Raccolta Carta
Trovò la bambola a metà nottata, incastrata tra i bidoni del Centro Abitativo O-41 che stava di fronte al centro commerciale. Un occhio non si apriva e il vestito di velluto verde era malridotto come il cappello di paglia. Considerò di gettarla nel compattatore, ma la telecamera di sorveglianza avrebbe ripreso la contaminazione della raccolta e sarebbe stata sospesa per tre giorni senza stipendio. Svuotò i bidoni che erano dieci, due per scala, incastrò la testa di capelli rossi del bambolotto nel maniglione di sicurezza: le avrebbe fatto compagnia fino a fine turno, poi avrebbe deciso cosa farne.
Contrariamente al personaggio di Catherine Deneuve, Miriam non si svegliava a mezzanotte e, sebbene sua madre ne avesse scelto il nome con intenzione durante un cineforum organizzato in uno squot a base di birra, superalcolici rubati e droghe di varie pericolosità, non ne possedeva l’eleganza vampira, diafana. A mezzanotte Miriam era l’Operatore-1 e scorrazzava per la città aggrappata al maniglione di sicurezza del camion compattatore per la raccolta della carta. D’inverno, cioè allora, sotto il giaccone e i pantaloni catarifrangenti infilava strati di vestiti; un cuoco che era transitato nella sua vita, l’aveva definita la vestizione del millefoglie, ma il coglione non era durato oltre la fine dell’inverno. E di strati ce ne volevano parecchi per far sembrare robusta una donna dalla bellezza nervosa. Per completare l’opera di depistaggio nascondeva la corta chioma fiammeggiante sotto un balaclava in microfibra nero più adatto a una spedizione in Himalaia che alla periferia di Milano.
«Fai attenzione, sorella. Ieri notte non è rientrato un mezzo nella zona est. Lascia quell’indifferenziato a terra, ci penserà la pulizia delle strade» parlava della bambola la voce gracchiante dall’interfono.
«Fatti gli affari tuoi. Procedi!»
Il guidatore fece ripartire il mezzo verso il supercondominio seguente.
Da quando era stato imposto il coprifuoco, non ricordava neppure più l’anno, la notte era più facile incontrare un alpinista nel circuito dell’Annapurna che per i viali di Quarto Oggiaro, o intorno alla Bovisa. Nomi che non avevano più nessun valore, ma che ricordava detti da sua madre mentre la portava a esplorare la città. Di suo padre, invece, rammentava solo la barba che le pungeva le guance.
L’aria gelida, non intrappolata in circuiti infiniti tra comignoli sbuffanti, auto, pullman, e gozzovigliatori seriali, scorreva libera nel buio delle finestre oscurate, portando con sé cartacce.
«Non voglio andarci di mezzo anch’io. Sai che sono responsabile di quello che porto indietro» continuò a gracchiare il guidatore, mentre il camion riprendeva velocità e si preparava ad affrontare la prima curva.
«La butto prima di rientrare, contento?»
Inquadrò il faccino antico con la lampada collegata al caschetto di sicurezza, scostò i capelli rossi per vederne meglio i tratti: le sopracciglia, la bocca erano disegnati a rilievo. Gli occhi erano verdi, ma se ne vedeva solo uno. Picchiettò l’altro con la punta del dito guantato, ma restò chiuso.
«Così, se ti vede la sorveglianza ti becchi due settimane di sospensione: dispersione di materiale nell’ambiente. Non voglio entrarci: dirò che la telecamera non funzionava, a costo di sfasciarla a pedate.»
«Ho capito, ho capito.»
E dette un pugno al pomello rosso che chiudeva le comunicazioni fino al prossimo stop. Che arrivò dopo pochi minuti sulla strada che da un lato dava sulla recinzione del Centro Abitativo O-47, mentre dall’altra si apriva la campagna del nuovo Parco Agricolo Ovest-Nord Ovest. Contò le carcasse bruciate delle auto ammassate lungo il bordo della strada, ce n’era una in più di tre giorni prima. Toccò il calcio della pistola nella fondina cosciale e disse alla bambola che poteva stare tranquilla: lei era armata da quando l’Operatore-2 era stato abolito.
«Mi hai proprio rotto, Operatore-1. Se mi silenzi ancora giuro che ti faccio rapporto.»
Ma lei, aperto lo scudo protettivo della pedana, era già a terra: trascinava giù dal marciapiede due bidoni alla volta, provocando un rumore doppio che nel silenzio sovrastava anche quello del motore. Le parve di scorgere un’ombra che si muoveva tra le carcasse, slacciò il fermo della fondina e continuò il suo lavoro. Probabilmente si trattava di qualche raccoglitore che razzolava nel campo tra quello che restava della produzione di zucche. Oppure qualcuno che puntava più in alto: al compattatore.
«Attenta a Est: il termo scanner ha individuato un movimento.»
«Già visto, tranquillo.» Guardò la bambola e continuò: «Guarda come si fa, piccolina.» Estrasse la pistola e sparò un colpo in aria. «Vedi di levarti dalla palle, fantasma!»
Il braccio ancora alzato soffriva per il rinculo della Beretta, ma le sedute di allenamento le avevano insegnato che nel giro di un minuto il fastidio sarebbe passato. La bocca surriscaldata dell’arma faceva fumigare l’umido della notte. Dalla direzione segnalata nessun altro movimento.
«Eccheccazzo, sorella. Anche meno!»
Invece di rispondere continuò il lavoro e chiese alla bambola se andava tutto bene. Immaginava che tutte le bambine nel resto della penisola si prendessero cura del proprio pupazzo. Le strizzò l’occhio, il faccino la ricambiò e Miriam finì di svuotare gli ultimi tre bidoni. Il colpo sulla fiancata dato con forza fece ripartire il camion.
«Gli hai messo un cazzo di pepe al culo, sorella.»
«E la bambola non si è spaventata.»
La comunicazione si chiuse sulla risata catarrosa del guidatore. Miriam si dette un’ultima occhiata alle spalle e le parve di vedere tre ombre spostarsi nel buio appena rischiarato dai lampioni e dalle luci ambientali del mezzo.
«Muoviti, forza» disse senza accendere l’interfono, e sentì con piacere il mezzo accelerare sulla strada dissestata. Una nuvoletta di vapore filtrò dal passamontagna e le ricordò che, a quell’ora, chi restava era lì senza buone intenzioni. La luce dei lampioni illuminò la faccia della damina, si fissò sui dentini verniciati sotto al labbro superiore: perfetti per una signorina. Non aveva mai avuto una bambola di quell’eleganza: solo bambole e pupazzi di pezza, che emanavano cattivo odore dalle imbottiture. La produzione di tutti i giocattoli era stata proibita per carenza di materie prime: quel pupazzo doveva essere molto più vecchio dell’ultima secessione federativa, o un prodotto importato illegalmente dalle province del centro della penisola.
Lo stop successivo era al Centro Abitativo O-49, nella vecchia topografia della città racchiudeva l’intero comune di Novate e raggruppava almeno dodici portinerie in un’unica recinzione. Da un lato i palazzi, dall’altro il Parco Agricolo. Se avesse distribuito bene il carico nelle camere del compattatore poteva pensare di finire la nottata senza dover fare una sosta extra alla discarica. E tornare prima sotto le coperte che, seppur disabitate, erano un posto più accogliente di quello.
Alla prima guardiola i bidoni erano allineati come previsto. Il freddo era pungente, ma i rumori dei meccanismi della macchina la rassicurarono.
«Tutto tranquillo?» chiese prima di scendere dalla pedana.
«Tutt’apposto. Vai, sorella» le rispose l’altoparlante.
Aprì lo scudo trasparente, salutò la piccolina che era ancora bloccata al maniglione, le parve che un luccichio si riflettesse sulla plastica vetrificata dell’occhio, e scese a terra, rammentandosi le fasi del lavoro di carico che, eseguite con attenzione, potevano evitarle un’ora di lavoro in più.
Era alla seconda levata delle catapulta quando rivide quel movimento nell’ombra.
«Cazzo.»
Estrasse la pistola e sparò un colpo in aria. L’altoparlante si mise a gracchiare qualcosa che non riuscì a sentire, le orecchie ancora sorde dallo scoppio. Ma stavolta il movimento non ritornò nel buio, e le figure in avvicinamento erano già due. Dall’angolo in fondo ne sbucava una terza.
«Levatevi dalle palle o sparo!» e fece fuoco una seconda volta. Staccò i bidoni dalla catapulta mentre il guidatore faceva partire la sirena. Vide le ombre alzare un braccio e puntarglielo contro. Si lasciò cadere dietro i bidoni ma non sentì colpi di pistola. Che diavolo volevano da lei? Trasportavano carta, mica lingotti d’oro! E i pezzi di ricambio del compattatore quanto potevano valere? Si rialzò, prese la Beretta e fece fuoco altre tre volte, stavolta puntando alle ombre che si arrotolarono a terra, ma non sembrarono cadere. Salì sulla pedana, chiuse lo scudo trasparente e cominciò a battere sulla macchina a mano aperta:
«Vai, vai, vai! Muoviti!»
Il compattatore ebbe la scossa del freno rimosso poi iniziò a muoversi in avanti, la bambola la guardava immobile con la stessa espressione indifferente. Se quella era una notte di merda, di sicuro almeno una cosa bella l’aveva trovata. Guardò indietro, prese la pistola in mano e vide le tre figure, tutte e tre schierate al centro della strada che le puntavano contro un braccio. Non vedeva bene oltre la plastica protettiva, ma non le sembrarono armati. Cos’avevano in mano? Provò ad aprire la guardiola per far uscire la pistola, ma lo sportello non ne voleva sapere, la colpì mentre il mezzo acquistava velocità. Niente. Le tre figure si erano messe al loro inseguimento sempre compiendo quel gesto a braccio teso. Guadagnarono terreno, si fecero più vicini, ne sentì uno urlare: «Maledetta bambola di merda!» e Miriam capì: avevano in mano un telecomando. Chiusa dentro lo scudo che l’avvolgeva come in un blister fino al prossimo stop, seppe di essere in trappola: non le restava che girarsi di spalle e avvolgere la damina dal vestito verde con gli strati del proprio corpo, e provare a fermare i segnali che i tre cercavano di far arrivare al pupazzo. Contò fino a tre, poi quattro, cinque, sei mentre il mezzo raggiungeva la velocità di crociera. Forse era abbastanza lontana. Forse la sua vestizione a millefoglie l’aveva salvata. Aveva fatto bene a disfarsi del cuoco.
«Come va lì dietro? Che cazzo volevano?»
«Volevano il mezzo, non fermarti, vai!»
«E chi si ferma, sorella!»
Le risata nervosa si trasformò in colpi di tosse.
Miriam sollevò gli occhi e vide che un’ombra aveva continuato a correre. Correva veloce, correva come si corre alle gare delle olimpiadi, correva, ancora avanti, ancora più prossimo. Miriam guardò la bambola: «No piccina, no, non farmi questo.»
Il mezzo rallentò per superare la curva a gomito sulla recinzione e fu lì che l’inseguitore fu abbastanza vicino da attivare la bomba. Miriam sentì solo un bip, poi fu dispersa nell’aria insieme a buona parte del lato posteriore destro del mezzo.
Quando l’incendio della carta divampò, un gruppo numeroso di figure nere aveva già circondato il camion, estratto e ucciso il guidatore e iniziato a smontare il motore. Dovevano fare in fretta, prima che arrivasse la Guardia Secessionista. Ma anche quella sera avevano raggiunto il loro scopo: i pezzi di ricambio, i sedili, il volante potevano essere montati nei camion e camionette che servivano agli insurrezionalisti per riunire la Lombardia al resto della penisola. Un camion alla volta, per riparare tutte le carcasse che giacevano lungo le strade.
Una ragazza col balaclava nero, raccolse la testa della bambola che continuava a sorridere, la baciò sulla bocca, e la lanciò in mezzo ai campi. Era facile fregare gli Operatori con i giocattoli abbandonati. Poi pensò che era difficile trovare pezzi preziosi come quello, ce n’erano pochi in giro e i proprietari rifiutavano di cederli alla resistenza. Forse era il caso di recuperare almeno la testa: qualcuno avrebbe potuto ricostruirne il corpo di pezza e imbottitura puzzolente.