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Falene – Splendide Hotel

Autore
Filippo Cerri
A scelta dello Chef
Narrativa Generale
10 marzo 2022

Per leggere la prima parte del racconto, clicca qui.


Sento i cani più vicini, immagino le guardie pronte a entrare in azione con le loro armi puntate e le bocche serrate. I miei ricordi si inseguono, si scavalcano e si spingono, reclamando la luce che li rinvigorisca di nuovo, prima che sia troppo tardi. Ma tutto è confuso. E poi mi sembra che dal giorno della mia caduta in avanti, le cose siano andate abbastanza di fretta.
Grazie al decreto legge 023, per questo tipo di reati non c’è troppo da discutere, e il processo è poco più che una convenzione. Quindi trascorro un mese di cure e fisioterapia in cui mi mantengono in vita e mi rimettono in sesto. Altro paradosso. Sono condannato a morte ma devo lasciare un corpo in salute.
La clinica in cui mi ristabilisco a fatica, e in cui debbo aspettare il giorno della mia condanna, pare un hotel di una cittadina di provincia, una struttura di cui ignoro la forma esterna ma che posso tirare a indovinare sommando varie prospettive e proiezioni, il tutto immerso in una malinconica atmosfera da mare d’inverno. I suoi ospiti la chiamano in tanti modi: Splendide Hotel, l’acquario, la Dependance. Questo perché ai condannati non deve mai venir meno l’ironia.
La struttura dello Splendide Hotel emerge da una vastità di verde e ne sembra inghiottita. Al suo interno, ci muoviamo liberamente a metà tra la condizione di ospiti e quella di prigionieri. Di nostro abbiamo solo i vestiti, mentre tutto il necessario ci è fornito dall’amministrazione, direttamente nelle camere sorvegliate ventiquattr’ore su ventiquattro.
Appena posso camminare senza sforzo decido di guardarmi intorno, visitare la mia ultima dimora. Non hanno fretta, la mia esecuzione è prevista per la fine della primavera. Le ampie stanze dello Splendide Hotel si affacciano su lunghissimi corridoi che curvano all’improvviso, e su cui sono stesi tappeti di moquette che si srotolano fino a svoltare in angoli improvvisi. Le stanze sono dotate di enormi finestre da cui entra tutta la luce possibile, con raggi violenti che fanno male. A certe ore della mattina la luce è così forte che bisogna socchiudere gli occhi. Le pareti hanno dei colori tenui, dalle sfumature pastello, e sono per lo più ricoperte da quel tipo di quadri che uno non comprerebbe mai, ma che si trova sempre in casa: nature morte, vedute di pescatori che tirano su le reti, fiori, per lo più margherite, scenari di boschi e case di campagna.
Nonostante l’impulso non meglio definito, che fa in modo che gli ospiti dell’hotel se ne stiano quasi sempre in disparte, nei primi giorni dopo l’iniziale recupero comincio a dare ad alcuni volti un nome e un’ipotesi di vita. Con molti di loro scambio solo qualche parola, capisco che non hanno molta voglia di parlare e quindi desisto quasi subito.
Con un ometto dall’enorme naso riesco a stringere quella che potrei arrivare a definire una simpatia reciproca. Ha i tratti affilati di un volatile che lo allontanano dal sospetto di essere un discendente delle scimmie. Ci parliamo seduti nelle poltrone, sotto una grande vetrata che dà sulla macchia fuori dalla clinica-prigione. Quell’immensità di verde dovrebbe aiutare a rilassarci, ma io ne vedo ogni intreccio, ogni groviglio di rami e cespugli e mi sento mancare l’aria.
L’ometto si chiama Pietro e un mese fa si è dedicato un’ultima cena nel salotto vuoto di casa sua, guardando un televisore spento, concludendo il pasto con un dessert di pillole affogate in della grappa barrique.
La luce ci arriva di taglio mentre io e Pietro giochiamo a scacchi in silenzio. Come tutti gli altri, aspettiamo lo scadere del nostro giorno, con una calma trasparente che fa quasi venire il dubbio sulla nostra fine imminente. Pietro è uomo di lettere e a volte parliamo di poeti che non conosco. Ogni tanto lui ne cita qualcuno e io gli parlo del mio Salomon Nocuìt e di come, se fosse stato nostro contemporaneo, avremmo avuto la possibilità di vederlo camminare tra le vastissime sale dello Splendide Hotel. Ci ridiamo su.
Pietro non mi ha mai messo nella situazione di spiegare i perché del mio essere nella clinica, e solo una volta ha accennato ai suoi motivi: «Non potevo più ignorare tutte le labbra di cassiera che non avrei mai baciato».
Appena posso decido di visitare il giardino delle farfalle, che insieme alla biblioteca fa parte delle attrazioni della nostra prigione dorata. Uno le prenderebbe con tutt’altro spirito se non fosse per le guardie perennemente sull’attenti a ogni angolo di ogni stanza. Tanta premura per evitare che l’ospite riprovi laddove ha fallito una volta, e per assicurarsi che sia la Legge e solo la Legge il dito sul bottone della condanna. Ma che io abbia visto con i miei occhi, nessuno ha ritentato il grande passo. Le somministrazioni quotidiane dell’Hotel quietano gli animi più delle minacce di isolamento. Inoltre, non sono pochi quelli che una volta sfiorata la fredda tenebra dell’assoluto, cambiano idea e atteggiamento nei confronti di una fine autoindotta.
Dopo qualche passo nel giardino mi ritornano in mente cose che mi ero completamente dimenticato, come la mia vecchia e infantile passione per i lepidotteri. Mi ritornano in mente i nomi che avevo imparato a memoria, un vizio sottile che si era sfibrato del tutto, per poi scomparire nel nulla. È strano. Non provo rabbia né altro pensando al mio prossimo destino. Nessun singulto da parte della mia volontà di vivere, ma una pace sottile che in alcuni casi coincide con la rassegnazione.
Non riesco neanche a pensare al mio passato remoto, alla mia vita prima dello Splendide Hotel, a Dora Martini, al mio volo senz’ali. Dopo qualche settimana mi sembra di avere la stessa predisposizione di chi è in vacanza, quando si mette in sospensione tutto, niente di quello che succede a casa ci importa più e ci si sente qualcun altro.
Comincio ad andare quasi ogni giorno al giardino delle farfalle.
È un giorno di sole e la luce sembra sprofondare in ogni cosa che incontra. Il giardino si apre su un tappeto verde che ospita una moltitudine di piante, di roseti, di alberi e soprattutto un salice, le cui fronde si abbandonano alla brezza.
Sotto il salice, una figura seduta gioca con i sassi bianchi del vialetto. I capelli raccolti a chiffon la fanno sembrare la geisha che vidi in una stampa giapponese, da qualche parte che non ricordo. Indossa una giacca di jeans con del pelo bianco sul colletto. I suoi occhi, anche, hanno qualcosa di orientale. Sono due piccole fessure che scoprono una fiamma violacea. Appena mi vede emette un flebile ma prolungato fischio verso di me, dopodiché mi sorride, scoprendo una fila di denti perfetti. La saluto imbarazzato, poi mi volto e con una calma tutta inventata rientro camminando lentamente sul vialetto di sassi bianchi.
Il giorno dopo, mentre giochiamo a scacchi, Pietro mi sgrida per una mossa che non riesco a prendere. Sono immobile con i polpastrelli che artigliano la testa di un pedone e non accenno a risolvere lo stallo. In realtà, in quel momento sto pensando ad altro. Penso a Letidia e al giardino delle farfalle. Racconto tutto a Pietro che di rimando, per la prima volta, mi racconta qualcosa di lui, mentre io finalmente faccio la mia mossa del tutto a caso.
«È giusto quello che dicono di questo posto. Sembra di essere in vacanza. Solo che alla fine non si torna a casa. O meglio, per tornare torniamo, là da dove veniamo tutti. La Grande Casa».
Pietro muove le braccia in aria con gesti lenti e calibrati, come un vecchio e stanco animale. Quando non parla scongiura comunque il silenzio, con una serie di brevi e sussultori colpi di tosse. Il suo colorito pallido, quasi vitreo, ripropone a ogni occhiata la figura di un uomo esausto. Sul volto incorniciato da una rada barba e diviso in due dall’enorme naso, si può scorgere l’intera coniugazione del verbo struggersi.
«Ti ricordi a cos’hai pensato prima di farlo?» mi chiede portando avanti il pedone di due caselle. «Io sì che me lo ricordo. Prima che i sonniferi facessero effetto… in quel momento terribile. Ho sentito il bisogno di riconsegnare quelle due o tre cose che in qualche modo mi avevano giustificato. Riconsegnarle alla memoria, alla vita… per non portarmele dietro, capisci? E tutte hanno risposto alla chiamata» dice accennando a una risata. «Persino un bacio sfuggente e salivoso dietro il muro di Piazza del Carmine, accaduto tanto di quel tempo fa che credevo svanito».
Solo qualche giorno dopo ho capito che Pietro stava affidando a me quei ricordi, sapendo benissimo fosse un investimento a fondo perduto: era giunto al giorno della sua condanna. Forse è per questo che allo Splendide Hotel molti se ne stanno per lo più in disparte. C’è sempre in agguato il pericolo di sentirsi addosso il peso di un’altra disperazione. Pietro non riuscì a vedere come maggio trasfigurò il volto del giardino delle farfalle, e presto rimasi di nuovo solo, senza nessuno con cui giocare a scacchi, con cui parlare di Salomon Nocuìt o di qualunque altra cosa.

Dopo averci girato tanto intorno, la falena si schianta contro la luce e muore in un rumore sordo. La vedo cadere a terra come un angelo del Signore.
Gli ultimi giorni con Pietro trascorrono senza troppe parole. Io e Letidia invece cominciamo a parlare sempre più spesso. Ogni mattina vado al giardino delle farfalle e la trovo lì, in quel silenzio appartato, condiviso con me e una guardia sempre vigile, unico testimone disinteressato di un sentimento che si fa spazio, scardinando il vuoto dalla mia persona.
Le cose cambiano in una fretta che è tutta una tenaglia allo stomaco. Si avvicina il giorno della mia condanna, e i giorni di maggio scorrono così veloce che non mi accorgo, almeno non subito, di come una nuova forza si sia impadronita di me. Una forza che non sa bene quale sia il suo stesso nome ma che per la prima volta, dopo tanto tempo, mi fa avere voglia di alzarmi dal letto anche senza medicine.
In piedi, sul vialetto di sassi bianchi che riporta verso l’interno del giardino, confesso a Letidia della mia antica passione.
«Te ne ricordi qualcuno di quei nomi?» mi chiede.
Gioco a stupirla.
«Syrmatia dorilas, Lysandra bellargo, Arhopala amantes» comincio a mormorare, e Letidia un poco sorride. Parliamo del fatto che è da quando era bambina che non vede più le lucciole, che secondo lei non esistono più, e colgo l’occasione per recitarle una vecchissima poesia di Nocuìt. Me ne vergogno subito e penso a quelle come alle ultime parole di pena e d’amore che dirò a qualcuno.
Non contiamo più i giorni ma tutto il tempo che passiamo insieme è un attentato alla noia, all’attesa. Non parliamo quasi mai di ciò che ci è successo nella vita di prima, solo di ciò che ci piaceva, di tutto quello a cui davamo il nome di qualche entusiasmo.
Un giorno ci troviamo in una delle enormi stanze vuote dell’hotel. La luce è quella del pomeriggio e perciò posso guardare Letidia senza sentire una ferita allo sguardo. Nella stanza solo un quadro è appeso. Siamo soli e le nostre voci ci ritornano cullate dagli alti soffitti. Dalla superficie della tela, i colori ruvidi e grezzi coprono il disegno di un sambuco che solca le enormi onde di un mare in tempesta. Letidia è di fronte a me e guarda il quadro mentre cerca le parole.
«Nel mondo» mi dice, «l’infelicità è garantita da una serie di individui che la mantengono attiva, come un fuoco sacro». Mentre parla Letidia inclina la testa verso l’alto. Io l’ascolto e mi attacco allo schienale della sedia. Le dita dei piedi mi si stringono dentro le scarpe e faccio fatica a non mordermi l’interno del labbro.
«Ho sempre pensato che il mondo senza di me avrebbe potuto essere meno triste».
La guardo con uno struggimento tutto speciale, come si guarda un paesaggio desolato, la campagna dopo che ha piovuto e capisco per la prima volta il vero pericolo di fare entrare nella propria vita qualcuno allo Splendide Hotel: quello di sentirsi addosso una speranza.
Ma è tardi. La notte mi rivolto nel letto della camera, quella forza che in me non aveva ancora nome adesso se n’è dato uno. Penso a Letidia e a come sarebbe stato incontrarla fuori dalla clinica, scivolo nel gioco delle possibilità, cedo all’immaginazione. Quella notte, mentre osservo il soffitto, per la prima volta dopo tanto tempo rido, pensando ai casi della vita e alle circostanze che sembrano volersi sempre prendere un vantaggio su di noi. Tra il lenzuolo bianchissimo e il letto, con l’incoscienza di un adolescente che vuole scappare di casa, preparo la nostra grande fuga. Letidia accoglie la mia richiesta la mattina dopo senza muovere un solo muscolo del suo viso, senza aver bisogno di sfoderare il suo sorriso perfetto.


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A illustrare il racconto, Acherontia lachesis.