Tic-Tac
Tic, tac. Tic, tac. Cos’è questo rumore? Deve essere il cucù della cucina. Controllo. No, non è il cucù. Allora devo aver lasciato attivo qualche vecchio orologio da polso nel cassetto. Controllo. No, sono tutti scarichi. E allora? Sotto il letto? No, qui soltanto un vecchio giornale. Sarà mica il vicino? Ausculto la parete con cura ippocratea. Niente, soltanto i fluidi del silenzio che scrosciano contro il mio padiglione auricolare. Verrà da fuori? Un orologione c’è pure, quello della farmacia. Scosto con grande fatica la tenda, apro gli scuri con affanno erculeo. Non capisco, è come se improvvisamente avessi le braccia sottili come il cavalletto di un leggio da orchestra. Affondo il muso nello sciroppo nauseante dell’aria agostana. L’orologio c’è, ma è digitale.
Tic, tac. Tic, tac.
Il ticchettio è sempre più rimbombante, più organico.
Vado in bagno, ho bisogno di una rinfrescata. Accendo la luce. È come se la superficie delle mie dita fosse infinitamente più ridotta, quasi quella di uno stuzzicadenti! Devo fare pipì. È proprio nel momento in cui raccolgo il pene dalle mie membra riarse che, trafitto da un gelo ferino, constato: il mio sesso è ora tenuto sollevato da due scarni bracci metallici, le zampe di una formica inossidabile. L’orrore mi rende incontrollabile la minzione: ci sarà da pulire.
Apnea. Inarco obliquo il collo per insinuarmi progressivamente nell’inquadratura dello specchio come un tuffatore: i capelli si dividono, come sempre in questi ultimi tempi, tra antichi e giovani, in un rapporto contronaturale dove questi ultimi sono privi di pigmentazione; le sopracciglia si affollano ipertrofiche; gli occhi ospitano la solita iride magmatica, forse solo un poco più pulsante; il naso fa l’usitato capolino; le crespe delle labbra si uniscono dolcemente asimmetriche; il mento raduna il consueto abbarbicarsi di serica peluria; il collo si slancia robusto; le spalle… le clavicole paiono monche. Mi viene istintivo toccare l’oscena mutilazione ed ecco che l’aberrazione fa la sua demoniaca epifania.
Il mio braccio sinistro si presenta come un gracile tentacolo di colore nero, raggelante alla pelle e alla vista. La punta è una goccia di ferro affusolato, acuta come un canino. Prendo coraggio e mi traslo completamente nel fuoco dello specchio. Scosso da un conato di voltaggio ributtante, acclaro che le mie braccia – o, meglio, le mie appendici di insetto industriale – hanno lunghezze differenti. Il braccio destro è notevolmente più corto dell’altro. Dopo qualche secondo inspiegabilmente preciso, atomico oserei dire, rilevo che i miei arti vivono di movimenti dalla cadenza liturgica, al di fuori di ogni mia volontà. Se il mio braccio sinistro sospinge la propria brevità con eccezionale pigrizia, quello destro scivola con maggiore sollecitudine. È eccezionale: ora riesco a disegnare una circonferenza completa con i miei arti senza provare alcun dolore o sperimentare alcuna dislocazione o lussazione. Mi rendo conto di essere diventato qualcosa che non sono mai stato e ciò mi droga di un entusiasmo confuso, sifilitico.
Qualcosa mi pizzica la punta del naso come una scia di moscerini, che resta nel mio campo visivo per qualche secondo circa, una volta al minuto. Al settimo solletico nasale decido di risalire alla sorgente di quel nugolo rettilineo. Curiosamente, escresce dall’area corrispondente al piloro. Tasto il mio sterno con le mie braccia, i miei bracci, senza tatto. Percepisco tramite l’amplificazione dei reticoli cubici una vibrazione solo sussurrata. Fatico a tenere in sede quella che un tempo era la mia mano: vuole scattare. È da lì, dal centro del mio torso che s’irradia il ticchettio che mi ha svegliato. Cristo.
Mi ronza in viso ancora quel fruscio magnetico. È l’ottava volta. Decido di analizzarmi nella mia totalità sghemba, circense, algida, riflessa nello specchio. Il mio braccio destro è rigidamente inclinato a maestrale; quello sinistro pende a mezzogiorno. Sono le una e trenta. Sono un orologio.
Tento di mettermi a letto. Il ticchettio si fa temporalesco. Non riesco a comprendere perché mai sia così pervicacemente avvinghiato alla mia umanità quando oramai essa non è che l’insonne retaggio di un tempo andato. Mentre comprendo che l’unica posizione che posso assumere è quella supina, penso proprio a questo. Tutta la mia vita di essere umano è stata caratterizzata dall’imbattibile riottosità verso un destino che avrei dovuto semplicemente accettare. Al contrario, gli ho stretto la carotide più e più volte con l’intento di spruzzarne fuori le ossidazioni più spigolose e berne soltanto il succo più fluido, quello dei miei desideri. Con le mani – oh, quanto bramo averne un paio ora! – impegnate in una morsa dolorosa su quel tubicino di fato ho atteso così a lungo che mi sono trasfigurato nel buio della gestazione. Mi do un’occhiata, bagnato dalla luce agrumata di un lampione, fratello di materia.
Sono le due e quarantatré.
Sono un orologio.
39 giorni, 18 ore, 57 minuti, 13 secondi più tardi
Sto gradualmente scendendo a patti con la mia condizione, anche se non sto a dirvi cosa significhi mangiare. Tic. O semplicemente bere. Qualche giorno fa mi hanno cacciato dal ristorante perché, sostenevano, il fatto di essere un disabile non mi dava il permesso di distruggere le stoviglie e sprecare cibo prezioso. Tac. La proprietaria mi ha prima invitato a guardarmi sotto al mento, poi mi ha gridato: «Ecco, non vedi che ore sono? È l’ora che tu te ne vada!». In compenso, una volta fuori un ragazzino mi ha chiesto un autografo. Al mio sorriso soccombente, mostratogli con lo sguardo la punta ingovernabile delle mie appendici, ha optato per una fotografia assieme. Tic-tac. L’ho ringraziato sinceramente, perché per la prima volta mi sono sentito utile. Per la prima volta da quando strozzavo la carotide delle Parche.
Guardandomi riflesso non sono poi così male. Sono le diciotto e quarantasette e sono piacente, come prima, e adesso oserei dire di avere quel qualcosa in più. Mi cercano più donne, ad esempio. L’altra sera una signora in ottima forma, tale L., mi ha chiesto di fare qualcosa di diverso. Non vedeva l’ora; beata lei, io non faccio altro che avercela inesorabilmente sotto gli occhi. Abbiamo cenato insieme, in casa (evito i ristoranti), poi un po’ di jazz e, infine, siamo piombati sul letto. Voleva a tutti costi sapere com’era fare l’amore con il tempo, farsi violare dalla rigidità dispotica delle ore, dall’insistenza monocorde dei minuti, dal misterico sussurrio dei secondi. Ho scoperto che la lancetta delle ore – pardon, il mio braccio sinistro – ha una zona erogena proprio alla sua estremità. Allo scoccare della mezzanotte, poi, un formicolio di libidine mi ha soverchiato in un’erezione zenitale che ha coinvolto tutto il mio corpo bimaterico. L. è fuggita apostrofandomi come «porco». Ah, io… Tic-tac.
∞
È passato diverso tempo (io ne so qualcosa). Stavo reiterando lo stesso errore, ossia impegnarmi in qualcosa che non ero, che non potevo essere. Ho tentato di fare il netturbino, ma l’inclinazione delle mie lancette me lo permetteva solo a sprazzi: soffrivo di troppi tic, di troppi tac. Ho fatto il bibliotecario, ma, dopo aver strappato una decina di pagine da un libro per lo spasmo incontrollato e regolarissimo delle mie braccia, dei miei bracci, sono stato congedato. Proprio in quel momento – chi più di me vive i momenti? – ho compreso che dovevo soltanto adattarmi a quel ticchettio, perché proveniva da me, era la mia anima, ero io. Così, mi sono recato all’ufficio del capostazione e gli ho domandato se avesse un posto per me nell’androne centrale. Radunato un fugace consesso con i colleghi, ha deliberato. Tac! Certo, mi ha detto, niente, nessuno meglio di me avrebbe potuto indicare l’ora. Non dipendevo da corrente elettrica né sarei risultato poco visibile da certe angolazioni. Necessitavo soltanto di un paio di pasti al giorno e un letto sospeso per la notte – dovete sapere che io ticchetto anche quando dormo, proprio come il cuore continua a battere.
Ora sono qui, a svettare sopra il tramestio quotidiano del mondo, a cui do ritmo. Tutti mi osservano un poco incuriositi, c’è chi scatta qualche fotografia; qualcuno mi lancia talvolta un frutto troppo maturo o un sassolino. Tentano di centrare le lancette, soprattutto quella dei secondi, promettendosi laute ricompense a scommessa vinta. Li fa ridere che un uomo possa suonare come un triangolo. Io dalla mia sorrido, perché tutto vedo, non perché tutti mi vedono.
Ora, appeso cristologico tra i tabelloni di arrivi e partenze, non sono più un orologio, un mezzo. Sono il ticchettio che mi ossessionava. Per me essere e tempo non sono distinti. Per me essere è tempo.
Tic, tac. Tic, tac.
Immagine tratta da The Clock Store (Disney, 1931).