lo spigolo del tavolino di legno. La tempia di Mario si spappolò all’istante, il sangue schizzò sul muro.
Fleur prese un bel respiro ampio, i polmoni di nuovo liberi. Aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo, la mascella dolorante per la tensione.
Proprio in quel momento entrò in camera Coco. Spalancò la bocca, poi batté le mani sulle cosce .
«L’hai ammazzato senza aspettarmi!»
«Non sono riuscita a trattenermi. Scusa.»
«Deve essere stato peggio delle altre volte.»
«Marie darà di matto quando vedrà questo casino.»
Coco prese Fleur per mano, poi si sedettero insieme sul bordo di uno dei tre lettini. Il calore del corpo di Coco confortò entrambe, mentre in sottofondo andava una canzone swing proveniente dalla sala principale.
«Era il tizio della pasta al pesto?»
«Già.»
«Che peccato. Era buona.»
Rimasero in silenzio a lungo, le mani intrecciate, a osservare il sangue di Mario spandersi sul legno del pavimento. Luccicava, come fosse composto da miliardi di paillettes. Fleur alla fine tirò fuori una sigaretta mezza storta e un accendino dal corpetto.
«Ma il corpo di Gino-qualcosa dov’è finito? Ci hai pensato tu poi?»
Fleur sorrise tristemente. «Quand’è che non penso a tutto io?»
Coco annuì, posò la testa sulla spalla di Fleur. Rimasero così a lungo, stanche della vita e stanche pure della morte.
A illustrare il racconto, Three female impersonators di Diane Arbus (1962)