Falene – Prima che il mondo si dimentichi di te
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I cani ci hanno trovati. Mi alzo in piedi e aiuto anche Letidia ad alzarsi.
«Entriamo» le dico, e la precedo dentro la baracca. Rimaniamo abbracciati al buio e in silenzio, finché non siamo sicuri di essere circondati. Improvvisamente la porta si spalanca e una guardia entra puntando la sua arma elettrica verso di me. Ma non fa in tempo a premere il grilletto perché gli sto già addosso, grido e mi agito e scalcio finché le mie mani non sono sul suo collo. La guardia emette un verso simile a quello dell’acqua che gorgoglia in uno scarico. Con un colpo che non vedo neanche arrivare mi ferisce all’orecchio destro. Lascio la presa e porto la mano alla testa. Un fischio acuto mi distrae mentre altre due guardie entrano e prendono Letidia rannicchiata al suolo.
Letidia grida e scalpita mentre la portano fuori di peso. Non posso più fare niente, così torno con la mia furia di bestia sulla guardia a terra. Vedo le mie mani, le stesse che carezzarono il corpo nudo di Dora su una spiaggia tirrenica, strette ancora al suo collo. Non sento nemmeno dolore quando mi scaricano addosso il loro arsenale elettrico, e i miei sensi si perdono in una nebbia violacea e impotente.
Letidia aveva ragione. Alcune persone sono su questa terra solo per allontanare la felicità. Ma non sono più sicuro su chi siano davvero queste persone. Forse quelli come me e Letidia, forse quelli che adesso premeranno il bottone e apriranno la botola, o forse tutti, indistintamente, attentiamo senza saperlo a una qualche felicità.
Ma è tardi. Mi si fanno davanti, come alla fine di uno spettacolo, l’immagine di un poeta che si spara al cuore in una stanzetta mezza ammobiliata di Boulevard du Temple a Parigi, e quella di Dora Martini che si alza delicatamente il velo da sposa di fronte al prete e al marito.
Come Pietro, ora tocca a me riconsegnare i ricordi. Io me ne costruisco uno apposta. Il ricordo di un corpo in ciabatte e vestaglia. Mi vedo in casa mia, mentre getto con forze residue lo sguardo sul tavolino della cucina, sui piatti sporchi della sera prima, le montagne di briciole di pane. Il vino lasciato sul marmo lucido della tavola senza averlo tappato. Il mio sguardo segue con calma gli scenari microscopici di un tipico sfacelo quotidiano. Cerco di prendere bene i tempi per farlo coincidere con quello che in realtà sta per capitare al mio vero corpo. Non so quanti giorni siano passati dalla nostra fuga. Non so cosa sia successo a Letidia. Mi pare che tutto sia stato un lungo sonno, sento di nuovo quel rumore di una stanza vuota nella testa ed è come se fossi ancora seduto sui gradini di casa mia, mesi fa. La corda penzola davanti a me. Provo a fingere di valutare quell’idea per la prima volta, provo a sorprendermi di una facilità mai presa in considerazione e, mentre le guardie me la infilano al collo, immagino che le loro braccia siano le mie.
«Melanargia galathea, Dynastor napoleon, Morpho madreperla» comincio a sussurrare, mentre qualcuno mi allinea i piedi sulla botola. Ma nel ricordo che ho confezionato sono io che mi sporgo un poco dalla sedia, che valuto l’abisso. Vedo la fine per quello che è davvero e non ne ho più paura: non una soluzione o una condanna, ma l’azzeramento istantaneo di tutte le soluzioni e di tutte le condanne.
Sento sul collo il cappio che la corda crea mordendo se stessa. Ho qualche cosa ancora da dire prima che il mondo si dimentichi di me.
«Tecla della betulla, Myrina silenus, Delias mysis…» mormoro piano mentre la botola si apre e io, come per un inciampo, mi lascio andare. Le parole si esauriscono come un rivo d’estate. Si fa sera, e le lucciole invadono il giardino; sulla Terra torna la felicità.
A illustrare il racconto, Acherontia atropos.