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Vedrai, vedrai

Autore
Angelo Mozzillo
I labirinti del borgo
Narrativa Generale
30 dicembre 2021

In terza elementare Giulia era la mia migliore amica, o almeno così mi dicevano a casa, dato che passavo molto tempo con lei e ci piacevano bene o male le stesse cose, e dato che ci piacevano bene o male le stesse cose, e che passavamo per questo molto tempo in compagnia l’uno dell’altra, io ebbi la decisa sensazione che Giulia per me potesse essere più di una migliore amica.
Vivevo in una casa ricca, piena di libri di lettura per bambini della terza elementare, sono molto specifici quei libri, erano libri in cui si faceva capire ai bambini della terza elementare che è giusto, che non bisogna vergognarsi, che è doveroso esprimere le proprie emozioni, e avevo un papà, che poi sarebbe Leandro, avevo un papà che riassumeva a suo modo quei libri dicendomi che non bisogna avere paura, perché chi ci ha paura non dorme con le belle femmine.
A me questa cosa che mi diceva papà non è che mi convinceva al cento per cento, perché io non volevo mica dormirci con le belle femmine, anzi non le volevo proprio le belle femmine, volevo solo Giulia. Non che Giulia non la considerassi una bella femmina, intendiamoci, ma io non volevo dormirci con Giulia, io volevo continuare a fare quello che facevamo, che poi era passare del tempo in compagnia l’uno dell’altra parlando di tutte le cose che bene o male ci piacevano allo stesso modo, volevo continuare a fare le cose che facevamo, ma tenendoci per mano.
Così quel giorno di terza elementare, durante l’ora della merenda io raggiunsi Giulia in cortile, lei mi stava aspettando insieme ad altri compagnucci per giocare, tra cui Renato, io avevo un caldo che mi sembrava estate ma era inverno, quel giorno raggiunsi Giulia, le dissi Ciao Giulia, le dissi Ti vuoi mettere con me?
Speravo che mi dicesse di sì, ma mi aspettavo dicesse di no, mi ero già preparato, e volendo dare retta ai libri per bambini della terza elementare, se mi diceva no e mi veniva da piangere andava bene lo stesso, avrei pianto, pazienza, è giusto e doveroso esprimere le proprie emozioni, preparai i fazzoletti.
Avevo cercato di non avere paura, come diceva Leandro, avevo espresso i sentimenti come dicevano i libri di lettura per bambini della terza elementare, avevo la speranza che Giulia dicesse di sì, mi aspettavo dicesse di no, quello che non avevo previsto era che Giulia cominciasse a piangere lei.
Subito dopo di lei cominciò a piangere pure Renato, che, l’ho scoperto poi, anche lui voleva mettersi con Giulia ma non aveva ancora avuto il coraggio di farsi avanti.
Io mica me lo aspettavo di causare tutta quella sofferenza, volevo solo tenere Giulia per mano, ma Giulia si mise a piangere, Renato si mise a piangere, e io, che mi ero preparato i fazzoletti e che secondo me ero pure quello più giustificato a piangere se proprio la vogliamo dire tutta, io insomma non piansi, che a quel punto mi sembrava indelicato nei loro confronti. Diedi a Giulia e Renato i miei fazzoletti e contando le pietruzze del cortile di scuola me ne tornai in classe, e da quel momento io e la mia migliore amica Giulia non parlammo più.

Allora, Umberto?
Così mi saluta ogni volta il sindaco quando mi vede al bar Sottomonte, che il mio paese è diviso in tre parti, io abito nella parte bassa, ma è come se vivessi alla parte di mezzo, mi piace di più la parte di mezzo, mi sento più intelligente lì, c’è l’edicola, la scuola elementare, non c’è la statale, c’è pure il baretto, lo gestisce Giulia.
Ho detto un’imprecisione, non è che con Giulia abbiamo proprio smesso di parlare, ma le nostre conversazioni si compongono bene o male di un paio di battute che sarebbero Ciao, ti porto il solito? e Sì, grazie, più qualche altro convenevole al momento di pagare, che io a volte mi sono pure chiesto se Giulia l’ha capito che io sono quell’Umberto e che lei è quella Giulia che una volta secondo vari pareri autorevoli sono stati migliori amici.
Me lo sono chiesto pure perché Giulia, dopo che aveva smesso di parlarmi, aveva anche smesso di frequentare i miei amici, poi aveva smesso di frequentare il paese e, quando è arrivato il momento dell’università, si era nientedimeno trasferita a Firenze, che io ho pensato Mamma mia che brutta cosa che gli devo avere fatto a chiederle se si voleva mettere con me, sono un mostro, ho distrutto una vita.
Poi però inaspettatamente, dico inaspettatamente ma io un po’ l’aspettavo, inaspettatamente Giulia lasciò la facoltà di architettura, che secondo me ha fatto pure bene, e secondo me si chiama facoltà perché uno ci ha la facoltà di andarsene quando vuole. Giulia tornò in paese e si prese il bar che aveva ereditato dallo zio Fernando, che prima era lo zio a gestire il bar, poi per fortuna è morto, cioè mi dispiace, dico per fortuna nel senso che così Giulia è tornata. Io non le chiedo più niente, per carità, non so nemmeno se mi ha riconosciuto, ma a me mi fa piacere poterla vedere di nuovo ogni giorno, come quando eravamo a scuola, lei mi dice Ti porto il solito?, io le dico Sì, grazie, e la giornata, inaspettatamente, che però un po’ ormai me l’aspetto, inaspettatamente prende senso.

Allora, Umberto?
Ogni volta che il sindaco mi vede ai tavolini del baretto mi dà una pacca sulla spalla, una pacca cordiale, non è che vuole farmi male, anch’io all’inizio lo pensavo ma no, è una pratica amichevole, mi dà una pacca sulla spalla, sulla mia giacca firmata comprata da Nunzia, che sarebbe mia madre, il sindaco mi dà una pacca e mi dice Allora, Umberto?, che io per questa sua cordialità infatti l’ho sempre votato, che vallo a trovare in paese un altro sindaco così simpatico che mi dà una pacca sulla spalla e si ricorda il nome mio.
Adesso però non posso più votarlo, al sindaco, che non si può più ricandidare, e al posto suo si candida uno che però non mi convince, il sindaco dice che è uno bravo, e difatti anche lui viene al baretto, mi saluta, una volta mi ha offerto pure la spremuta, ma poi dice frasi come C’è tanto lavoro da fare, Bisogna rimboccarci le maniche, Questo comune merita impegno, che io penso Ma come, questo paese stava così bene finché c’era il vecchio sindaco, e adesso, che non ha nemmeno finito il mandato, già hanno messo tutto sottosopra? E allora io in questi ultimi giorni che il sindaco è ancora sindaco me lo godo, preferisco non pensare che sono gli ultimi giorni, lo vedo arrivare, aspetto che inaspettatamente mi dia una pacca cordiale sulla spalla e gli sorrido mentre mi dice Allora, Umberto?

Che poi in realtà dopo che mi ha detto Allora, Umberto? non è che sappiamo bene che altro dirci, io gli sorrido, lui mi sorride, come due vecchi amici che non si conoscono. Per toglierci dall’imbarazzo, lui di solito si mette a parlare di Piazza dell’Immacolata.
Il sindaco, infatti, in questi ultimi giorni da sindaco, ha deciso di lasciare un segno nel nostro paese, così lo ha chiamato, un segno, e si è messo in testa di rifare la piazza con il belvedere nella parte alta del paese, quella più storica e preziosa, e per questo motivo ha causato un bel po’ di polemiche, i giornali locali dicono Ha sollevato un polverone. Certa gente si è proprio innervosita, persino il barbone di paese che si ubriaca e poi vede i fantasmi, e a me è un po’ dispiaciuto per lui, per il sindaco non per il barbone, e se qualche volta, quando è venuto a darmi la pacca cordiale, avessi avuto la forza di essere un vero amico, gli avrei detto Ma se volevi lasciare un segno, non potevi fare una cosa più in silenzio, più tra di noi, tipo che facevi un murale o chessò io, convincevi Giulia a parlarmi di nuovo?
Che poi la realtà è che Giulia non parla nemmeno più con il sindaco, da quella volta che il sindaco pensava di non dovere pagare il caffè a Giulia dato che lui era il sindaco, e dato che quando era ancora Fernando il caffè non l’aveva mai pagato. Ma Giulia è di un’altra pasta, e una cosa che ho imparato sin da piccolo, sin da quando le chiesi Ti vuoi mettere con me?, è che non si sa mai come Giulia può reagire. In quel caso reagì scacciando il sindaco dal baretto con tanto di improperi, che io ero presente e mi dispiacque un po’ per lui, che se avessi avuto la forza di esserle un amico, non dico migliore amico ma anche solo amico normale, se avessi avuto la forza le avrei detto Giulia, ma lascialo perdere, quello fa il sindaco, lo sai come sono i sindaci, bisogna compatirli, che se non erano così facevano gli impiegati, si aprivano un negozio.
Sta di fatto che il sindaco quando non sapeva che dirmi mi parlava di questa piazza di cui era tanto orgoglioso, e di cui nessuno poteva seguire i lavori perché l’aveva fatta chiudere, voleva che fosse una sorpresa, si sarebbe fatta l’inaugurazione la notte della vigilia di Natale.
Sei pronto per la piazza?, mi diceva il sindaco. Vedrai, la nuova piazza…, mi diceva. Poi sarà tutto diverso!, mi diceva. Vedrai, vedrai, mi diceva il sindaco, con queste allusioni così ammiccanti, così insistenti che io cominciavo a pensare che il rifacimento di Piazza dell’Immacolata dovesse riguardarmi personalmente, che lo stesso destino mio fosse in qualche modo collegato all’inaugurazione del ventiquattro sera, e allora cominciavo a dirlo anch’io, in giro, quando mi chiedevano Che racconti di bello?, quando mi chiedevano se c’erano novità, io rispondevo Vedrai, vedrai, e pensavo alla sera della vigilia.

Vedrai, vedrai, dicevo a Nunzia, che io chiamo mamma. Nunzia ci aveva due passatempi, e il primo era quello di guardare dal tablet i complementi d’arredo sugli store online, si sedeva per ore sulla poltrona shabby chic, comprata coi soldi di papà, passava le ore a guardare ma poi non comprava mai niente dicendo che era meglio se conservava i soldi dato che questa famiglia è un attimo che si sfascia, e mentre lo diceva mi osservava con uno sguardo pieno di intenzione, quasi che se la famiglia si doveva sfasciare allora voleva dire che l’avrei sfasciata io. L’altro passatempo di Nunzia era quello di dirmi che non ho combinato niente nella vita. Io all’inizio cercavo di risponderle Ma come? Io lavoro con papà, Teniamo l’azienda di famiglia, ma lei poi diceva che se papà non era papà col cavolo che mi prendeva a lavorare, mi chiedeva cosa avrei fatto quando loro sarebbero trapassati, e io allora pensavo alla sera della vigilia, a quella piazza che avrebbe risolto tutto, le dicevo solo Vedrai, vedrai.
Comunque, se io ero quello che nel futuro avrebbe sfasciato la famiglia, lei era quella che nel presente sfasciava i tablet, e dopo i tablet i computer, e qualsiasi strumentazione elettronica le si metteva in mano per cercare di farle passare il tempo.
A passare, il tempo passava, ma era un tempo così frustrante che, se avessi avuto la forza di essere un bravo figlio, le avrei detto Ma trovatene altri di passatempi, questi il tempo te lo fanno passare uno schifo. Ma invece le dicevo solo Vedrai, vedrai, e lei storceva il naso, rispondeva Chiudi la finestra, fa freddo.
Viviamo in un paese di montagna, freddo faceva freddo, secondo me però lei la finestra la voleva chiudere per il rumore delle macchine che sfrecciavano sulla statale, ma non lo voleva ammettere, quindi diceva Fa freddo, e poi tornava a guardare in silenzio i complementi d’arredo immobile sulla sua poltrona shabby chic, Nunzia, mia madre, che pareva un complemento d’arredo pure lei.
Su una cosa aveva ragione però, e cioè che a me del futuro dell’azienda di famiglia mi interessava, certo, ma come se fosse un’azienda dove non ci lavoravo io, l’azienda di una famiglia non mia, mi raccontava gli intrighi e i colpi di scena, l’azienda di famiglia era una soap opera che si racconta alla sera. Al lavoro ci andavo il minimo indispensabile, che meno ci stavo meno facevo danni, e il resto del tempo lo ammazzavo al baretto di Giulia, nella parte di mezzo del mio paese, lei mi diceva Ti porto il solito?, io le dicevo Sì grazie.
Mi piaceva starmene a guardare i paesani che brigavano, i turisti che arrivavano, gli stranieri che facevano shopping, prendevano la rampa di scale che porta alla parte alta del paese, quella storica e preziosa, piena di vicoletti in cui ti puoi perdere, piena di gente, mi mette a disagio, mi confonde, e allora io preferisco stare alla parte di mezzo del paese, dove mi riesco a mimetizzare più facilmente, seduto al baretto di Giulia a chiacchierare col sindaco, ad ascoltarlo parlare di Piazza dell’Immacolata, sentirgli ripetere, con una certa aspettativa, Vedrai, vedrai.

Una sola volta mi è capitato di stare alla parte alta del paese per più di mezz’ora, ero andato a fare una foto, volevo metterla sui social, dal belvedere della piazza i panorami vengono sempre bene, sto tornando al baretto e mi ferma una turista giapponese con in mano una cartina della parte vecchia, si è persa tra i vicoletti. Le dico Ti aiuto io, l’accompagno per un vicolo, facciamo un centinaio di metri in silenzio, lei non parla la mia lingua, è giapponese , dopo un po’ le dico No, scusa, abbiamo sbagliato strada. Torniamo indietro, ma pare che siamo in tutt’altra zona, per non farglielo capire le dico Di qua, entriamo in un altro vicoletto, sbuchiamo in una specie di precipizio. Mi ripeti dove devi andare?, provo a farmi capire da lei, la turista, che è giapponese, mi indica un punto sulla cartina, le chiedo se me la può prestare un attimo, quella cartina. Fingo di avere capito, voglio veramente essere d’aiuto, le dico Dobbiamo tornare indietro, imbocchiamo un altro vicoletto, ma è cieco, non va da nessuna parte.
Io e la turista giapponese, che poi forse è coreana ora che ci penso, può essere anche coreana, non sono un esperto, non mi sono mai mosso dal paese. Io e la turista coreana giriamo già da mezz’ora, lei mi chiede imbarazzata se posso ridarle la mappa, io insisto un po’, ti prego turista coreana, lasciati aiutare, fammi essere utile, ti prometto che ne usciremo, vorrei dirle, ma non dico niente, lei si fa più decisa, rivuole la cartina, mi dice con gentilezza forzata Lascia stare. E me lo dice in un italiano perfetto, da madrelingua, si deve essere proprio impegnata parecchio per farmi capire, senza dubbio, che apprezzava le mie buone intenzioni, ma che, senza dubbio, era meglio se faceva da sola.
Se ne andò per conto suo, io ci misi almeno un’altra oretta per trovare la strada per il bar di Giulia.

Questa sera è la sera del ventiquattro dicembre, che poi sarebbe la vigilia di Natale, questa sera è la sera, ho scelto un completo spezzato tra i vestiti delle grandi occasioni, messo la cera sui capelli, i gemelli sui polsini, un piccolo fazzoletto rosso, natalizio, l’ho lasciato spuntare dal taschino. Fingendomi disinvolto mi avvio verso il bar di Giulia tutto addobbato a festa, con le lucine sul soffitto e la musica scampanellante Ti porto il solito?, mi chiede Giulia, No, le rispondo, Dammi qualcosa di forte, Giulia mi guarda come se mi vedesse per la prima volta, chissà se ora mi riconosce, le faccio uno sguardo pieno di sottintesi, e questi sottintesi starebbero a significare per l’esattezza le due parole Vedrai, vedrai, che poi è una parola sola, ma ripetuta.
Giulia mi porta un bicchierino di grappa, io la mando giù alla goccia, mi asciugo la bocca con il polso graffiandomi le labbra con un gemello, Mamma che schifo, penso, registro mentalmente di non ordinarla mai più, la grappa, ma va bene, che stasera è la vigilia, stasera è la sera, e io mi avvio, ancora più finto disinvolto, anche troppo disinvolto direi, forse più brillo che disinvolto, mamma che schifo la grappa, non so come fa il barbone, quello che vede i fantasmi, a bere questa roba, ora che ci penso è da un bel pezzo che non lo vedo. Mi avvio alla parte di sopra del paese, quella storica e preziosa, tutta scintillante di luci e di addobbi che mi pare un gioiellino, un presepe di Natale mi pare, e mi accorgo che su quel presepe ci stiamo avviando un po’ tutti. Vedo la stessa Giulia, i miei genitori, il giocatore d’azzardo che ha sfidato il demonio, e un tizio strano, che pare avere millemila anni, con due occhi azzurrissimi, di ghiaccio, se ne sta per conto suo, ci avesse qualcosa da nascondere.
Li guardo tutti emozionato, come se fossero venuti a festeggiare il mio compleanno, il mio Natale, la mia rigenerazione, ecco, rigenerazione mi pare la parola indicata, ci siamo, Piazza dell’Immacolata è pronta, e adesso, mi dico, adesso vedrò.
Mi aggiro tra i vicoletti illuminati seguendo la calca, questa volta mi ero pure studiato il percorso sulle mappe online, ma non ce n’è bisogno, seguo gli altri, arrivo alla piazza, è stata riaperta, la si può già vedere. Un nastro tricolore ci impedisce di entrare perché prima la banda deve suonare canzoni natalizie, il sindaco fare un discorso natalizio, noi fare gli applausi natalizi, qualcuno fischia, un atteggiamento poco natalizio devo dire, infine si taglia il nastro, possiamo tutti ammirare questa meraviglia dell’urbanistica che è la nuova piazza, io sono al settimo cielo.
Mi guardo intorno con una strana ebbrezza, mi domando È questa forse la felicità?, mi domando È questa l’essenza vera del Natale?, poi mi chiedo Ma non è che mi sono sbronzato con il bicchierino di grappa?, e me lo chiedo anche perché questa piazza, questo nuovo centro di aggregazione, questa meraviglia dell’urbanistica, con rispetto parlando, mi pare brutta, ma brutta assai.
Un cerchio floscio pieno di sanpietrini sconquassati che visti tutti assieme formano una specie di disegno, che rappresenta credo una Madonna stitica in apprensione. Al centro una statua di oro finto che dovrebbe rappresentare, credo, la libertà, ma che sembra, mi pare, un carciofo. Mi viene subito da guardare il sindaco, fino a qualche momento fa così orgoglioso, ma che adesso forse comincia a percepire gli umori non proprio positivi della gente, e a me un po’ mi dispiace per lui, mi ricorda quando volevo aiutare quella turista coreana, forse era giapponese, poteva anche essere cinese, non me ne intendo. Mi ricorda quando volevo aiutare quella turista cinese persa tra i vicoletti, che io ci avevo tutte le buone intenzioni, lei mi ha detto Lascia stare, e adesso mi verrebbe da dire al sindaco, in italiano madrelingua, Sindaco, perché non hai lasciato stare?
Poi non lo so bene com’è andata, prima qualcuno comincia a fischiare, poi altri che erano venuti appositamente per protestare, tirano fuori dei cartelloni che sono cartelloni pacifici, i quali vengono lanciati addosso al sindaco, poi qualche lamentela, qualche provocazione, un sanpietrino strappato da terra e nel giro di poco devono intervenire le forze dell’ordine.
La piazza, Avete rovinato la piazza, Vergogna, dicono quelli. Un quarto d’ora di movimentazione, il giornale di domani le chiamerà Colluttazioni, e poi la festa finisce, le urla si placano, tutti veniamo mandati a casa, nella mia testa rimbomba la voce del sindaco, Vedrai vedrai, penso ancora confuso, Non c’è niente da vedere, dice adesso un poliziotto.
E davvero non c’è niente da vedere, lo stesso belvedere è ormai coperto, rovinato da quell’immensa celebrazione ai carciofi fatta di oro finto, io che non ho mai vissuto la parte alta del paese ci rimango male, figurati gli altri. Non lo so, sarà la grappa, ma mi viene quasi da piangere, poi mi accorgo che qualcuno accanto a me piange davvero, mi giro a guardare, è Renato, il mio vecchio amichetto delle elementari, non si è mai messo con Giulia, a quanto ne so. Renato è cresciuto e si è fatto uomo, è un bravo ragazzo, ci ha pure famiglia, non ho problemi con lui, ma ci ha questo difetto di mettersi a piangere ogni volta che voglio piangere io, per una volta che mi ero quasi deciso, per una volta che proprio me lo meritavo, si mette di nuovo a piangere lui, che a lui mica il sindaco gli ha mai detto Vedrai, vedrai?, io ci ho più diritto, di piangere, cazzo.
Noto che Nunzia, che poi sarebbe mia mamma, chiusa nella sua pelliccia delle serate importanti, mi fissa dall’altro lato della nuova piazza con una certa intenzione che non so capire, di certo non sono buone intenzioni. Prende papà sotto braccio e insieme scendono verso la parte bassa del paese, io ho ancora la gola irritata dalla grappa di Giulia, ce l’ho tutta ferma lì, è un groppo, che se solo avessi la forza mi sembrerebbe giusto urlare, mi sembrerebbe doveroso esprimere i miei sentimenti, dire al sindaco Ma che hai combinato?, dirgli Che ne è stato delle tue promesse?, Che ne è adesso del mio futuro, delle mie speranze, del mio destino?, dirgli insomma Perché hai fatto questo a me?, e quasi quasi approfitto della mezza sbronza per dirglielo, ma invece non faccio niente, nemmeno piango, penso solo che il poliziotto ha ragione, Non c’è niente da vedere, e anche mamma ha ragione, dato che, inaspettatamente, inizia a fare un po’ freddo. Mi stringo nel cappotto di marca e, contando i sanpietrini sulla strada, mi avvio verso la parte bassa del paese.

Non lo so se per la sbronza o per cosa, mi trovo nel bosco.
Sento freddo, e sento pure delle voci che mi fanno venire voglia di tornare indietro, ma non ci ho proprio voglia di rivedere Giulia, e il sindaco, e Renato che piange, e mia mamma che mi guarda con cattive intenzioni.
Allora non vado indietro, vado avanti, guardo la luna, penso che è grande, che è così bella, e per pensare che è grande e così bella inciampo e casco per terra, mi sporco il completo gessato delle feste.
A terra ci sta il barbone, quello che parla coi fantasmi, che io mi domando Ma tra tutti i posti di un paese fatto a tre livelli, proprio in mezzo al bosco ti devi addormentare?
Mi viene voglia di svegliarlo e parlargli di quanto fa schifo la grappa che a lui piace così tanto, quasi come fosse colpa sua se fa così schifo, ma a una valutazione più attenta mi accorgo che il barbone è morto, con uno squarcio sulla gola e la testa per poco non gli rotola a terra, che io forse dovrei pure avere paura, ma non ci riesco.
Che diavolo sta succedendo, mi dico, pensando alle voci che sento attorno a me, alla piazza che è stata un fallimento, e pure alla mia rinascita che non ha fatto rinascere né me né nessuno, anzi, qua c’è il barbone che è bello che morto.
E allora vado ancora avanti, e avanti li vedo, stanno parlando di qualche cosa. Sono quell’uomo dagli occhi azzurri e poi Lui, il demonio che stava al bar di Giulia, quello che ha perso a carte qualche giorno fa, che secondo me ha perso di proposito, ché se uno è un poco furbo lo capisce da sé.

«Te l’avevo detto che la mia presenza sarebbe stata necessaria» dice quello dagli occhi azzurri.
«Mi devo dire discorde.»
«Avresti preferito fare tutto da solo?»
«Conosci bene ciò di cui, dalla notte dei tempi, sono capace.»
L’uomo dagli occhi azzurri, che pare avere millemila anni, sorride. Io sento sempre più freddo, ma lui no, e manco l’altro.
«Bel tocco quello della piazza. Mi devo complimentare.»
Il demonio sorride pure lui, ma è spaventoso, fa una faccia tutta storta da paura e io mi sa che è meglio se me ne vado, però sono pure troppo curioso e quindi resto.
«San Bartolomeo è la mia magione» dice Lui, «tutto deve seguitare e restare il più possibile immutato. Il sindaco è solamente una pedina, un obolo sacrificabile, assolutamente superflua.»
«Ti ricordo che ero qui prima di te. Ho contribuito a questo posto con il mio sangue.»
«Nobile intenzione, Alexandrus Maximus.»
Alexandrus Maximus è un nome ben strano per uno che vive nel nostro borgo, e io in effetti quel tizio non l’avevo mai visto da queste parti. Di che zona sarà? Mi viene quasi da domandarglielo, poi però mi faccio i fatti miei.
«Il barbone aveva indovinato tutto, e io devo riportare indietro i miei compagni.»
Il diavolo si mette a ridere fortissimo, così forte che mi casca una pigna in testa e per poco non urlo.
«Tornare indietro?» ripete, una voce metallica che mi fa fischiare le orecchie, «Nemmeno il sottoscritto può compiere una tale impresa. Posso dirlo con certezza: non c’è ritorno dall’aldilà. Non v’è modo per le anime di sfuggirmi.»
«Lascerai fuggire le mie
«E per quale motivo, di grazia, dovrei?»
«Perché ti saranno utili nel raccattarne altre. A me non interessa degli zotici di questo posto, mi basta avere indietro Caius, Mamercus, e Titus e gli altri».
«Perché?»
«Non sarà la prima volta che qualcuno ti chiede di rivedere una persona cara.»
«E mai ho acconsentito.»
«Lo farai adesso, per me. In cambio, ti lascerò San Bartolomeo come casa, immutata per sempre come desideri.»
«Presuntuoso da parte tua il pensiero che non possa fare da me quello che dici.»
«Se avessi voluto l’avresti già fatto. Il barbone l’ho dovuto sistemare io, mentre ti sollazzavi a far finta di perdere scommesse, a sedurre le loro donne.»
Il demonio sospira, e sospiro pure io che non ho capito proprio un bel niente di quello che questi due si sono detti, se non che il povero barbone l’ha ammazzato Alexandrus Maximus, o forse era il contrario, Maximus Alexandrus, che mi pare suoni pure meglio. Penso che se è stato tolto di mezzo forse è perché aveva visto questi due, e dato che li sto vedendo pure io, penso pure che è meglio se me ne sto buono.
«Una volta terminato, il mio desiderio è di rimanere da solo.»
L’uomo di ghiaccio sorride.
«Non ci tengo a restare qui con te. Una volta riavuti i miei compagni, sgomberiamo il borgo e non ci rivedrai mai più. Sai che l’unico motivo per cui tornavo era di rivederli, seppur per poco, nella notte della vigilia.»
«Sciocco che non sei altro» sghignazza Lui. «Gli esseri immortali prima o poi si incrociano sempre in questo giovane mondo.»
Alexandrus Maximus, o come si chiama, non risponde, e io mi sa che me la filo.
Certo, i turisti giapponesi o coreani, che so io, anche a me danno fastidio, però qui parliamo di ammazzare tutte le persone del borgo e io non lo so se questa cosa a me mi sta bene, perché scomparirebbe Giulia e a me mi pare che ho ancora delle cose da dirle, che se lo faccio Renato si mette a piangere un’altra volta prima di me, o muore prima di me, che mi sono scocciato che faccia sempre le cose prima di me, e mia mamma mi direbbe che aveva ragione e che non era questo il posto giusto per noi e per l’azienda di famiglia. Penso che solo il sindaco dovrebbe morire, ma poi mi stupisco di quel pensiero, anche perché, se ho capito quello che ho sentito, l’inaugurazione della piazza nuova è venuta male per colpa di questi due qua, il sindaco che c’entra?
E insomma me ne vado, e proprio quando ho deciso una voce mi sussurra nell’orecchio.
Me l’hanno ammazzato, povero il mio Ennio!
Singhiozza. Mi sa che è il fantasma che vedeva il barbone, una bella ragazza coi capelli rossi, ma rossi come il fuoco. Scappa, Umberto! mi dice, Altrimenti prendono anche te!
Ma io non ci credo mica, io lo so che se vado in giro a raccontare che ho visto una specie di vampiro di mille mila anni e il demonio e un fantasma che mi parla, la gente mi prende per matto, e allora è meglio che mi sto zitto, che già la reputazione è quella che è.
A una valutazione più attenta mi convinco che questa è tutta un’allucinazione della grappa di Giulia, e quasi quasi glielo vado proprio a dire che è meglio se non la vende più.
Ma a una valutazione ulteriore penso che ho sonno, e allora al diavolo tutte queste tragedie, la piazza, il sindaco, e al diavolo pure Giulia, si arrangi lei e la sua grappa, che ora che ci penso non è neanche così bella, Giulia dico, pare un uomo, si mettesse con Renato, così lui la pianta di piangere e magari diventa il turno mio. Anzi, mi viene da pensare, morisse Giulia, sì, per quello che mi riguarda può pure morire, così Renato avrebbe finalmente ragione di piangere, e poi morisse pure Renato, e pure il sindaco, ci ho ripensato, morisse pure lui. Mi sorprendo di questi pensieri che però mi fanno stare così bene, e mentre me ne sto a pensare torno in piazza, e mentre torno in piazza per poco non inciampo di nuovo. Stavolta sotto di me trovo proprio il corpo di Renato, e non ci vuole nemmeno un’attenta valutazione per capire che pure lui, come il barbone, è morto. Allora mi dico ad alta voce che devo stare attento a quello che penso, e lo dico con una voce che pare quella di Nunzia, che poi sarebbe mia madre, e non faccio a tempo a recitare questa pillola di saggezza che, proprio Nunzia, mia mamma, proprio lei la vedo morta più avanti, trapassata come aveva promesso, e con un’espressione indignata che pareva proprio che, prima di morire, avesse pensato a me.
La piazza, sento gridare, Hai distrutto la piazza. E allora mi giro e vedo la gente dei cartelloni non violenti, stanno correndo da sopra e da sotto, vanno dietro al sindaco lanciando sampietrini, che io mi domando Ma che sta succedendo stasera?, poi domando Sono tutti ammattiti?, e mentre ancora sto lì a farmi domande stacco un sampietrino da terra pure io. Poi la vedo. Esce dal bar, pare spaventata, e non ha nemmeno torto, attorno a noi la gente si piglia a mazzate senza motivo. Chiude la saracinesca e allunga il passo, ma tanto io lo so dove abita, io lei la conosco dalle scuole elementari. Stringo il cubetto di pietra e mi viene da fischiettare una canzone natalizia, e penso che non sono mai stato meglio, e che questa sera, finalmente, potrò dire a Giulia tutto quello che avrei sempre voluto dirle, o forse no, forse non ce ne sarà nemmeno bisogno. Come mi sento bene, dico ancora ad alta voce, pure il freddo è scomparso, e mi viene da pensare che il vestito gessato dovrei metterlo più spesso, e pure che non c’è mai stata una sera di Natale bella come questa. Questa è la sera, penso, mentre infilo un piede sull’uscio per bloccare la porta di casa di lei, dopodiché le campane a morto che arrivano dalla chiesa coprono la canzone di Natale che sto fischiettando, e coprono pure le urla di Giulia, la mia migliore amica.


Illustrazione di Francesca Galli