Restare
Ero certo che i primi giorni sarebbero stati i più difficili da affrontare.
L’inferno invece giunge al secondo mese. Ciò che di te sopravvive – un rossetto in bagno, quel capello incastrato sotto la gamba del tavolo, la polvere sul comodino dove c’era la tua lampada – è ormai un simbolo sacro: vicinissimo, eppure inaccessibile.
A pranzo, i miei mi chiedono come sto. Chiunque incontro mi pone la stessa domanda, come se ci fosse qualcosa da raccontare. Gli dico questa cosa del secondo mese e mi sento rispondere ancora una volta che chi ci ha perso sei tu. Lo dicono perché sono figlio loro ma sappiamo tutti che, fra noi due, sono io a non aver alcunché da offrire. Gli dico Ok, sarà come dite voi. Mi guardano con quelle facce, di nuovo. Odio la pietà nei loro occhi.
Prima di andare, mamma mi regala un bustone di cibo per gatti. Dice che è uno spreco buttarlo. Bianchina è morta da un anno ed è ora di liberarsene. Restiamo a fissare lo sguardo salutare del felino sul bustone, incapaci di dire alcunché. Per quanto banale la verità è sempre questa: siamo impotenti davanti a chi se ne va.
Giunto sotto casa nostra, mi fermo per dare qualche croccantino ai randagi. Quello rosso resta in disparte, un paio invece si accostano ma scappano quando un vecchio si avvicina borbottando. Loro sanno quanto costa restare.
Durante la riunione, Marco dice che dovrei svagarmi. Conoscere gente, scopare. Dopo il lockdown le tipe stanno infoiate, vogliono solo farsi sgroppare. È ancora estate, continua, poi mi dà un colpo sulla spalla per rafforzare il concetto.
Gli dico che sgroppare è un termine orribile. Mi risponde che non è con la castità che risolverò i miei problemi.
Più tardi sull’autobus scarico Tinder. Lo faccio di nascosto, come un traditore. Scarto tutte le foto in cui siamo insieme e quelle che risalgono a più di cinque anni fa. Ne rimangono sei decenti. Alla descrizione non so che inventarmi. Scrivo che amo viaggiare, ho studiato lettere e lavoro nelle HR. Cancello tutto e metto una frase di De André sull’amore che fugge e da me tornerà. Poco dopo mi arriva la notifica del primo match. Serena, trent’anni, pugliese, Leone ascendente Sagittario, odia palestrati e fascisti. Resto a fissare la chat cercando un modo per attaccare bottone. Inizio dicendo che io sono Bilancia, poi penso che non vorrei mai ritrovarmi a parlare di segni zodiacali con una sconosciuta.
Vado su WhatsApp, ti trovo online e mi danno l’anima all’idea che stai scrivendo a qualcuno che non sono io. La sera passa così, a osservare il tuo volto su una delle foto scartate nel pomeriggio.
Com’è possibile scambiarsi quegli sguardi, essere il centro dell’universo, e poi diventare nulla?
Ho davanti un tagliere e due calici: bianco per me, rosso per questa tizia di cui conosco solo il nome, l’età e la passione per Michael Kors. Dalla gonna sbucano due belle cosce toniche. Forse ha ragione Marco: non c’è bisogno di avere sempre una prospettiva a lungo termine. Magari bastano due chiacchiere, una serata senza troppe aspettative.
Quelle cosce chiamano un istinto che credevo sepolto.
Mentre la tipa mi racconta di non credere ai vaccini che stanno testando, torno a una sera di sei anni fa. Siamo in silenzio sul letto, in tv i palazzi crollano intorno a Tyler e Marla. Where Is My Mind ci avvolge. Se crollasse tutto ora, ti dico, morirei felice. Mi guardi e dici scemo. Ti passo la canna. Anch’io, aggiungi, fai un tiro, e accartocciando la cicca mi chiedi perché ci ritroviamo sempre a fare questi discorsi strani che non portano mai a nulla. Non lo so, rispondo, però è fico. Mi baci e so di amarti.
A Viviana, qua davanti a me, chiedo se vuole spostarsi. Da un lato spero dica di no, invece fa Ok. Camminando, penso a qualcosa, una cazzata qualunque, per sabotare tutto.
Scopiamo per dovere: perché l’ho già invitata su, le ho già messo le mani sulle cosce e poi sul culo e lei me l’ha già preso in bocca. Sembra godere per finta: potrebbe essere un ottimo momento per dirle di fermarci qui, stringerci la mano e ognuno per la propria strada. Le tiro i capelli e penso a te, ai tuoi capelli nelle mani di altri uomini. Urlo, non so se per l’orgasmo o per rabbia.
Quando se ne va resto a fissare il divano: scomodo, ma non avrei potuto farlo sul nostro letto.
Poi arrivano la zona rossa, il coprifuoco, e il presente torna a perdere ogni orizzonte.
Rispondo agli auguri su Facebook e WhatsApp come se veramente ci fosse un compleanno da festeggiare.
Fuori dalla finestra, il mondo è una foto.
Il quindici novembre, la prima busta paga da cassaintegrato viene divorata dalla rata del mutuo. Papà dice che potevo evitarmi questo salasso, rivendere pagando la penale alla banca e togliermi trent’anni di sacrifici dalle spalle. Ma non avrei potuto perdere te, il lavoro e questa nostra casa tutto in una volta. Soprattutto, non avrei potuto tornare dai miei: è assurdo l’effetto straniante che fanno le camere in cui siamo cresciuti. Spoglie del nostro presente, restano logore come vecchi templi di un’epoca passata. Niente ci attende lì dentro.
Passo il pomeriggio a fare scorta di offerte alla Lidl, a cancellare le uscite programmate. Tanto, di questi tempi non ci sono grandi alternative al bingewatching.
Poi esco in balcone. Tre piani più giù, in giardino, c’è una signora circondata dai gatti. Ogni tanto la vedo passeggiare o leggere qualcosa al parco. Sempre sola, tranne quando discute con qualcuno per motivi che da qui non colgo.
Da lei si fanno accarezzare.
Passare il capodanno dai miei mi fa tornare adolescente. Lasagne, polpette, a mezzanotte zampone e lenticchie e il sorriso di Carlo Conti. Su Meet con gli altri, durante lo scambio di auguri, faccio un discorso contorto sulle relazioni e la solitudine che non capisco neanche io. Lidia e Patrizio mi scrutano preoccupati, Marco dice: Ragazzi, sarà un anno bello lungo.
Rientro due giorni dopo, trovo bollette e condominio ad aspettarmi nella buca delle lettere. Il mio conto collassa in un buco nero e quegli stronzi dei miei capi ancora non ci fanno sapere se passeremo da cassaintegrati a disoccupati. Mi aggiro per le stanze. Ogni cosa è lontana, estranea, come se non mi appartenesse. Una vita in frantumi.
Sistemo il letto lasciato sgualcito da una settimana, passo l’aspirapolvere. Tolgo il tuo capello da sotto la sedia. Butto quello che resta di te, oggetti un tempo importanti e oggi pattume.
Accumulo tre buste di roba e con l’occasione porto da mangiare ai gatti.
Il rosso sbuca dal cespuglio, si accorge di me e si ferma a metà strada, la zampa sollevata. Prendo una manciata di croccantini e gliela porgo. Lui osserva i suoi compagni sgranocchiare, poi fissa me, la mia mano. Muovo un passo appena, in precario equilibrio. Lui avanza un poco, la coda agitata, gli occhi fissi nei miei.
Quando arriva a un centimetro da me, faccio uno scatto d’impazienza e quello miagola via.
Trascorro gennaio a inviare curriculum. La direzione fino all’ultimo ci ha detto di stare tranquilli, che era solo un momento di crisi, ma la verità è che non fatturavamo da un anno. Niente sopravvive senza sostentamento.
Su Tinder ho qualche match ma solo tre chat attive, se così possiamo definire una sequela di Che fai nella vita, Dove andrai quando riapriranno, Ti piace De André. A Elena, che mi ispira perché ha una foto accanto a un corpo plastinato di Body Worlds, scrivo Sembra che il 2020 non sia mai esistito, un ano buttato. Leggo la sua esitazione. Poi risponde che ho scritto ano invece di anno e mette una faccina che si scompiscia.
Vorrei saper replicare.
Ho quasi finito il bustone, però sono riuscito ad avvicinare anche la gatta nera. Mentre le gratto la testa, una voce alle mie spalle dice Lei si chiama Eva Gatt, è incinta, mentre quello rosso laggiù è Giuliano, sempre diffidente. Mi volto. È la signora dei gatti. Dice di chiamarsi Luana e di abitare al sesto. Quasi tutti i randagi qui sono figli della sua Duchessa, morta qualche anno fa. Le dico che anche io ho perso la mia da poco. Da più di un anno, mi correggo. Lei annuisce, come se quello scostamento temporale fosse qualcosa di condiviso. Poi dice che qui nel condominio non tutti accettano la presenza degli animali. Si vede che sei una brava persona, conclude.
Quando risalgo, trovo il tuo messaggio: Come va?
Non ci sentiamo da sei mesi. Vorrei dirti che va nello schifo più assoluto. Che casa nostra è troppo grande per viverci da solo, soprattutto adesso che le tue cose non ci sono più e gli armadi sono mezzi vuoti. Che ancora non sono riuscito ad avvicinare il gatto rosso, quello che ti piaceva. Vorrei dirti ogni cosa e intanto è già passata mezz’ora.
Poi su Instagram vedo la tua storia di cinque minuti fa, con la scritta Happy e due cuori rossi.
Torno su WhatsApp e scrivo Tutto bene, tu?
L’anno scorso, oggi, dicevi di essere confusa. Ti rispondevo che era solo un periodo, poi tornavo a bestemmiare per l’allergia. Due mesi dopo avresti detto Dobbiamo parlare. Non sono mai stato bravo a cogliere i segnali.
Prima di pranzo scendo giù. Ho comprato una nuova busta, appena la scuoto si palesano tutti. Pallocchia si rotola, Eva Gatt sbuca dal nascondiglio dove tiene i suoi cinque cuccioli indifesi. Mi raggiunge Luana, restiamo a parlare. Le racconto di te, di noi, della nostra storia. Domanda che è successo.
È successo che siamo cresciuti insieme e a un certo punto abbiamo preso traiettorie diverse.
Restiamo ad ascoltare i suoni dei gatti, poi lei se ne esce che certi amori sono come le eclissi: due astri che si allineano quasi per miracolo, formando per un istante una corona magnifica, ma alla fine entrambi vanno per la propria strada.
Annuisco, sorpreso. Ho insegnato scienze al liceo, mi informa prima di parlarmi di un bel negozietto dietro la chiesa che vende telescopi scontati. Quella accanto all’erboristeria. La fisso, lei mi fissa di rimando.
Balbetto che non ho ancora avuto modo di conoscere il quartiere.
Allora mi racconta di un forno dove prende il pane caldo e di una libreria di remainder. Facci un salto, aggiunge.
Così, nel pomeriggio indosso la tuta e comincio a correre. Arrivo alla chiesa, passo davanti all’erboristeria, al negozio di astronomia, al forno. Oltre la libreria c’è un palazzone grigio con una parete tutta dipinta a murale. Mi inoltro per vicoli mai percorsi. Spezzo il fiato davanti a un piccolo stagno pieno di rane, accelero lungo una ciclabile invasa da fiori di campo. I quadricipiti bruciano sulla collinetta. Scanso qualche ramo prima di sbucare sull’altura.
Riprendo fiato osservando i palazzi illuminati dal sole. Sei rintocchi riecheggiano lontani.
Da qui, vedo il balcone spoglio al terzo piano. Dovrei metterci qualche pianta. Potrei anche rivedere la sistemazione delle stanze. Riempire tutti gli spazi vuoti che hai lasciato.
Quando rientro, vedo Luana correre verso il cancello. Ha il viso terreo e un mucchio di stracci fra le mani. Poi si accorge di me. Li hanno buttati nel secchione, dice. Forse li hanno avvelenati.
Mi precipito a prendere le chiavi e un quarto d’ora dopo siamo dal veterinario. Per tutto il tragitto Luana ha sussurrato parole dolci a quei corpi straziati. Barbieri, ha detto un paio di volte. Quel vecchio maledetto.
Aspettiamo fuori, in silenzio, ognuno trafitto dai propri pensieri. È stato qui, da questo dottore, che abbiamo portato Bianchina quando ha smesso di mangiare e cominciato a vomitare. Siamo venuti io, mamma, papà. C’eri anche tu, a ripetermi che sarebbe andato tutto bene. Ho creduto alle tue parole, ci ho sperato fino in fondo. Chissà se mentre mi stringevi il braccio già covavi il seme della nostra fine.
Quando il veterinario esce, il suo tono sterile ci comunica che non c’è stato nulla da fare. Luana scoppia in lacrime, e senza neanche accorgermene la sto abbracciando. Sento le ossa fragili di questa estranea tremarmi fra le mani.
Sotto casa si muove a piccoli passi, trascinando le ciabatte consumate come se il suo corpo avesse perso ogni forza. Il trucco sciolto dal pianto ha rivelato le crepe profonde sulla pelle avvizzita. Sembra la donna più vecchia, triste e sola del mondo. Quanto costa restare, penso fissando la sua vestaglia.
Puoi dare un’occhiata in giro? mi chiede a un tratto, la voce esile come il raschiare di unghie su una lavagna.
Ci penso io, le dico. Lei accenna un sorriso e dice Lo vedi, avevo ragione, sei un bravo ragazzo.
Faccio un giro, cerco fra cespugli ormai disabitati. Nulla si muove.
Accanto alla casetta del portiere trovo dei piatti di plastica, dentro c’è della carne macinata. Quando mi volto lui è lì. Mi sa che hai fatto bene a non fidarti, gli dico. Mi avvicino, lui scappa ma ogni tanto si volta a guardarmi. Seguo le sue movenze, il suo pelo rosso acceso dal tramonto.
Trovo altri tre piatti di carne, nascosti così bene che da solo non ce l’avrei fatta. Butto anche quelli, poi tiro fuori qualche croccantino dalle tasche. Lui non si avvicina, allora glieli lascio nel solito posto. Appena mi allontano comincia a sgranocchiare.
A passi lenti torno al portone. Giro la chiave nella toppa e lo vedo nel riflesso del vetro. Apro la porta, la tengo aperta un secondo in più.
Scatta dentro.
Marco mi chiede com’è andato il colloquio. Non so se sbilanciarmi prima della firma, per cui rispondo un neutro Bene. Poi scrivo se stasera gli va di venire a casa mia a conoscere il nuovo arrivato.
Alla fine ce l’hai fatta, risponde.
A fare che?
A chiamarla casa tua.
Illustrazione di Viola Falasconi