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Autore
Alessia Del Freo
Ciclo #7 - Spaghettogonie
Narrativa
28 ottobre 2021

Chloé camminava di fianco a Louis, e a ogni angolo si sentiva il rumore dei suoi arti sbattere uno contro l’altro.

«Mi ricordo di una sala circolare, totalmente bianca» la sua voce aveva sonorità umane ma era sempre seguita da un’eco metallica, come se rimbombasse in una tubatura «e la sensazione di esserci sempre stata… al mondo, dico. E poi una voce profonda, qualcuno la chiama Il Dio.»

Louis proseguiva con un braccio teso dietro la schiena di Chloé – una fila di bulloni lungo la spina dorsale e una serie di cavi scoperti – proteggendola dalla folla. Si facevano spazio tra gli individui di una traversa di Boulevard Massena, una strettissima via i cui estremi s’innalzavano per metri e metri, perdendosi nell’intreccio di piante e rampicanti che aveva invaso la periferia e cancellato la sommità  degli edifici. Anche le insegne orientali erano avvolte da un’edera tentacolare e le luci dei neon coloravano a intermittenza le lamine delle foglie.

Louis la condusse in un vicolo dove l’umidità della foresta era così densa che i muri trasudavano costantemente. La vegetazione creava una galleria quasi fiabesca, ma per terra, tra gli arbusti selvaggi, s’intravedevano resti di chip e cavi abbandonati. Qualche specie ibrida faceva capolino tra i rami, e si dileguava subito. Chloé guardava con interesse i fiori e i frutti tropicali.

«Qui è questo gran caos ma a Ivry è ancora peggio, quelli che abitano ai piani intermedi dei palazzi non aprono più le finestre da mesi…»

Chloé ripensò al grande campo di agricoltura biologica dove lavorava da un tempo indefinito; le coltivazioni perfettamente simmetriche, i prodotti monitorati con eccessiva scrupolosità, la grande casa colonica sterilizzata due volte al giorno, i bonus accumulati per cambiarsi i pezzi poco funzionanti – non aveva ancora finito di aggiustare un cavo rivestito di metallo che penzolava da una gamba e continuava a sbattere contro l’altra – e un giorno Louis che la invitava a seguirlo e le raccontava di una vita prima del Dio. Non aveva ancora capito perché avesse rischiato tanto per portarla via da lì.

«Quelle con problemi al cervello le mandano in rottamazione» le aveva detto una volta una compagna di stanza dopo averle raccontato uno dei sogni in cui si credeva umana, «Significa che la trasmigrazione dell’anima non è avvenuta bene».

Louis e Chloé si trovavano davanti a un portone di legno scrostato. Dalle ante semiaperte usciva una luce calda e verdastra e il rumore di musica rock.

«Vieni Éloise» le disse il ragazzo invitandola a entrare, ma si corresse subito «Chloé.»

Il pavimento della stanza era ricoperto di foglie secche da cui  spuntavano come esili tronchi le gambe delle sedie e dei tavoli malmessi di quello che era stato un vecchio bistrot.

I rampicanti erano penetrati dalle finestre e poi dalle tubature, avevano rotto le pareti, e si arrotolavano intorno ai lampadari emanando un alone verde. A sedere c’erano solo umani ma nessuno si stupì nel vedere Chloé insieme a Louis. Dietro al bancone e in giro tra i tavoli c’erano invece dei Vuoti: uomini privati della propria anima – consegnata a robot come lei – nei quali era stato implementato un software per svolgere i più basilari compiti di servizio. Louis la invitò a sedersi.

«Vuoi sentire una birra? Credo che tu possa, giusto?»

Louis ammiccò al suo stomaco, pensando al rischio di arrugginire, e lei si schiarì la voce con un brontolio stridente: «Sì, certo…ne avevamo diritto anche in colonia, una pinta al massimo il sabato sera se avevamo lavorato bene.»

Chloé osservava frastornata gli umani intorno a loro, i gesti e le espressioni, indovinando forse peculiarità che un tempo le erano appartenute. Un Vuoto servì due birre dall’unico fusto libero dai fiori e un’altra come lui, una ragazza dagli occhi assenti, le portò al loro tavolo.

«Quindi è questo che fa Il Dio? Svuota gli umani dell’anima per schiavizzarli e umanizza i robot per dominarli…»

«Esatto. Usano le anime per evitare le rivolte dei robot e poi riciclano gli involucri umani da cui sono state estratte, per una società ecosostenibile…sarebbe un peccato buttare via tutti quei corpi, così li riutilizzano immettendovi dei comandi che li rendono schiavi inconsapevoli. Quelli che lavorano qui li abbiamo recuperati da un edificio a Olympiades. Ci prendiamo cura di loro. Gli diamo da mangiare, ma non sappiamo come cambiare le loro funzioni. Abbiamo provato a fermarli ma continuano a lavorare, sono stati impostati per farlo…»

«Questo vuol dire che anche il mio corpo, da qualche parte, potrebbe essere ridotto a un automa del genere? Una Vuota…»

«Chloé» stavolta sottolineò il nome giusto in maniera innaturale «Ti ho portata qui anche per…» ma Louis non riuscì a finire che un allarme assordante prese a suonare su Boulevard Massena.

I clienti cominciarono a correre verso il fondo del bistrot, sbattendo incuranti contro tavoli e Vuoti, aprirono una botola smuovendo il letto di foglie e si calarono in basso.

Mentre scendeva, Chloé vide la cameriera indaffarata a risistemare la sala, come sorda: raccoglieva i boccali da terra e rimetteva in piedi le sedie che erano cadute. Quando chiuse la botola sopra la testa, lasciando tutti i Vuoti al piano di sopra, Chloé guardò Louis con aria interrogativa.

«Uno di loro la ricoprirà con le foglie. Lo fanno spontaneamente, pensano di riordinare il locale…» ma Chloé già guardava altrove, verso una serie di capsule bluastre disposte contro il muro della cantina: dentro c’erano ibernati involucri umani. Lui provò a prenderle la mano argentata ma Chloé proseguì da sola. Si avvicinò a un corpo femminile, dall’aria graziosa e i tratti incredibilmente simili a quelli di Louis. Era senza dubbio sua sorella.

Sotto al corpo fluttuante, c’era una placca arrugginita dall’umidità del sottosuolo. C’era scritto: Trasmigrazione n° 8Hj-679, Nome del corpo: Éloise.


Foto di Francesco Sammarco