Mostro
Le porte del pullman si spalancarono e tutti quanti all’interno si voltarono a osservarlo. Salì sullo scalino appoggiando uno zoccolo, con lo sguardo sempre rivolto verso il basso, per palesare le intenzioni pacifiche. Né la camicia bianca tagliata su misura, né il maglione scuro riuscivano a nascondere l’ispida peluria nera sul collo. Il fumo che sbuffava dalle narici enormi appannava gli occhiali, così doveva toglierli, solo che poi non sapeva dove metterli, quindi restava lì, immobile, con gli occhiali in mano, come un perfetto idiota. Allora sudava. Sudava sempre a dire il vero. Soprattutto gli sudavano le mani, cosa che lo metteva ancora più a disagio, dato che la sua pelliccia in quel punto era parecchio folta e il sudore gli restava sempre impiastricciato sui peli, in maniera abbastanza schifosa.
Si decise a muovere qualche passo all’interno che bastò a creare il vuoto intorno a sé. Qualcuno al solo vederlo scese di corsa dal pullman e corse via urlando, anche se i più si limitarono invece a restare impietriti, congelati dalla paura, dopo essersi allontanati a un’adeguata distanza di sicurezza.
Lui scelse l’unico posto capace di accogliere quel culo da bue, completo di coda, che si ritrovava: quello riservato ai portatori di handicap o alle donne incinte, vicino al finestrino.
Di fronte, seduta a qualche fila di distanza, c’era una bambina di due, massimo tre anni. Lo fissava fiera nel suo giacchetto rosa bello gonfio, con la bocca aperta pressata da due guance paffute che le donavano un ché di simpatico.
La bambina alzò il minuscolo indice in direzione della coppola con cui Mino cercava di coprire le corna sulla testa e scoppiò a ridere. La mamma le abbassò subito il dito, nel tentativo di zittirla, ma quei due orribili spuntoni sembravano divertirla molto. Mino fece cenno alla madre di non preoccuparsi: a memoria quella era stata una delle migliori reazioni di una donna, anche se alquanto minorenne, di fronte al suo aspetto taurino. Le poche con cui era uscito si erano limitate a rovesciargli la bevuta addosso prima di darsi alla macchia. E comunque era pur sempre un comportamento più educato dell’operatore dell’associazione genealogica, che a ogni incontro gli ripeteva di non levarsi il cappello mentre si trovava in sede.
Mino era stato a colloquio da lui quella stessa mattina. Si trattava del nono incontro negli ultimi tre mesi. Era tornato per farsi dare qualche aggiornamento: voleva sapere se ci fossero stati progressi nella ricerca del padre, ma l’operatore, per l’ennesima volta, gli rispose di no.
Aveva già tentato diverse strade prima di rivolgersi a loro. Era andato per investigatori privati, all’anagrafe, consultato divinatrici e fattucchiere televisive, addirittura aveva provato a interrogare le intollerabili amiche della sua ancora più intollerabile madre, ma senza fortuna. L’associazione era quindi l’ultima possibilità: per questo aveva scelto la migliore nel campo, con tanto di targa interna all’edificio dove veniva riportato che grazie all’operato dell’associazione era stato possibile ricostruire interi alberi genealogici, a partire anche da una singola foto. Mino non aveva foto del padre ma in compenso ripeté all’operatore la descrizione fatta dalla madre: un bellissimo e possente toro bianco come mai più se ne erano visti nella storia.
Se veramente era un essere così unico, pensava Mino, qualcuno doveva sapere qualcosa di lui. Anche solo una traccia, un racconto, una leggenda a cui appigliarsi per risalire a una pista.
«Lei è pazzo.» gli aveva ripetuto l’operatore, «Completamente pazzo: l’associazione si occupa di persone, essere umani, non di allevamenti o pascoli. E in ogni caso un toro può vivere al massimo quindici, venti anni quando va bene, quindi suo padre a quest’ora sarà bell’e morto. Macellato. Probabilmente impiattato in un ristorante rinomato per le palle di toro in umido.»
«Morto, quello lì» bofonchiò sua madre «quello non muore nemmeno se l’ammazzi. Tanto bello quanto intrattabile.»
Da che pulpito, pensava Mino. Lui sarà stato anche intrattabile ma lei era una stronza e lo era sempre stata da quel che ricordava. L’unica cosa in cui eccelleva era tenere memoria di tutti i suoi fallimenti o, a essere più precisi, elencargli per filo e per segno tutte le cose che sarebbe potuto essere e che invece non era stato: un noto avvocato, un rispettabile professore universitario, un facoltoso imprenditore, uno statale col posto fisso.
Certo, avrebbe potuto essere tutte quelle cose se solo lei non si fosse fatta mettere incinta da un toro, per quanto bellissimo e possente, condannandolo a vita.
Sapete cosa si prova a fare un colloquio quando si è così brutti?
Non semplicemente brutti, orribilmente brutti.
Quando si è così brutti per gli altri non si diventa altro che un incidente, un ostacolo, una pratica odiosa da schivare o archiviare nel più breve tempo possibile. Qualcosa da tenere fuori dalla propria vita.
Non ci sono opportunità per quelli così, né futuro. Il meglio che si può fare è attenersi alla parte, recitare il copione fino in fondo, restituendo allo sguardo altrui quello che si aspetta di vedere.
Diventare reietti, sbagliati, disadattati sociali senza speranza. Mostri, appunto.
Le persone tirarono un sospiro di sollievo quando videro Mino scendere alla fermata, compreso l’autista, mentre la bambina col giacchetto rosa lo salutò con la manina, senza smettere di ridere.
La tratta era durata più di quaranta minuti. Mino era fuggito via dalla città e si era diretto in un paesino di poche anime, con distese di campi dove gli allevatori portavano il bestiame a pascolare.
Lui ci passeggiava accanto, con le mani sepolte nel cappotto. Quel posto sperduto gli donava un po’ di serenità: gli occhi addosso erano pochi e quando qualcuno lo notava si limitava a buttare giù la serranda il più rapidamente possibile e barricarsi in casa.
Trovò una panchina che dava su un prato trasformato in pasto da una mandria di mucche. Una di queste si allontanò dal resto del gruppo per posizionarsi proprio di fronte. Mino si sedette, si tolse la coppola da sopra le corna e restò a fissare quell’animale così sgraziato ripetere in maniera ottusa gli stessi identici gesti: strappa l’erba, mastica l’erba, pulisci le labbra con la lingua. Strappa l’erba, mastica l’erba, pulisci le labbra con la lingua. Strappa l’erba, mastica l’erba, pulisci le labbra con la lingua…
«Tanta gente lo fa.»
Una ragazza con un’unica ciocca di capelli rossa che le faceva capolino davanti agli occhi gli si era seduta accanto. Doveva essersi perso così tanto nella masticazione della mucca da non sentirla arrivare.
«Credo che osservare questi animali così placidi ripetere sempre gli stessi gesti faccia stare tranquilli quelli come voi o comunque faccia smettere di pensare.»
Stringeva in mano un bubble tea che sembrava colorato con un evidenziatore celeste e fra un discorso e l’altro ne aspirava su un po’ dalla cannuccia. Mino si chiese dove avesse trovato una roba simile in un posto come quello: chi apre un negozio di bubble tea in un paese di allevatori?
«Quelli come voi… dimmi, per caso ne vedi tanti di quelli come me?»
Indicò le corna. La ragazza fece spallucce.
«Boh.»
Mino sollevò un sopracciglio.
«Non… non ti faccio paura?»
«Non più degli altri.»
«Oh.»
Lei incrociò le gambe sopra la panchina con l’agilità che uno con le gambe taurine di Mino poteva solo invidiare. Mentre mordicchiava la cannuccia, gli rivolse una domanda.
«Che ci fai qua?»
Era molto esile, vestita con una maglietta sgualcita e un paio di shorts a vita alta, di almeno due misure più grandi, da cui fuoriuscivano gambe un po’ troppo magre, comunque piacevoli nel complesso.
«Lo hai detto tu: fisso le mucche.»
«Figo.»
Tirò su dalla cannuccia.
«E perché fissi le mucche?»
«Senti ma cosa vuoi da me? Non ho soldi da darti. Così ti fermo subito se la stai prendendo larga per arrivare a quello.»
Lo fulminò con gli occhi.
«Non voglio soldi. Perché tutti quelli con cui provi a fare due parole pensano che tu voglia i loro soldi, non li avete solo voi i soldi, sai? Anzi sono una roba piuttosto diffusa.»
«Allora cosa vuoi da me?»
«Parlare.»
«Perché?!»
«Perché non ho altro da fare.»
«Ecco, nemmeno io.»
«Per questo fissi le mucche?»
Tirò su con la cannuccia un’altra volta.
«…Per questo fisso le mucche.»
«Oh.»
La ragazza fece poco per nascondere un sorriso compiaciuto.
Davanti a loro la mucca procedeva nel suo lento e inesorabile brucare, senza interessarsi minimamente a quelle chiacchiere, con un rigore e un silenzio che avevano qualcosa di religioso: un rito pagano che si consumava su quei campi, all’aria aperta.
Mino buttò fuori aria dal naso, poi abbassò gli occhi.
«Scusami, non volevo essere brusco.»
Lei fece ancora spallucce.
«Tranqui.»
«È che non parlo spesso con le persone.»
«Mi sembra un’ottima abitudine.»
«Che però non fa parte di te, mi sembra.»
La ragazza rise.
«Parlo molto, in effetti, anche se purtroppo non riesco mai a dire davvero quello che vorrei.»
«E cosa vorresti dire?»
«Non lo so.»
«Forse è quello il problema.»
«Forse.»
La ragazza tolse via il coperchio insieme alla cannuccia. Bevve tutto quello che rimaneva del bubble tea in un lungo sorso, poi ruttò.
«Scusa. Mamma mia… questi cosi sono un vero schifo.»
Posò la tazza di plastica sulla panchina, perfettamente in linea con il muso della mucca.
Mino strinse la coppola nei palmi.
«Vorrei dire qualcosa a mio padre.»
«Mh?!»
«Sono qui seduto su una panchina a fissare le mucche perché vorrei, più di ogni altra cosa, dire qualcosa a mio padre.»
«E vai a dirgliela allora.»
«…Mio padre è un toro!»
«Il mio è uno stronzo.»
Mino si batté una mano sulla coscia.
«Anche mia madre!»
Altre spallucce.
«I genitori tendono a esserlo.»
Lui fece cenno di assenso.
«Già… comunque quello che intendevo è che non lo conosco davvero, mio padre. So solo che è un toro bianco, bellissimo e possente, ma non so davvero dove sia o cosa faccia.»
«Hai provato, tipo, a chiederlo a tua madre?»
«Certo, solo che lei… lei…»
«È una stronza.»
«Già.»
La ragazza fece un altro sorriso, stavolta più complice che compiaciuto, ma non le restò troppo impresso sul viso. Si incurvò sui gomiti poggiati alle ginocchia. Il suo sguardo cominciò a vagare in direzione ignota, come stesse cercando qualcosa, poi riprese a parlare:
«Sai, il mio problema col dire le cose è che quando voglio dire qualcosa, intendo quando la voglio dire davvero, quando ci tengo parecchio a quella cosa, i pensieri… sì, insomma, i pensieri si moltiplicano, mi si sommano in testa, montano uno sull’altro e diventano sempre di più, così inizio a riflettere anche su quell’aspetto che prima non avevo considerato, poi su quell’altro e quell’altro ancora e allora mi allontano: vado un pensiero più lontano da quello che volevo dire, poi un altro, un altro, un altro, un altro e così alla fine le parole che mi escono sono del tutto diverse. Non ci incastrano proprio niente, capisci? Sono solo… parole. Quando pensi troppo, alla fine restano solo parole, o scuse. E le persone intorno a te non se ne fanno niente né delle une, né delle altre.»
Minò annuì per tutto il discorso della ragazza, peccato che una volta concluso la sua espressione lo tradì.
«Non hai capito niente, eh?»
Lui spalancò le braccia.
«In effetti no.»
Risero.
«Perché vuoi così tanto parlare a tuo padre?»
Mino fu colto in contropiede dalla domanda. Mantenne il silenzio per qualche secondo.
«Per togliermi un peso.»
La voce gli si ruppe in gola, ma andò avanti.
«So che parlare con un toro non risolverà i miei problemi: non mi renderà più bello e non farà sì che le persone smettano di guardarmi come un fenomeno da circo, ma è come se mi sentissi addosso tutti questi anni in cui non ho avuto un padre. Tutti i discorsi che non abbiamo fatto, le parole che non ci siamo detti, hanno un peso che non riesco più a sopportare e credo che finché non lo faccio resterò come… come bloccato.»
Mino si voltò verso la ragazza con un sospiro d’imbarazzo, si sorprese però a scovarla impegnata ad arricciarsi il ciuffo rosso davanti agli occhi. La pratica non sarà stata meticolosa come il brucare della mucca, ma le richiedeva comunque una certa dose di attenzione.
Però doveva averlo ascoltato, perché gli rispose.
«Allora, se è questo che senti, fallo.»
Mino scosse la testa.
«Te l’ho detto: non so dove sia mio padre, per quel che ne so a quest’ora potrebbe essere una bistecca!»
Lei sbuffò. Il concetto le parve d’improvviso tanto necessario da mollare anche il ciuffo.
«Non ti serve saperlo! Tu hai qualcosa da dire e senti di avere bisogno di dirla perché per te è importante. Allora fallo. Dilla. È importante per te, non per lui. Chissenefrega di lui! Scegli qualcuno e dilla.»
La ragazza puntò il dito contro la mucca brucante.
«Ecco, a quella mucca.»
Mino cominciò a balbettare.
«C-cosa?»
«Dilla a quella mucca.»
Lei saltò in piedi come un elastico e cominciò a strattonare Mino.
«Dai, forza, che aspetti!»
«Ma non è nemmeno un toro: è una vacca, un’inutile vacca!»
«Ehi, piano con le parole.»
«Che ho detto di male?»
«Non lo so ma suonava maschilista.»
«Il maschilismo non ha un suono!»
«Avanti, muoviti!»
In un momento di debolezza, Mino si lasciò tirare su e la ragazza ne approfittò per spingerlo addosso alla mucca che, con distacco ascetico, portò avanti il suo rituale senza scomporsi.
Mino provò di nuovo a ribellarsi al sopruso ma lei non sentì ragioni: doveva parlare e doveva farlo adesso.
Le mani iniziarono a sudargli e il sudore, come ogni volta, si impregnò alla pelliccia così tanto da farla gocciolare. Fissò la mucca che non sembrava minimamente interessata a ricambiare lo sguardo ma anzi continuò a mantenersi in quel nulla dove aveva trovato il Nirvana.
Mino si scrocchiò il collo. Non riusciva a smettere di scodinzolare nervosamente, inalò una lunga boccata d’aria che gli fece gonfiare il petto tanto da scoppiare i bottoni della camicia sotto al maglione. Cominciò a stronfiare come un toro: immetteva aria dentro e la risputava fuori, immetteva aria dentro e la risputava fuori, immetteva aria dentro e la risputava fuori. Quando gli sembrò di avere inalato tutto l’ossigeno della terra, si decise a parlare.
«Vaffanculo! Vaffanculo a te, toro bianco, bellissimo e possente, e vaffanculo a quel giorno maledetto in cui hai deciso di mettere incinta quella stronza di mia madre invece di montare una vacca come tutti gli altri tori di questo cazzo di mondo. Non ho chiesto io di essere partorito. Non ho chiesto io di essere così… così… Così! E non ho chiesto io di crescere senza un padre. Sì perché tu dov’eri, eh papà? Dov’eri quando le persone mi trattavano come un animale, mi urlavano addosso e mi provocavano per farmi reagire come una bestia? Come un toro. Come te.
Dove ti sei nascosto? Dimmelo. Dove sei quando sbaglio, quando la mamma mi dice quelle cose, quando non so cosa fare. Perché alla fine il punto è quello, papà, io non ho idea di cosa fare.
Nessuna. Nessunissima idea. Zero. E tu non mi hai mai detto cosa si deve fare in questa vita. L’unica cosa che so, per certo, è che non voglio più essere un mostro. Non mi piace. Non sono io. Qualunque cosa io sia, non sono un mostro.»
La mucca sputò.
Doveva essersi imbattuta in un filo d’erba indegno, così lo epurò, sputandolo ai piedi di Mino, per poi ripulirsi le labbra con la lingua. Mino si asciugò le lacrime con la pelliccia già madida per il sudore. Sistemò qualche piega del cappotto, quindi si schiarì la voce fingendo un colpo di tosse.
«Bravo. Belle parole. Molto dirette.»
Lei gli sorrise. A lui, proprio a lui. Lo guardò in faccia e gli sorrise.
«Grazie.»
Mino le porse la mano.
«Comunque sono un cafone, mi sono reso conto di non essermi nemmeno presentato: mi chiamo Mino.»
La ragazza ricambiò la stretta.
«Arianna, piacere.»
Arianna. È un bel nome Arianna.
«Piacere mio.»
A illustrare il racconto, The Minotaur di George Frederic Watts (1885)